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lunedì 14 febbraio 2011

Il latino nella liturgia

Qualche giorno fa, nel sito Zenit e poi ripreso da numerosi altri siti, è stato pubblicato un intervento di padre Uwe Michael Lang, officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, a proposito della «Lingua della celebrazione liturgica». Prima di lasciare alla lettura di questo importante intervento, vorrei fare un commento soprattutto legato all'incipit, che presenta in modo chiaro il tema sviluppato nel seguito. Vi leggiamo: «La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi». In queste poche righe troviamo un elemento per certi aspetti nuovo, a cui non siamo certamente abituati: la lingua non serve solo per comunicare, ma è la struttura tramite la quale esprimere lo stato d'animo, la mens. A ben guardare, la lingua (almeno per l'utilizzo che se ne fa nella liturgia) non ha come unico obiettivo quello di comunicare; se è così vuol dire che non è necessario che tutto quello che viene detto durante un'azione liturgica (sia dal sacerdote che dai fedeli) debba per forza essere di immediata e facile comprensione. Ed infatti, continuando la lettura di quest'articolo di padre Lang, troviamo subito dopo: «Si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo». Attenzione: questo non significa che il latino annulli l'elemento della comprensibilità; ridurre non significa annullare. Se un testo, ad esempio cantato, è in latino anziché in italiano, è chiaro che la sua comprensione non è più immediata; ma non dimentichiamo che l'italiano è, tra le lingue moderne, quella che ha più affinità con le sue radici latine. Così, se invece di cantare "I cieli e la terra sono pieni della tua gloria" cantiamo "Pleni sunt coeli et terra gloria tua", oppure al posto di "Agnello di Dio che togli i peccati del mondo" cantiamo "Agnus Dei qui tollis peccata mundi", la comprensione, per quanto ridotta dal fatto che si canta in latino, è pressoché immediata; ed è così per la maggior parte delle parti dell'ordinario della Messa in latino.
Se, tuttavia, il latino comportasse solo una riduzione della comprensibilità, il bilancio risulterebbe inevitabilmente svantaggioso; padre Lang aggiunge che, a prezzo di una riduzione (modica, da quanto visto) della comprensione, col latino si guadagna in altri elementi, specie in quello espressivo. In questo senso faccio sempre l'esempio dell'inno eucaristico del Pange Lingua, che, almeno nella sua parte finale (il Tantum ergo), cantiamo ogni domenica (nella nostra parrocchia). Ora, una traduzione di un testo destinato al canto deve conciliare aspetti diversi: la fedeltà all'originale, il mantenimento del carattere poetico, in questo caso, e l'adesione alla melodia, per citarne alcuni. Per coloro che si sono cimentati nella traduzione di tale canto (e fra questi anche nomi illustri), sarà certamente risultato evidente come non sia possibile accontentare tutte queste richieste contemporaneamente, ma inevitabilmente, per soddisfare l'una, è necessario rinunciare all'altra. Ecco il risultato: riporto il testo originale, una traduzione abbastanza fedele e la "traduzione" riportata nel nostro repertorio diocesano "Amen. Maranathà!":

Tantum ergo Sacramentum
veneremur cernui:
et antiquum documentum
novo cedat ritui:
praestet fides supplementum
sensuum defectui.
Dunque tale Sacramento
veneriamo, prostrati
e l'antico rito
si muti nel nuovo;
presti aiuto la fede
quando i sensi tacciono.
Adoriamo il Sacramento
che Dio Padre ci donò.
Nuovo patto, nuovo rito
nella fede si compì.
Al mistero è fondamento
la parola di Gesù.

Come possiamo osservare dai tre testi messi a confronto, la traduzione fedele all'originale dà certamente il senso vero di quello che il Tantum ergo vuole esprimere, in questa prima strofa, ma non si presta in alcun modo ad un adattamento alle melodie esistenti, né ad altre appositamente composte; inoltre perde quella forma poetica del componimento latino, essendo infatti una parafrasi del testo. D'altra parte, la versione "Adoriamo il Sacramento" è scritta apposta per poter essere fedele alla melodia, ma dice tutt'altro: non è il Tantum ergo tradotto in lingua italiana. Vi è anche il tentativo di dare una sorta di struttura poetica (ponendo parole tronche alla fine dei versi pari), senza però creare delle rime e, sinceramente, dando piuttosto l'effetto di una cantilena infantile.
Cosa vuol dire questo? Non che la versione "Adoriamo il Sacramento" non sia liturgica; ma piuttosto che coloro i quali, mossi dalla volontà di rendere più accessibile il Tantum ergo ai fedeli, lo sostituissero con quest'altro testo, farebbero cantare un'altra cosa, non il Tantum ergo, un altro canto (benché sotto la stessa melodia). In sostanza, solo la lingua latina unita alla melodia gregoriana ha in sè quel senso di completezza, e risulta dunque insostituibile: rinunciando in parte alla immediatezza della comprensibilità, si guadagna in stile, espressione, musicalità ed anche devozione. C'è poi da aggiungere che, dove il testo latino non sia immediatamente associabile alle relative parole in italiano, in tutte le chiese è possibile realizzare sussidi ove, accanto al testo latino, è posta la traduzione; cosicché all'ascolto (o prima di esso) di questi brani cantati o recitati si può affiancare una completa comprensione.
Questi effetti dell'utlizzo del latino (non solo nel canto ma anche nelle parti recitate) sono quelli propri di una lingua sacra; per collegarsi a san Tommaso d'Aquino (come fa padre Lang), possiamo indicarli come solemnitas: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4). Devozione e rispetto sono proprie dell'arte sacra che orna le chiese, i paramenti e gli arredi sacri, della musica sacra, ma anche della lingua. E così come in una pittura l'iconografia, ad esempio, vuol far andare l'osservatore ben oltre quello che vede dipinto, oppure nel gregoriano la musica unita al testo contengono significati che possono essere compresi solo al di là di un ascolto superficiale, anche la liturgia espressa con la sua lingua propria, cioè il latino (come lo definisce il Concilio Vaticano II), rende più distante il mistero che viene celebrato, non per allontanarlo, ma per invogliare il fedele ad avvicinarvisi in un modo ancora più intimo della semplice intelligibilità.

Voglio per il momento fermarmi qui e lasciarvi, per chi lo volesse, alla lettura dell'intero intervento di padre Lang, che potrete visualizzare cliccando qui.

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