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giovedì 30 giugno 2011

Scola a Milano: il commento di un lettore

Ho ricevuto la richiesta, da parte di un lettore, di pubblicare un commento all'articolo di due giorni fa, in cui davo l'annuncio dell'avvenuta nomina del nostro patriarca Angelo Scola ad arcivescovo di Milano. A causa dell'estensione dell'intervento, e per una maggiore fruibilità di lettura, questo intervento non può essere scritto nella sezione dei commenti, così lo pubblico volentieri in questo nuovo articolo.

«È difficile nascondere che alla notizia della nomina del card. Angelo Scola ad arcivescovo di Milano noi Veneziani siamo stati colti da profondo sgomento: a nemmeno due mesi dal trasferimento di mons. Beniamino, la diocesi è stata provata ulteriormente dalla revoca della sua guida pastorale, e ciò ci sembra tanto più difficile da accettare anche a motivo della familiarità e del legame che in quasi 10 anni si è instaurato con il nostro Patriarca, una relazione che da sempre i veneziani sentono in modo speciale ma che, in questo caso, si era stabilita in modo ancor più solido e per certi aspetti inedito. Angelo Scola non è stato per Venezia soltanto un pastore, ma un vero attore, un protagonista della società civile: ne è prova l'eredità che ci lascia: un'istituzione universitaria d'eccellenza qual è il Marcianum, la fondazione Oasis, l'importante lascito culturale e intellettuale che ad essi, e non solo, è seguito, oltre all'instancabile azione pastorale volta a sanare i conflitti sociali, anche al di là dell'appartenenza alla comune fede cristiana.

Recentemente l'evento della visita pastorale del Papa nel Nordest ha rappresentato in modo assai chiaro che la missione spirituale e sociale non solo dei soggetti legati alle realtà ecclesiali ma, in modo esteso, di tutta quella popolazione è la continuazione di ciò che l'antico Patriarcato di Aquileia ha significato, una missione che si traduce nel vivere una vita buona corroborata dalla comune fede religiosa professata, che sia anche il riflesso della creatività e dell'operosità che ne hanno garantito l'esistenza allargandosi anche oltre i confini nazionali e delle singole civiltà: questo impulso certamente non si è esaurito, anche nel travaglio della società odierna. Dunque una vita buona e la professione di una fede comune che avevano ed hanno sicuramente più di un riferimento stabile, ma che riconoscono specialmente, almeno riguardo all'ambito religioso, nella persona del Patriarca una direzione da seguire, in ragione, come si diceva, di una storia religiosa e civile le cui radici sono le stesse. Di qui discende il prestigio della sede patriarcale, la cui continuità storica tra ieri e oggi è stata chiaramete significata dal pellegrinare del Papa da Aquleia a Venezia.

È risaputo che Venezia, unica sede Patriarcale nell'Occidente, insieme a Lisbona, è stata la sola che nel secolo scorso ha dato alla Chiesa ben tre papi, per questo e non solo il trasferimento a Milano ci appare inedito, e, poiché inaspettato, certamente più doloroso. Infatti non esistono precedenti a riguardo, dovendo relegare i casi di Gianalberto Badoer (Badoaro) (trasferito a Brescia nel 1706) e di Ján Pyrker (trasferito a Eger nel 1827) a debite eccezioni di natura essenzialmente politica: bisogna ricordare che la storia della Chiesa di quegli anni si è intrecciata sovente proprio con i meccanismi della politica, basti pensare che il ministero del cardinalato, benché concesso dalla sede apostolica, veniva richiesto dagli esercizi temporali, dagli stati sovrani come la Repubblica della Serenissima, che di fatto è la vera autorità temporale e spirituale agente in quel tempo, con potere di nomina e revoca dei proprio vescovi (per esempio i vescovi di Brescia di quegli anni erano tutti veneziani, essendo Brescia stata annessa da 300 anni alla Serenissima). Più tardi, negli anni del declino, Venezia subisce dapprima la spoliazione napoleonica e successivamente l'annessione all'Austria, perdendo di fatto ogni autorità sia in campo civile che religioso.

Occorre allora domandarsi: perché il Papa ha voluto il Patriarca alla guida della diocesi di Milano? Se da una parte - per le ragioni sopra esposte - questo inevitabilmente ha determinato il declassamento della diocesi Veneziana e in un certo senso la perdita dell'antico prestigio, per cui tanti fedeli ne sono rimasti amareggiati, occorre anche spiegare, senza nascondersi, che la ragione di fondo risiede nella crisi in cui versa da tempo la diocesi ambrosiana, apparsa tanto grave che per risolverla il Papa ha ritenuto di inviare la medicina più efficace, la migliore secondo lui, stante il fattore dell'età rappresentasse un detraente. Non sto qui a dilungarmi sulle ragioni e sui sintomi di questa crisi, mi basti citare alcuni casi eclatanti quali la controversa redazione del nuovo lezionario ambrosiano, la mancata recezione ed anzi l'avversione al motu proprio "Summorum Pontificum", il consistente calo delle vocazioni sacerdotali e le voci di dissenso che sovente si sono levate da molte personalità di prim'ordine di cui l'arcivescovo emerito si è circondato, come mons. Manganini. A questo si accompagna un fattore ancora più stringente, che molti autorevoli vaticanisti non hanno mancato di sottolineare, vale a dire le accuse e i veleni che per più di un anno hanno attraversato l'Istituto Toniolo, vera "cassaforte culturale ed economica dell'Università Cattolica", al centro di conflitti su nomine e gestione, tanto da creare un vero e proprio caso diplomatico (recentemente Tettamanzi è stato convocato in Vaticano a colloquio con il Papa e il Segretario di Stato). Una delle chiavi della nomina sta proprio in questo, cioè nell'incapacità dell'arcivescovo di gestire queste tensioni, e certamente il nuovo arcivescovo non potrà fare a meno di confrontarsi fin dall'inizio con una realtà tanto delicata, potendo però avvalersi del suo bagaglio di amministratore capace maturato a Venezia, oltre che di procacciatore di risorse, come gli anni da Patriarca hanno dimostrato.

Resta a questo punto la questione dolorosa della successione: e qui si tratta di interpretare il ruolo che Venezia ha ed avrà nel prossimo futuro, considerando anche il fatto che il quadro del tessuto sociale del veneziano e dell'intero Nordest è ben lontano dall'apparire di semplice gestione, con i suoi flussi turistici da primato nazionale che incidono in modo non indolore sulla demografia di queste terre ed anche sulle relazioni inter-personali (il caso di Venezia e del suo litorale sono un esempio illuminante). Un quadro, dunque, di tensioni sociali che ancora faticano a trovare soluzione, inserito in un contesto di crisi economica, e più in generale di crisi dei valori, che mette in discussione istituti che nella società civile di oggi appaiono sempre più come inattuali e superati.
C'è da dire anche che dopo Angelo Scola Venezia non sarà più la stessa di prima e di questo la nomina del successore dovrà tener presente: se sarà uno dei nomi vagliati e scartati per Milano, ebbene questa, inevitabilmente, rappresenterà un'involuzione e sarebbe davvero difficile da accettare. Se da una parte è vero che occorre pregare lo Spirito Santo, dall'altra parte, come in tutte le cose e come è stato per la evidente forzatura che ha rappresentato il caso di Milano, si rende necessaria, una certa dose di pragmatismo, unita naturalmente alla lungimiranza pastorale; viene da chiedersi: chi prenderà in mano i tanti capitoli lasciati incompiuti dalla partenza di Scola, primo fra tutti il neo costituito polo accademico? Chi riannoderà i fili e gli spunti dei tanti discorsi del Papa in visita a Venezia, anche in vista del Convegno inter-diocesano di Aquileia 2? Chi sarà capace di continuare il dialogo interreligioso con le confessioni non cristiane e chi potrà affacciarsi con autorevolezza alla finestra dell'Oriente, cui Venezia è consustanziale? Certamente non potrà essere qualcuno improvvisato, e mi risulta difficile credere che un diplomatico o un vescovo cha abbia come credenziale una semplice affinità di tipo geografico possa fare al caso.

Personalmente un'idea ce l'avrei, e francamente, sic stantibus rebus, mi sembra francamente l'unica via praticabile: non serve andare troppo lontano, se si ricorda che Scola era nato a Malgrate, basterebbe spostarsi solo un di un poco più a sud, per arrivare in Brianza, in un paese che si chiama Merate, e che alla fine non ci suonerebbe nemmeno così estraneo».

Lettera firmata

mercoledì 29 giugno 2011

60 anni da sacerdote nel segno di Pietro

Esattamente sessant'anni fa, il 29 giugno 1951, un giovane ventiquattrenne si prostrava nel Duomo di Frisinga davanti al Santissimo Sacramento e veniva ordinato sacerdote. Oggi, il 29 giugno 2011, quel sacerdote festeggia un così importante anniversario da Papa, e proprio nel giorno in cui la Santa Chiesa ricorda con solennità i Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma e di tutta la Chiesa romana. Diventa così per noi una ricorrenza gioiosa ed un'occasione per pregare il Signore per il nostro Papa Benedetto, affinché lo conservi ancora nel suo ministero sacerdotale e di successore dell'Apostolo Pietro, e gli doni la forza di combattere contro le forze del male che, come il Signore promise a Pietro, non prevarranno.
Qualche giorno fa la nostra parrocchia ha inviato a nome di tutta la comunità una lettera di auguri e congratulazioni direttamente al Santo Padre (speriamo che, malgrado i disguidi delle nostre poste, sia arrivata a destinazione in tempo); ma possiamo esprimere la nostra vicinanza e gioia per il Papa direttamente, essendogli vicini nella preghiera. Il cardinale Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, ha inviato a tutti i vescovi una missiva nella quale spronava tutte le diocesi a dedicare sessanta ore di Adorazione Eucaristica con l'intenzione di preghiera particolare per il Santo Padre. Anche noi, nel nostro piccolo, possiamo unirci alla Chiesa Cattolica che ringrazia il Signore per il suo Vicario in terra e implora su di lui la Sua divina protezione; ad esempio recitando un rosario, o anche solo un mistero del rosario, per le intenzione del pontefice, oppure anche soltanto dicendo un Pater Ave Gloria.
Inoltre, per chi lo desiderasse, in diretta su TV2000 (canale 14 del digitale terrestre) e su Telepace sarà possibile vedere la diretta della Santa Messa celebrata dal Papa nella Basilica Vaticana a partire dalle ore 9:30. Di seguito pubblichiamo il testo della lettera inviata dalla nostra parrocchia al Santo Padre e un brano musicale, l'antifona Tu es Petrus, musicata dal principe della musica sacra, Giovanni Pierluigi da Palestrina; si tratta delle parole che Nostro Signore Gesù Cristo rivolse direttamente all'Apostolo Pietro, indicando che la missione del Papa deriva direttamente da Gesù Cristo e non è una invenzione dell'uomo, come taluni pensano.

Lettera della parrocchia a Sua Santità
Papa Bendetto XVI

Caorle, 20 giugno 2011

Vostra Santità

La comunità di Santo Stefano che è in Caorle desidera rivolgerVi un caloroso augurio per il sessantesimo anniversario della Vostra ordinazione sacerdotale. La coincidenza di questa fausta ricorrenza con la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rappresenta l'occasione per l'intera comunità di ringraziare il Signore per averVi donato alla Chiesa e di invocare l'intercessione dei Santi patroni della Chiesa cattolica romana affinché il Signore nostro Gesù Cristo accompagni e conservi Vostra Santità nel compito di pascere il gregge che Egli affidò al suo Vicario in terra.
Come in occasione della toccante visita nella nostra terra, compresa tra Aquileia e Venezia, ribadiamo con forza e con gioia l'augurio «W IL PAPA» che abbiamo scritto sulla nostra spiaggia nell'indimenticabile sera del 7 maggio scorso, quando ha sorvolato i nostri lidi, e che rimane indelebilmente scolpita in tutti i nostri cuori.
Tanti auguri, Santità!

Con riconoscenza e filiale devozione
i parroci in solidum e la comunità di Caorle






Tu es Petrus,
et super hanc petram
aedificabo Ecclesiam meam,
et portae inferi
non prevalebunt
adversum Eam.
Et tibi dabo
claves regni coelorum.
Tu sei Pietro,
e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa,
e le porte degli inferi
non prevarranno
contro di Essa.
E a te darò
le chiavi del Regno dei Cieli.

martedì 28 giugno 2011

Le parole del patriarca alla diocesi

“Voglio vivere questa nomina come uno scambio di amore”. Con queste parole il cardinale patriarca di Venezia Angelo Scola ha annunciato alla comunità veneziana la propria nomina ad arcivescovo di Milano, appena ufficializzata dalla Santa Sede. L’annuncio è stato dato in contemporanea a mezzogiorno dalla sala stampa vaticana e dallo stesso card. Scola nel Palazzo patriarcale di fronte a vescovi, sacerdoti, fedeli e giornalisti convocati per la circostanza. “Potete ben capire come non sia facile per me darvi questa notizia – ha esordito il porporato -. E proprio per questo saprete essere magnanimi nei miei confronti. Vi dico semplicemente che ho accolto in obbedienza la decisione del Papa perché è il Papa”. “Debbo riconoscere – ha proseguito il patriarca - che in questo momento il mio cuore è un po’ travagliato. Da una parte, ci sono il fascino della splendida avventura vissuta nelle terre di Marco che dura ormai quasi da un decennio, e il dolore per il distacco da voi che, per dirlo con l’Apostolo Paolo, «mi siete diventati cari»”; dall’altra, “mi aspetta la Chiesa di Milano, quella in cui sono stato svezzato contemporaneamente alla vita e alla fede”. Tuttavia “molto di più che questi argomenti di carattere personale, conta la disposizione ad accogliere il disegno di Dio nella mia vita” che “passa dall’azione dello Spirito Santo nella Chiesa e in essa, in modo speciale, dal ministero del Santo Padre”.
“Dio è sempre più grande e il Suo disegno su di noi, quando è accolto con animo aperto, è sempre il più conveniente, non solo per la propria persona ma anche per quanti ci sono stati affidati” ha detto ancora il card. Scola. Di qui l’esortazione: “Siamo chiamati a guardare il disegno del Padre, voi ed io insieme, con gli occhi ed il cuore di chi ama la Chiesa nella sua splendente universalità che poggia su un’incessante comunione tra le Chiese particolari: da Marco ad Ambrogio, da San Lorenzo Giustiniani a San Carlo, per limitarmi alle radici profonde delle Chiese che sono in Venezia e in Milano”. “Voglio vivere questa nomina come uno scambio di amore” ha assicurato il card. Scola. “Con questo spirito – ha aggiunto - accolgo la decisione del Santo Padre e chiedo a voi di fare parimenti”. Quindi alcuni dati “tecnici”: “Lascio la vita del Patriarcato in ottime mani”; “il popolo cristiano e, soprattutto, il presbiterio veneziano, sono garanzia di un futuro pieno di speranza”. Il card. Scola ha informato di essere stato nominato dal Papa amministratore apostolico, con le facoltà di vescovo diocesano, fino al 7 settembre. Dal giorno successivo mons. Beniamino Pizziol, vescovo di Vicenza, gli succederà nell’incarico fino alla presa di possesso del nuovo patriarca.

Fonte: SIR

Discorso del patriarca

Eminenza, Eccellenza,

Fratelli nel sacerdozio,

Carissimi fedeli,

Vi ho convocato in questa preziosa Sala del Tintoretto per comunicarVi la decisione del Santo Padre, portata a mia conoscenza qualche giorno fa, di nominarmi Arcivescovo di Milano.

Potete ben capire come non sia facile per me darVi questa notizia. E proprio per questo saprete essere magnanimi nei miei confronti.

Vi dico semplicemente che ho accolto in obbedienza la decisione del Papa perché è il Papa.

Con sincerità debbo riconoscere che in questo momento il mio cuore è un po’ travagliato. Da una parte, ci sono il fascino della splendida avventura vissuta nelle terre di Marco che dura ormai quasi da un decennio, e il dolore per il distacco da Voi che, per dirlo con l’Apostolo Paolo, «mi siete diventati cari» (1Ts 2,8); dall’altra, mi aspetta la Chiesa di Milano, quella in cui sono stato svezzato contemporaneamente alla vita e alla fede.

Tuttavia molto di più che questi argomenti di carattere personale, conta la disposizione ad accogliere il disegno di Dio nella mia vita. Sono certo che questo disegno passa dall’azione dello Spirito Santo nella Chiesa e in essa, in modo speciale, dal ministero del Santo Padre. Nonostante i miei limiti, grazie all’educazione ricevuta fin dall’infanzia, ho imparato che Dio è sempre più grande e il Suo disegno su di noi, quando è accolto con animo aperto, è sempre il più conveniente, non solo per la propria persona ma anche per quanti ci sono stati affidati.

Siamo quindi chiamati a guardare il disegno del Padre, Voi ed io insieme, con gli occhi ed il cuore di chi ama la Chiesa nella sua splendente universalità che poggia su un’incessante comunione tra le Chiese particolari: da Marco ad Ambrogio, da San Lorenzo Giustiniani a San Carlo, per limitarmi alle radici profonde delle Chiese che sono in Venezia e in Milano.

Voglio vivere questa nomina come uno scambio di amore. Mi ha confortato in questi giorni una bella affermazione del nostro Proto-Patriarca contenuta ne “Il capitolo dell’amore” (XI, 1): «Nessuno è mai avvinto più ardentemente di quanto è avvinto dall’amore. E non si può non amare, quando si sa di essere amati. E che si è amati e si ama, lo si intende dai doni che ci si scambia in testimonianza di questo amore». Con questo spirito accolgo la decisione del Santo Padre e chiedo a Voi di fare parimenti.

Tengo a dirVi che lascio la vita del Patriarcato in ottime mani. La simultanea partenza di S.E. Mons. Beniamino Pizziol e la mia possono, di primo acchito, creare qualche sconcerto. Eppure, esaminate le cose con il realismo della fede, sono certo che il popolo cristiano e, soprattutto, il presbiterio veneziano, sono garanzia di un futuro pieno di speranza. La Visita Pastorale e il modo con cui tutta la Diocesi e la società civile hanno vissuto e stanno cominciando a mettere a frutto il dono della presenza del Papa tra noi ne sono solida conferma.

I mesi che ci separano dalla nomina del nuovo Patriarca non lasceranno la Diocesi senza guida. Il Santo Padre mi ha nominato Amministratore Apostolico, con le facoltà di Vescovo diocesano, fino al giorno 7 settembre. Inoltre, già da ora posso comunicare di aver chiesto che S.E. Mons. Beniamino Pizziol mi succeda come Amministratore Apostolico dal giorno 8 settembre fino alla presa di possesso del nuovo Patriarca.

A tenore di quanto stabilito dalle norme della Chiesa, non è possibile procedere alla nomina del Vicario Generale. È mia intenzione, tuttavia, portare a termine la consultazione perché possa essere di aiuto per il futuro. Inoltre, da oggi cessano le facoltà dei Vicari Episcopali, così come le funzioni dei Consigli Presbiterale e Pastorale. Tuttavia, per assicurare il normale svolgimento della vita nel Patriarcato, mi è consentito di procedere alla nomina di Delegati (cf. canoni 416-417 e Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Apostolorum successores, Appendice nn. 233-247).

Invito i sacerdoti, le comunità parrocchiali e religiose, ad elevare ferventi preghiere per la nomina del nuovo Patriarca e per le necessità del Patriarcato. Nella Basilica Cattedrale di San Marco e in tutte le altre chiese della Diocesi si celebrino Sante Messe con il formulario previsto dal Messale romano per l’elezione del Vescovo (cf. Apostolorum successores n. 247).

Avremo modo in occasione della Festa del Redentore e degli atti di congedo, agli inizi di settembre, di ritornare sul cammino di questi anni, sul futuro della nostra Chiesa e della nostra amata Venezia di terra e di mare. Potrò così ringraziare debitamente della comunione e della collaborazione che mi è stata offerta in questi anni, a cominciare dalla discreta e preziosa amicizia del Cardinale Marco.

Voglio rivolgere un saluto molto intenso a quanti stanno partecipando ai Grest, ai campi scuola, alle vacanze estive. Ho nel cuore in modo speciale e chiedo la preghiera dei bambini, degli anziani, degli ammalati e dei più poveri ed emarginati. Così come mi affido particolarmente alla preghiera dei monasteri del nostro Patriarcato.

Per ora rinnoviamo il nostro affidamento alla tenera protezione della Vergine Nicopeia che anche in questa occasione ci accompagnerà alla vittoria della fede, della speranza e della carità.


+ Angelo Card. Scola


Venezia, 28 giugno 2011

Il patriarca Angelo Scola traslato a Milano

Quest'oggi papa Benedetto XVI ha reso pubblica la nomina del cardinale Angelo Scola, finora patriarca della nostra diocesi, ad arcivescovo di Milano. Giungendo dalla carica di rettore della pontificia università lateranense, il cardinale Scola era stato destinato alla sede lagunare il 5 gennaio 2002, nominato da papa Giovanni Paolo II a succedere al patriarca emerito cardinale Marco Cè, che a sua volta aveva retto il patriarcato dal 1978, succedendo all'indimenticato cardinale Albino Luciani. Fece il suo ingresso solenne nella basilica di San Marco a Venezia nel marzo dello stesso anno, e ricevette il pallio degli arcivescovi metropoliti il 29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dalle mani del beato papa Giovanni Paolo II. Quindi, l'anno successivo, fu creato cardinale con il titolo dei Santi XII Apostoli, nel Concistoro del 21 ottobre.
A Venezia ha svolto una visita pastorale nel patriarcato, cominciata nel 2005 e conclusasi lo scorso 8 maggio, con l'Assemblea nella Basilica Cattedrale di San Marco presieduta da papa Benedetto XVI. Ha inoltre istituito, nel settembre 2003, il polo pedagogico accademico Studium Generale Marcianum, di cui diventa Gran Cancelliere, ed ha promosso la fondazione OASIS, che promuove la reciproca conoscenza e l'incontro tra cristiani e musulmani, con una particolare attenzione alla realtà delle minoranze cristiane nei paesi a maggioranza musulmana.
Nel novembre 2010, in occasione dell'imminente visita del Santo Padre Benedetto XVI, ha rivolto ai fedeli del patriarcato di Venezia la sua unica lettera pastorale.
Per la nostra cittadina di Caorle è importante il ricordo che ha lasciato nella nostra parrocchia, guidando in due occasioni la festa annuale della Madonna dell'Angelo di luglio, amministrando una volta ai ragazzi il Sacramento della Cresima, celebrando due volte la festa quinquennale della Madonna dell'Angelo e visitando in più circostanze la nostra parrocchia, nella quale volle che si tenessero due incontri dei bambini e ragazzi del patriarcato nonché una volta l'incontro delle coppie di sposi. Ha ricevuto, nell'estate 2004, la cittadinanza onoraria di Caorle, per volontà della giunta guidata dal sindaco Marco Sarto.
Non si può, inoltre, dimenticare il suo impegno per la costruzione della nuova chiesa di Porto Santa Margherita, tanto voluta dall'attuale parroco don Antonio Gusso, che ha consacrato personalmente due anni fa, nel 2009, e dei suoi molteplici interventi nel monastero del Marango, dove lo scorso anno ha celebrato la professione alla vita monastica di un membro di quella comunità.
Insieme all'augurio perché la sua missione di pastore non cessi di produrre buoni frutti ed una particolare preghiera per l'impegnativo compito affidatogli dal papa, non possiamo nascondere il nostro rammarico, sia per l'affetto che, dopo nove anni, si era ormai consolidato verso di lui da parte di tutte le realtà del patriarcato, sia per la situazione in cui si verrà a trovare nel prossimo futuro la nostra diocesi: traslato a Vicenza il vescovo ausiliare, nonché vicario generale e stretto collaboratore del patriarca, mons. Beniamino Pizziol lo scorso aprile, oggi anche il capo della nostra comunità diocesana ci lascia. Vogliamo quindi rivolgere una accorata preghiera al Signore perché sostenga il nostro patriarcato in questo difficile momento di transizione, ed illumini il papa ed i vescovi suoi collaboratori nella nomina del nuovo pastore della nostra Chiesa.

domenica 26 giugno 2011

Corpus Domini - Omelia del Santo Padre

Giovedì scorso, quando nella città di Roma si è celebrata la solennità del Corpus Domini, il Santo Padre Benedetto XVI ha pronunciato l'omelia nella Santa Messa celebrata nella Basilica di San Giovanni in Laterano, cui è seguita la Processione Eucaristica con il Santissimo Sacramento fino alla Basilica di Santa Maria Maggiore.

Cari fratelli e sorelle!

La festa del Corpus Domini è inseparabile dal Giovedì Santo, dalla Messa in Caena Domini, nella quale si celebra solennemente l’istituzione dell’Eucaristia. Mentre nella sera del Giovedì Santo si rivive il mistero di Cristo che si offre a noi nel pane spezzato e nel vino versato, oggi, nella ricorrenza del Corpus Domini, questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio, e il Santissimo Sacramento viene portato in processione per le vie delle città e dei villaggi, per manifestare che Cristo risorto cammina in mezzo a noi e ci guida verso il Regno dei cieli. Quello che Gesù ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti. Nella Messa in Caena Domini dello scorso Giovedì Santo ho sottolineato che nell’Eucaristia avviene la trasformazione dei doni di questa terra – il pane e il vino – finalizzata a trasformare la nostra vita e ad inaugurare così la trasformazione del mondo. Questa sera vorrei riprendere tale prospettiva.

Tutto parte, si potrebbe dire, dal cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della morte alla quale andava incontro. Il fatto che il Sacramento dell’altare abbia assunto il nome “Eucaristia” – “rendimento di grazie” – esprime proprio questo: che il mutamento della sostanza del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo è frutto del dono che Cristo ha fatto di se stesso, dono di un Amore più forte della morte, Amore divino che lo ha fatto risuscitare dai morti. Ecco perché l’Eucaristia è cibo di vita eterna, Pane della vita. Dal cuore di Cristo, dalla sua “preghiera eucaristica” alla vigilia della passione, scaturisce quel dinamismo che trasforma la realtà nelle sue dimensioni cosmica, umana e storica. Tutto procede da Dio, dall’onnipotenza del suo Amore Uno e Trino, incarnato in Gesù. In questo Amore è immerso il cuore di Cristo; perciò Egli sa ringraziare e lodare Dio anche di fronte al tradimento e alla violenza, e in questo modo cambia le cose, le persone e il mondo.

Questa trasformazione è possibile grazie ad una comunione più forte della divisione, la comunione di Dio stesso. La parola “comunione”, che noi usiamo anche per designare l’Eucaristia, riassume in sé la dimensione verticale e quella orizzontale del dono di Cristo. E’ bella e molto eloquente l’espressione “ricevere la comunione” riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico. In effetti, quando compiamo questo atto, noi entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, nel dinamismo di questa vita che si dona a noi e per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella santa Eucaristia. Lo abbiamo ascoltato poco fa, nella seconda Lettura, dalle parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Corinto: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,16-17).

Sant’Agostino ci aiuta a comprendere la dinamica della comunione eucaristica quando fa riferimento ad una sorta di visione che ebbe, nella quale Gesù gli disse: “Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me” (Conf. VII, 10, 18). Mentre dunque il cibo corporale viene assimilato dal nostro organismo e contribuisce al suo sostentamento, nel caso dell’Eucaristia si tratta di un Pane differente: non siamo noi ad assimilarlo, ma esso ci assimila a sé, così che diventiamo conformi a Gesù Cristo, membra del suo corpo, una cosa sola con Lui. Questo passaggio è decisivo. Infatti, proprio perché è Cristo che, nella comunione eucaristica, ci trasforma in Sé, la nostra individualità, in questo incontro, viene aperta, liberata dal suo egocentrismo e inserita nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria. Così l’Eucaristia, mentre ci unisce a Cristo, ci apre anche agli altri, ci rende membra gli uni degli altri: non siamo più divisi, ma una cosa sola in Lui. La comunione eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto, e con la quale forse non ho nemmeno un buon rapporto, ma anche ai fratelli lontani, in ogni parte del mondo. Da qui, dall’Eucaristia, deriva dunque il senso profondo della presenza sociale della Chiesa, come testimoniano i grandi Santi sociali, che sono stati sempre grandi anime eucaristiche. Chi riconosce Gesù nell’Ostia santa, lo riconosce nel fratello che soffre, che ha fame e ha sete, che è forestiero, ignudo, malato, carcerato; ed è attento ad ogni persona, si impegna, in modo concreto, per tutti coloro che sono in necessità. Dal dono di amore di Cristo proviene pertanto la nostra speciale responsabilità di cristiani nella costruzione di una società solidale, giusta, fraterna. Specialmente nel nostro tempo, in cui la globalizzazione ci rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, il Cristianesimo può e deve far sì che questa unità non si costruisca senza Dio, cioè senza il vero Amore, il che darebbe spazio alla confusione, all’individualismo, alla sopraffazione di tutti contro tutti. Il Vangelo mira da sempre all’unità della famiglia umana, un’unità non imposta da fuori, né da interessi ideologici o economici, bensì a partire dal senso di responsabilità gli uni verso gli altri, perché ci riconosciamo membra di uno stesso corpo, del corpo di Cristo, perché abbiamo imparato e impariamo costantemente dal Sacramento dell’Altare che la condivisione, l’amore è la via della vera giustizia.

Ritorniamo ora all’atto di Gesù nell’Ultima Cena. Che cosa è avvenuto in quel momento? Quando Egli disse: Questo è il mio corpo che è donato per voi, questo è il mio sangue versato per voi e per la moltitudine, che cosa accadde? Gesù in quel gesto anticipa l’evento del Calvario. Egli accetta per amore tutta la passione, con il suo travaglio e la sua violenza, fino alla morte di croce; accettandola in questo modo la trasforma in un atto di donazione. Questa è la trasformazione di cui il mondo ha più bisogno, perché lo redime dall’interno, lo apre alle dimensioni del Regno dei cieli. Ma questo rinnovamento del mondo Dio vuole realizzarlo sempre attraverso la stessa via seguita da Cristo, quella via, anzi, che è Lui stesso. Non c’è nulla di magico nel Cristianesimo. Non ci sono scorciatoie, ma tutto passa attraverso la logica umile e paziente del chicco di grano che si spezza per dare vita, la logica della fede che sposta le montagne con la forza mite di Dio. Per questo Dio vuole continuare a rinnovare l’umanità, la storia ed il cosmo attraverso questa catena di trasformazioni, di cui l’Eucaristia è il sacramento. Mediante il pane e il vino consacrati, in cui è realmente presente il suo Corpo e Sangue, Cristo trasforma noi, assimilandoci a Lui: ci coinvolge nella sua opera di redenzione, rendendoci capaci, per la grazia dello Spirito Santo, di vivere secondo la sua stessa logica di donazione, come chicchi di grano uniti a Lui ed in Lui. Così si seminano e vanno maturando nei solchi della storia l’unità e la pace, che sono il fine a cui tendiamo, secondo il disegno di Dio.

Senza illusioni, senza utopie ideologiche, noi camminiamo per le strade del mondo, portando dentro di noi il Corpo del Signore, come la Vergine Maria nel mistero della Visitazione. Con l’umiltà di saperci semplici chicchi di grano, custodiamo la ferma certezza che l’amore di Dio, incarnato in Cristo, è più forte del male, della violenza e della morte. Sappiamo che Dio prepara per tutti gli uomini cieli nuovi e terra nuova, in cui regnano la pace e la giustizia – e nella fede intravediamo il mondo nuovo, che è la nostra vera patria. Anche questa sera, mentre tramonta il sole su questa nostra amata città di Roma, noi ci mettiamo in cammino: con noi c’è Gesù Eucaristia, il Risorto, che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Grazie, Signore Gesù! Grazie per la tua fedeltà, che sostiene la nostra speranza. Resta con noi, perché si fa sera. “Buon Pastore, vero Pane, o Gesù, pietà di noi; nutrici, difendici, portaci ai beni eterni, nella terra dei viventi!”. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Testo originale: www.vatican.va

venerdì 24 giugno 2011

Ut queant laxis - Inno a San Giovanni

Il 24 giugno, sei mesi prima del Natale, ricorre per la Chiesa la natività di San Giovanni Battista, il precursore di Cristo. Il giorno dell'Annunciazione dell'Angelo a Maria Santissima, infatti, egli dice alla Madonna che la sua parente, Elisabetta, era al sesto mese di gravidanza; e con un semplice calcolo, si può presupporre che la nascita di Giovanni sia avvenuta circa sei mesi prima di quella di Cristo. Non solo, ma alcuni recenti studi sull'esattezza della datazione del Natale del Signore nei mesi invernali si basa proprio sul racconto di san Luca, quando nel suo Vangelo racconta l'annuncio dell'Angelo a Zaccaria, nel tempio.
Di Giovanni Battista troviamo scritta nel Vangelo la natura della sua missione; nel cantico di Zaccaria, suo padre, è additato «Profeta dell'Altissimo», chiamato a dare al popolo di Dio «la conoscenza della Salvezza nella remissione dei suoi peccati» (Lc 1, 76-77). E, sempre nel Vangelo, troviamo lo stesso Signore nostro Gesù Cristo che lo indica come suo precursore: «Più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista» (Mt 11, 9-11). A lui la Chiesa dedica due ricorrenze nel corso dell'anno liturgico: oltre alla natività si ricorda anche il suo martirio, il 29 agosto.
Una particolarità legata alla solennità della natività del Battista riguarda la musica liturgica. L'inno vespertino di questa solennità è l'Ut queant laxis, al quale, possiamo dire, tutta la musica del passato ed anche quella odierna deve parte della sua esistenza. Sulla base di quest'inno, scritto da Paolo Diacono, Guido d'Arezzo ricavò il nome delle note che ancora oggi utilizziamo; poiché, infatti, ogni verso comincia con una nota di un grado più alto rispetto alla precedente, partendo dalla più bassa ed arrivando alla più alta, egli trasse il nome di ciascuna nota dalla sillaba corrispondente alla prima nota di ciascun verso della prima strofa:

Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum,
Solve polluti
Labii reatum,
Sancte Ioannes.

Inizialmente furono ricavati i nomi delle prime sei note, che costituivano l'esacordo utilizzato per i canti gregoriani dell'epoca, giacché non era utilizzata anche la settima nota di quella che oggi chiamiamo scala musicale; con l'evolversi della scrittura musicale, alla settima nota fu dato come nome "Si", ovvero le iniziali di Sancte Ioannes. Dunque i nomi delle sette note erano Ut - Re - Mi - Fa - Sol - La - Si; solo successivamente, nel XVII secolo, il nome della prima nota fu cambiato da Ut a Do, in onore del musicologo fiorentino Giovan Battista Doni, prendendone la prima sillaba del cognome. Tra l'altro è curioso notare come il suo nome fosse proprio Giovanni Battista.
Per questo motivo non è sbagliato dire che tutta la musica deve la propria esistenza alla musica religiosa, ed in particolare al canto gregoriano ed ai suoi cultori dei secoli addietro. L'origine del nome delle note musicali è una forte testimonianza di come in passato la musica profana (cioè quella non adatta al tempio) nascesse e prendesse esempio da quella sacra. Un po' il contrario (constatiamo con dolore) di quello che succede oggi nella maggior parte delle nostre chiese, dove si vuole che la musica sacra segua le orme di quella profana; ma chi ha studiato un minimo di estetica e storia della musica capisce bene che questa pretesa è un fallimento in partenza, sarebbe come se il padre volesse imparare dal figlio come vivere nel mondo.
Non ci resta che invocare l'intercessione di san Giovanni Battista, il primo tra i nati di donna, affinché il canto sacro torni ad essere davvero sacro, e sia anch'esso il primo tra le musiche create dall'uomo, come si addice alla musica composta per il Signore.
Di seguito, come di consueto, alcune proposte musicali: la prima in canto gregoriano, la seconda musicata da Giovanni Battista Gieri, maestro di cappella della cattedrale di Pisa nel XVII secolo.





Ut queant laxis
resonare fibris
mira gestorum
famuli tuorum,
solve polluti
labii reatum
Sancte Ioannes.

Nuntius caelo
veniens supremo,
te patri magnum
fore nasciturum,
nomen et vitae
seriem gerendae
ordine promit.

Ille promissi
dubius superni
perdidit promptae
modulos loquelae;
sed reformasti
genitus peremptae
organa vocis.

Ventris obstruso
positus cubili
senseras regem
thalamo manentem;
hinc parens nati
meritis uterque
abdita pandit.

Laudibus cives
celebrant superni
te, Deus simplex
pariterque Trine;
supplices ac nos
veniam precamur:
parce redemptis. Amen.
Affinché possano su grandi
corde far risuonare
i miracoli delle gesta
tue i servi,
sciogli dell'impuro
labbro il peccato,
o San Giovanni.

Un Nunzio dal cielo
supremo veniente,
al padre la tua grande
nascita,
il nome e della vita
lo svolgimento
rivelò con ordine.

Egli alla promessa
celeste dubbioso
perdette della pronta
loquela i moduli;
ma guaristi,
nato, dell'impedita
voce i registri.

Rinchiuso del ventre
nel giaciglio posto
avvertisti il re
che prendeva dimora;
così le madri, per i dei figli
meriti, entrambe
svelarono gli arcani misteri.

Con lodi i cittadini
celesti celebrano
te, o Dio semplice
e parimenti Trino;
supplici anche noi
imploriamo la grazia:
perdona ai redenti. Amen.

giovedì 23 giugno 2011

Terribili sviluppi sull'eutanasia

Su La Bussola Quotidiana di oggi appare un articolo a firma di Thaddeus Baklinski (traduzione di Marco Respinti), il quale propone una sconvolgente statistica sullo studio dei trapianti di organi, che mette a confronto i successi delle operazioni nel caso di pazienti donatori deceduti per cause naturali e quelli nel caso di pazienti uccisi tramite eutanasia (o eutanasizzati, per essere più politicamente corretti). La conclusione è sconcertante: si dice che gli organi dei pazienti eutanasizzati sarebbero più efficaci per i trapianti. La questione è molto seria: dell'eutanasia si parla spesso senza sapere granché sulle malattie dei pazienti, sulle possibilità effettive di guarigione o di sopravvivenza. Ma le notizie che arrivano dal Belgio parlano addirittura di eutanasie svolte senza il consenso esplicito del morituro, una deriva dalla quale mettono in guardia tutte le associazioni, soprattutto di stampo cattolico, che lottano contro la diffusione di questa pratica, erroneamente annoverata tra le terapie.
Il pericolo, come cita Baklinski sulla Bussola quotidiana, è facilmente prevedibile: in un mondo in cui dominano le ideologie più banali, la mentalità newage ed il materialismo, a partire da uno studio come questo sentiremo ben presto le opinioni di certi operatori sanitari e politici che rimprovereranno come egoisti e stupidi i malati (più o meno gravi) e le loro famiglie che decideranno di non ricorrere all'eutanasia, impedendo così ad altre persone di vivere con i loro organi. Come si può intuire, l'accostamento tra i trapianti d'organi e l'eutanasia farà presto breccia nelle menti deboli degli illuminati benpensanti (ed anticattolici), contaminandone il buonsenso, e non passerà molto, se le cose procederanno in questo modo, che questa triste profezia si avvererà.

L’eutanasia è ottima per i trapianti. Studio shock nel Belgio degli orrori
di Thaddeus Baklinski

Lovanio, Belgio - Un inquietante studio condotto da un gruppo di medici belgi, di cui ha dato notizia il periodico specialistico Applied Cardiopulmonary Pathophysiology, contempla l’uccisione di pazienti per via eutanasica in una sala adiacente a quelle in cui si svolgono le normali operazioni ospedaliere e quindi il loro trasporto nella stanza accanto per l’espianto degli organi subito dopo la constatazione del decesso. Lo studio afferma infatti che i polmoni di coloro che muoiono per eutanasia sono più adatti a interventi di trapianto rispetto a quelli asportati da vittime accidentali.

Dick van Raemdonck, del Dipartimento di Chirurgia toracica della Clinica universitaria Gasthuisberg, nonché capo dell’équipe impegnata nello studio pubblicato in forma di rapporto con il titolo Initial experience with transplantation of lungs recovered from donors after euthanasia, ovvero “Prima esperienza di trapianto di polmoni prelevati da donatori sottoposti a eutanasia”, ha paragonato tra loro, per il periodo compreso fra il 2007 al 2009, i risultati ottenuti con il trapianto di polmoni prelevati da persone morte per trauma, tipicamente in seguito a gravi ferite alla testa, e quelli raggiunti con l’utilizzo di polmoni provenienti da donatori eutanasizzati.

Secondo il rapporto, tre pazienti su quattro di coloro a cui sono stati trapiantati polmoni provenienti da pazienti eutanasizzati sono stati dimessi dall’ospedale dopo 33 giorni «con eccellenti funzioni d’innesto post-trapianto e un precoce buon esito ricettivo», e tra quei riceventi si è verificato «un solo decesso nel reparto di terapia intensiva causato da problemi indipendenti dal trapianto».

«Tutti i donatori», si osserva nel rapporto, «avevano espresso il desiderio di offrire i propri organi una volta che la loro richiesta di accedere all’eutanasia fosse stata accettata secondo quanto stabilito dalla legge belga. Tutti i donatori soffrivano di insostenibili disordini non maligni».

Il rapporto afferma che fra i quattro donatori eutanasizzati presi in considerazione uno era affetto da «insostenibile disordine mentale» mentre i restanti tre soffrivano «di una debilitante malattia benigna, tipo un disordine di natura neurologica o muscolare».

Per procedere all’operazione, i donatori sono stati ricoverati in ospedale alcune ora prima della progettata eutanasia. Poi sono stati uccisi in una sala prossima a quelle in cui si svolgono i normali interventi clinici. Quindi i loro polmoni sono stati prelevati immediatamente dopo la conclamazione del decesso.

«In una sala adiacente a quella operatoria è stato predisposto un accesso venoso centrale», scrive il dottor Van Raemdonck nel rapporto. «Quindi i donatori sono stati eparinizzati (ovvero è stata iniettata loro dell’eparina, un anticoagulante) subito prima di assumere un cocktail di medicinali somministrato dal medico operante incaricato dell’eutanasia. Infine, come impone la legislazione belga per qualsiasi donatore di organi, il paziente è stato definito morto in base a criteri cardiorespiratorio da tre medici indipendenti. A questo punto il defunto è stato trasferito rapidamente, posizionato sul tavolo operatorio e intubato».

Il rapporto afferma che i donatori eutanasizzati ammontano al 23,5% di tutti i donatori belgi di polmoni deceduti per arresto cardiaco.

Il dottor Peter Saunders di Care Not Killing - una rete britannica composta di organizzazioni che si preoccupano dei diritti umani dei disabili, di gruppi per la garanzia dell’assistenza medica e delle cure palliative, nonché di associazioni d’ispirazione religiosa contrarie all’eutanasia - si è detto scioccato dell’indifferenza casual con cui è scritto quel rapporto.

«Mi ha sconvolto», ha detto con parole riportate dal quotidiano britannico The Telegraph, «la nonchalance con cui viene trattato l’argomento, quasi che uccidere pazienti per prelevarne gli organi sia la cosa più naturale del mondo. L’approccio scarno con cui il rapporto descrive il processo di espianto degli organi è particolarmente agghiacciante e mostra quale grado di collaborazione fra squadra eutanasica e chirurghi trapiantisti sia necessario per la riuscita dell’operazione: “preparateli per la scena di fianco alla sala operatoria, poi uccideteli e quindi spediteli dentro per il prelievo degli organi”. Il tutto con una sola giornata di lavoro del Nuovo Mondo Belga».

Come sottolinea il dottor Saunders, «dato che in Belgio la metà dei casi di eutanasia avviene senza la volontà espressa del malato, è solo una questione di tempo prima che gli organi siano prelevati dai pazienti senza consenso. Oggi in quel Paese i medici fanno cose che la maggior parte dei loro colleghi di altri Paesi del mondo giudicherebbe assolutamente orrende».

Ana Iltis, direttrice del Center for Bioethics Health and Society dell’Università di Wake Forrest nel North Carolina, in un intervento a Fox News, precisa: «Una volta accettata l’idea che i medici uccidano i pazienti, sembra logico che ne prelevino gli organi per i trapianti. La gente tende a rispondere con un “bleah”, ma questa riposta dovrebbe essere indirizzata all’eutanasia».

La Iltis fa riferimento a un rapporto stilato della Canadian Medical Association (CMA) che calcola il numero dei casi di eutanasia privi di esplicita richiesta da parte dei pazienti verificatisi in Belgio nel 2010. Secondo il CMA, il 20% degli infermieri belgi intervistati dai ricercatori ha preso parte a operazioni eutanasiche e quasi la metà di loro - un numero di persone compreso fra le 120 e le 248 - ha ammesso di aver partecipato a «terminazioni senza richiesta o consenso. Fra questi si possono immaginare casi in cui è stata la famiglia del paziente a esprimere il consenso, ma, per come la comprendo io, la legge esige l’esplicita richiesta da parte del paziente».

Intervistato da LifeSiteNews, il direttore dell’organizzazione canadese Euthanasia Prevention Coalition, Alex Schadenberg, dice che siccome oggi l’eutanasia e il suicidio assistito vengono venduti alle masse come una panacea capace di mettere fine a ogni sofferenza, quanto accade in Belgio è presentato come un modo altruistico per fare del bene al prossimo attraverso le nostre morti.

«Le persone che quindi non moriranno per eutanasia o suicidio assistito», aggiunge Schadenberg, «verranno considerate egoiste e quindi ostracizzate poiché le loro malattie protratte sino alla morte naturale imporranno alla società costosi esborsi di denaro oppure perché negheranno organi freschi e sani agli altri che ne hanno bisogno». Peraltro, conclude Schadenberg, «gli organi così utilizzati sono sani perché la persona che li dona spesso non è un malato terminale, ma un paziente che teme di avviarsi a una condizione di vita terminale. Continueranno a dirci che la cosa riguarda la libertà di scelta. Ma la scelta di che? Quella della scelta è solo una illusione; qui si tratta invece di imporre la morte».

La versione originale di questo articolo, Shock study: Organs harvested from euthanized patients make better transplants, è comparsa su LifeSiteNews, il portale Internet dedicato alla cultura della vita e alla difesa della famiglia naturale fondato nel settembre 1997. Con sede centrale a Front Royal, in Virginia, e un importante distaccamento a Toronto, in Canada, LifeSiteNews è diretto da John-Henry Westen. Traduzione di Marco Respinti

martedì 21 giugno 2011

San Luigi Gonzaga - Patrono della gioventù

Ricorre oggi la memoria liturgica di san Luigi Gonzaga. Nato il 9 marzo 1568 a Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, primo dei nove figli del marchese Ferrante e di Marta Tana, fu subito introdotto alla vita militare, tanto che alla tenera età di soli cinque anni rischiò di rimanere schiacciato da un cannone che aveva caricato. Malgrado fosse l'erede del titolo nobiliare del padre, egli decise fin da subito di dedicarsi alla vita contemplativa e religiosa: all'età di dodici anni ricevette la Prima Comunione dal cardinale san Carlo Borromeo, ed espresse il desiderio di entrare nella Compagnia di Gesù, decisione per la quale dovette combattere molto con il padre, contrario a questa scelta. In questo periodo fa anche il catechista dei giovani, e quando raggiunge l'età di 17 anni si reca a Roma per studiare lettere, scienza e filosofia; tra i suoi maestri ebbe anche san Roberto Bellarmino. Passò la parte finale della sua giovane vita al servizio degli ammalati proprio a Roma, nell'epidemia di peste che colpì la città dei papi nel 1590; trasportando un moribondo che aveva raccolto per la strada, subì il contagio della malattia, che lo uccise il 21 giugno 1591, all'età di 23 anni. Venne beatificato da papa Paolo V nell'ottobre 1605, e canonizzato da papa Benedetto XIII il 31 dicembre 1726. Nel 1926 papa Pio XI lo proclamò patrono della gioventù.
Fin dall'età di dieci anni san Luigi decise di votarsi alla completa verginità; questa scelta gli valse spesso la nomea di persona che odiava le donne: in realtà san Luigi, dotato di forte temperamento, intendeva combattere contro la "fiacchezza morale del gran mondo", e non era affatto il fragile piagnone che in alcuni casi le cronache ci hanno tramandato. A ben guardare, quindi, il messaggio che san Luigi Gonzaga ci ha trasmesso con la sua vita è di grande attualità anche oggi, specialmente per quei giovani e quei bambini che, già da 12-13 anni (età nella quale san Luigi maturava la sua vocazione), mostrano un ossessivo attaccamento ad una sessualità immorale, di certo non incoraggiati dall'esempio degli adulti; essi dimostrano in questo modo di disprezzare le donne (e le donne gli uomini) moltò più di quanto san Luigi sia stato accusato di fare. Oggi diventa dunque l'occasione di rivolgerci a Dio affinché, per intercessione di san Luigi Gonzaga, patrono della gioventù, converta i cuori di questi bambini e dei loro genitori, ed aiuti anche noi a vivere nella Chiesa la stessa dedizione verso il prossimo che ha avuto lui.
Insieme a san Tarcisio, san Luigi Gonzaga è anche uno dei compatroni dei chierichetti egli che, malgrado lo avesse desiderato, morì prima di riuscire a diventare sacerdote; il gruppo dei chierichetti del nostro Duomo l'ha scelto come proprio patrono, ed oggi, giorno della sua festa, serviranno all'altare alla Santa Messa delle 18:30.

sabato 18 giugno 2011

Antifona "Salve Regina"

La seconda parte del Tempo Ordinario, quella che comincia il lunedì dopo la Pentecoste e si conclude la vigilia della prima domenica d'Avvento, è caratterizzato dall'antifona mariana Salve Regina. Essa fa parte delle quattro antifone maggiori dedicate alla Beata Vergine Maria, che contraddistinguono le diverse parti dell'anno liturgico: abbiamo già visto in passato l'antifona Alma Redemptoris Mater, adatta al tempo di Avvento, di Natale e al tempo Ordinario fino alla festa della Presentazione al Tempio di Gesù, o Purificazione di Maria, il 2 febbraio; le succede l'antifona Ave Regina Coelorum, usata tra la Purificazione per tutto il tempo di Quaresima fino alla Pasqua; e l'antifona Regina Coeli, adatta al tempo di Pasqua. Con l'antifona Salve Regina, dunque, chiudiamo questo breve ciclo di articoli dedicati alle maggiori antifone mariane.
L'antifona Salve Regina è forse la più conosciuta tra le quattro antifone maggiori; scritta nell'XI secolo forse da Ermanno di Reichenau, detto Ermanno lo Zoppo, o forse dal vescovo Ademaro di Le Puy, che promosse insieme ad altri la prima crociata, fu introdotta nell'ufficio liturgico dai monaci di Cluny nel 1135, diffondendosi ben presto in molte altre comunità religiose. Nel XIV secolo fu inserita nell'ufficio divino, ed ancora oggi viene utilizzata nella liturgia delle ore, al termine delle Ore principali e, soprattutto, della Compieta. A partire dalla seconda metà del XIX secolo e fino alla riforma liturgica era inoltre abitualmente intonata, nel periodo liturgico sopra citato, dopo la Santa Messa.
Il testo saluta la Vergine come Regina, come fanno anche il Regina Coeli e l'Ave Regina Coelorum, ricordando l'ultimo mistero glorioso del Rosario, e conduce il fedele ad una supplica fiduciosa verso Colei che è la nostra Avvocata presso Dio. Con particolare enfasi, il beato Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, raccomandava la recita dell'antifona Salve Regina e delle Litanie lauretane al termine della preghiera del Rosario con queste parole: «Come stupirsi se l'animo sente il bisogno, alla fine di questa preghiera, in cui ha fatto intima esperienza della maternità di Maria, di sciogliersi nelle lodi per la Vergine Santa, sia nella splendida preghiera della Salve Regina, che in quella delle Litanie lauretane?».
Il Liber Usualis, il libro liturgico che contiene i testi ed i canti liturgici gregoriani, contiene due versioni dell'antifona mariana: una nel Tonus simplex, che è quello ancor oggi più diffuso e forse uno dei pochi canti gregoriani conosciuto in quasi tutte le comunità parrocchiali, anche italiane; l'altra nel Tonus sollemnis, più diffusa nelle comunità religiose e specialmente benedettine, ma molto affascinante e suggestiva.
Di seguito, come di consueto, propongo all'ascolto alcune esecuzioni: una in tono semplice (che dovremmo ricominciare ad ascoltare e a cantare nel modo corretto, dati i numerosi errori cui l'abbandono in massa dell'insegnamento del canto gregoriano nelle parrocchie ha dato origine presso la maggior parte dei fedeli), una in tono solenne ed una versione della gloriosa polifonia rinascimentale, scritta dal compositore spagnolo del XVI secolo Tomás Luis de Victoria proprio sulla base del tono solenne, ed eseguita dal coro della cattedrale di Westminster a Londra.





venerdì 17 giugno 2011

Musica sacra: quando Peppone e don Camillo si scambiano i ruoli

In seguito al Concilio Vaticano II si è creata nella chiesa una contrapposizione, che dura ormai da quasi cinquant'anni, tra due categorie, che vengono spesso etichettate come progressisti e tradizionalisti. Il problema è molto vasto, ma, anche se è riduttivo ridurlo ad un solo ambito, è chiaro che l'ambiente privilegiato in cui questo scontro si è fatto più sentire è quello liturgico, e specialmente della musica sacra. Si è così venuta a creare nella maggior parte delle nostre parrocchie una vera e propria barriera impenetrabile tra due correnti di pensiero, che, a guardar bene, sembrano essersi cristallizzate agli anni settanta, quando, durante la contestazione, il "mondo dei giovani" insorse contro quello degli adulti per rivendicare "autonomia" e "libertà", dando anche una sfumatura politica all'intera faccenda. Così, nelle chiese di oggi, troviamo quasi ovunque la divisione tra gruppi di giovani e gruppi definiti "di vecchi", che in molte città non si parlano nemmeno, e i cui confini sembrano essere completamente scorrelati dalla reale età anagrafica dei fedeli.
Da un po' di mesi a questa parte la questione della musica liturgica sembra essere tornata in primo piano su molti giornali: a dare il la (è proprio il caso di dirlo) è stato qualche tempo fa il maestro Riccardo Muti, ma a lui sono seguite le voci di diversi opinionisti, fino a questi giorni, con due articoli contrapposti apparsi uno sul giornale La Repubblica, di noto orientamento progressista, ed uno su l'Osservatore Romano, giornale della Santa Sede.
La cosa curiosa è che, a differenza di quello che si potrebbe pensare, l'articolo di Repubblica, a firma di Michele Smargiassi, esprime una critica decisa, a tratti anche satirica, sul diffuso orientamento musicale delle parrocchie italiane, augurandosi un ritorno ad un'arte autentica ed al canto gregoriano, mentre l'Osservatore Romano spinge sul freno, in un tentativo di difesa che, dobbiamo ammettere, raramente abbiamo visto mettere in atto con tale prontezza quando Repubblica attaccava la Chiesa su problemi quali il rapporto tra politica e valori non negoziabili, tanto raccomandati dal papa. L'impressione che si ha è paragonabile a quella che avremmo nel vedere don Camillo sul palco della animata Brescello, mentre aizza la folla alla rivoluzione proletaria, mentre Peppone sta sul campanile, pronto a suonare le campane per interrompere l'amico-rivale alla bisogna. Perché tutti possano farsi una propria idea, qui di seguito cito entrambi gli articoli.

La musica di Dio
Di Michele Smargiassi

È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella Chiesa italiana, spesso divisa, c'è un argomento che mette d'accordo tutti, un po' più scandalizzati i tradizionalisti, un po' più ironici i progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in tutte le parrocchie della penisola tra l'introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche. Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in qualche oratorio di periferia.

Non si può dire che gli allarmi non siano risuonati, è il caso di dire, molto in alto. Già venticinque anni fa l'allora cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una Chiesa che si riduca a fare solo della musica "corrente" cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice amante della musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte, applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si ascoltano nelle chiese, un vero insulto». La questione sta diventando spinosa, anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si gioca l'aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi al facile attacco di quella «eresia dell'informe», come la definisce lo scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di «canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è penosa?», insorse dieci anni fa l'allora presidente del Pontificio istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.

La Chiesa francese ha risolto la questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell'imprimatur.
Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto, l'anarchia del parrocchia'n'roll sembra ingovernabile. Ogni diocesi dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra banchi e navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi. La scena, un po' dovunque, dev'essere quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: "Don, che cosa cantiamo?", e il mio ritornello è inesorabilmente "vatti a leggere le antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca"».
Il risultato è nelle orecchie di tutti. Reperibile a vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix. Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità (Signore scende la sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di consumo, simil-Ramazzotti e para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c'è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull'aria di The sound of silence di Simon & Garfunkel: «Padre Nostro tu che staiiii / in chi ama veritàaaa...»). La ribellione è nell'aria, un gruppo Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l'Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista. L'arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ha spuntato personalmente a matita rossa dai libretti parrocchiali i canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti s'invocano il ripristino d'autorità del Gregoriano e la disciplina monostrumentale dell'organo a canne, o almeno dell'armonium.

Sotto queste pressioni, un paio d'anni fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi, esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque anni di raccolte nazionali e locali. E c'era di tutto. Delle musiche abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi perdonar...»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel centro del mio cuor»), di espressioni rubate a qualche spot televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi di ingenuità (definire Maria «l'irraggiungibile» non è incoraggiante per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare un verso: cantare «Tu che sei nell'universo» solo perché «nell'alto dei Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio bene.

Un compito immane, defatigante, sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384 decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un segno sacro».
Giusto non voler guastare l'entusiasmo degli animatori parrocchiali, volonterosi e incolpevoli. Ma il punto è questo, che i canti durante la messa non sono un "accompagnamento", non sono gli "stacchetti" fra un responsorio e una lettura: fanno parte della liturgia, sono cosa sacra come le parole dell'Elevazione. Come è possibile che la stessa Chiesa che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la deflagrazione nucleare» chiamata "Messa Beat". Chi la ricorda? Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli spaghetti-western e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i giovani». Davvero una bomba atomica. Trasmissioni Rai, concerti, tournée internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri pubblicati dall'etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers, per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori. Ma fu così che la Chiesa non perse l'onda del Sessantotto. E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei: «Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si canta solo a messa».

I tradizionalisti sbagliano. Dare la colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell'Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore. Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe, romanze...». Il difetto della Chiesa post-conciliare semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione liturgica. Con l'abbandono del latino, la Cei predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del repertorio canoro. A disposizione c'erano solo un po' di litanie antiquate, Mira il tuo popolo, T'adoriam ostia divina. «Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che faceva le prove in oratorio, o quelle dell'ultimo campeggio scout, e portarle sull'altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un'infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi.

Eppure ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare, compositori di qualità. Don Parisi li cita con rispetto: don Marco Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri, autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta... «Vedo il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant'anni dalla riforma conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità. Nell'attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il sospetto che le parrocchie d'Italia, come patrono della musica, non invochino santa Cecilia, ma Sanremo.

E di seguito la replica di Marcello Filotei sull'Osservatore:

Se la musica liturgica diventa un pretesto per litigare
Di Marcello Filotei

È paradossale che proprio la liturgia, luogo principe dell’armonia e dell’incontro, sia a volte concepito come una sorta di campo di battaglia da quanti — ognuno con le proprie rispettabili ragioni — vorrebbero rivedere le modalità di utilizzo della musica e del canto durante le celebrazioni. L’argomento è di particolare interesse, tanto che il quotidiano «la Repubblica» gli dedica tre pagine nel numero del 16 giugno, rilevando incongruenze nei testi di alcuni canti moderni e lamentando un basso livello nella qualità dei canti liturgici in genere.
È indubbio che in molti casi il tasso «artistico» dei brani musicali proposti nelle chiese è discutibile, ma appare semplicistico — se non strumentale — contrapporre questa produzione al corpus gregoriano. L’enorme patrimonio che giunge dai secoli passati, infatti, ispira e si affianca alle nuove proposte. La questione, semmai, è come garantire che i canti di oggi siano di livello artistico degno del ruolo che devono sostenere nella liturgia, un ruolo che non è solo decorativo.
Cantare il gregoriano non è vietato ed è anzi auspicabile e possibile, anche in forma semplice. Ma chi si lamenta perché le antiche melodie non sono abbastanza valorizzate, non fa che certificare un problema culturale: nella liturgia spesso, purtroppo, il livello della musica è paragonabile a quello, molto basso, dei brani trasmessi in radio e in televisione, almeno in Italia, come rileva tra l’altro sul giornale romano il consulente per la musica liturgica della Confrenza episcopale italiana, monsignor Vincenzo De Gregorio. La qualità dei canti che si ascoltano in chiesa è, in genere, lo specchio di una situazione di degrado culturale più ampio. Tale argomento non può però essere utilizzato per sostenere che tutto quello che è venuto dopo il concilio Vaticano II sia da rigettare in blocco.
Spazio, dunque, a tutte le opinioni, ma non alle strumentalizzazioni di quanti, da una parte e dall’altra, brandiscono come clave le proprie visioni della musica liturgica. Forse non è ancora chiaro il percorso per arrivare alla composizione di inni moderni, rispettosi della tradizione e di alto livello artistico e che convivano con la giusta valorizzazione del gregoriano. Per il momento però si può evitare di negare dignità artistica a chi sostiene tesi diverse dalle proprie. Almeno per riguardo alla liturgia.



Ovviamente, come sempre, la sezione dei commenti è aperta a tutti coloro che vorranno contribuire in maniera costruttiva.

Vorrei cominciare con un mio commento. Io credo che il modo di intervenire dell'articolista dell'Osservatore sia quantomeno inopportuno, se non addirittura dannoso. E' giusto il richiamo a non litigare, specialmente se la discussione avviene in ambito ecclesiastico; ma farlo dicendo in sostanza, come fa Filotei, che le ragioni stanno sia di qua che di là è un ragionare secondo quel relativismo che più volte il papa ha condannato. Non è vero che tutto è indistintamente accettabile, come se non vi fosse un orientamento uguale per tutti, dato dalla Chiesa con il suo Magistero, in ambito di musica liturgica. Come più volte citato in questo blog, i pronunciamenti abbondano, prima, durante e dopo il Concilio, e tutti sono concordi nell'affidare al canto gregoriano la posizione preminente nel panorama liturgico-musicale. Di più: il beato Giovanni Paolo II, citando il suo predecessore san Pio X, ha ribadito che il canto gregoriano non è solo il modello, ma anche il criterio per scegliere la musica che deve ornare le nostre Messe: «Tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme». Quindi Filotei sbaglia quando dice che «appare semplicistico — se non strumentale — contrapporre questa produzione al corpus gregoriano»; è la Chiesa stessa che chiede questo confronto.
Anche la chiosa dell'articolo di Filotei è discutibile: «Per il momento però si può evitare di negare dignità artistica a chi sostiene tesi diverse dalle proprie». Egli, infatti, sposta l'attenzione dalla composizione musicale alle persone che la sostengono. Ma quando si critica la dignità artistica di un canto non si vuole criticare coloro che lo eseguono; esistono criteri di oggettività che permettono di giudicare la dignità artistica di un canto, che si basano sull'armonia, sulla tessitura musicale, sul testo, sul ritmo... E non si può nemmeno fare a meno di criticare una composizione per presunto rispetto di chi sostiene tesi diverse dalle proprie (questo modo di pensare è tipicamente politically correct): se il canto è musicalmente indegno lo è e basta, e tacere, oppure mentire, sulla sua indegnità sarebbe, questo sì, mancanza di rispetto nei confronti dell'intelligenza delle persone, comprese quelle che sostengono tesi diverse dalle proprie.

giovedì 16 giugno 2011

Anniversario della consacrazione del Santuario

Oggi, 16 giugno, ricorre l'anniversario della consacrazione del Santuario della Madonna dell'Angelo. In realtà questa è la data della consacrazione della chiesa nuova, ricostruita sui ruderi della precedente, a pianta basilicale, risalente addirittura al IX secolo, prima del Duomo attuale. Dagli atti lasciati dal vescovo Domenico Minio (1684-1698), la forza delle onde aveva distrutto una delle tre navate dell'antico tempio, dedicato all'Arcangelo San Michele. Egli è infatti il patrono della città, e la sua effige compare sullo stemma di Caorle, mentre veglia sulla rocca che rappresenta la stessa cittadina marittima. In seguito al prodigioso ritrovamento del simulacro della Santa Vergine, secondo la tradizione galleggiante sulle acque del mare, e al suo trasporto all'interno della chiesa, Ella vi fu venerata con il titolo di Madonna dell'Angelo, titolo che ancora oggi conserva.
A causa della situazione di grave degrado in cui versava l'edificio, il vescovo Francesco Trevisan Suarez (1738-1769) ordinò che fosse ricostruita, assumendosi la maggior parte dei costi dell'opera. Fu così raso al suolo il precedente tempio, il cui perimetro fu rinvenuto durante l'ultima poderosa ristrutturazione nel 1944, e costruito l'edificio attuale, ad un unica navata. La torre campanaria, in stile romanico, è invece quella antica, realizzata accanto alla vecchia chiesa di pianta basilicale intorno al XIII secolo. Il 16 giugno 1768 lo stesso vescovo Suarez consacrò l'altare maggiore e l'intera chiesa, affiggendovi alle pareti le croci in pietra insieme a dei piccoli candelabri. Per la sua devozione alla Madonna dell'Angelo e per la premura nella ristrutturazione del tempio a Lei dedicato, il vescovo Trevisan Suarez fu sepolto proprio ai piedi del coro, sotto lo sguardo benevolo della Vergine, dove ancora oggi si trova la sua tomba.
Nel tempo la chiesa della Madonna dell'Angelo subì diversi interventi e ristrutturazioni, le più importanti delle quali, come citato sopra, avvennero in seguito al solenne voto emesso dalla comunità di Caorle, con a capo il parroco don Felice Marchesan, il 2 gennaio 1944. L'altare che conteneva il simulacro della Madonna, oggi spostato in cattedrale e collocato nella cappellina di San Rocco, fu sostituito con l'altare attuale, proveniente dall'absidicola destra del Duomo, e destinato alla custodia del Santissimo Sacramento. Sopra la struttura barocca dell'altare spicca il basso rilievo raffigurante San Michele Arcangelo, proveniente dalla chiesa antica, opera del tardo Cinquecento realizzata dallo scultore Andrea dell'Aquila e voluta dal vescovo Angelo Casarino (1593-1600). Nella cappella laterale sinistra si trova un altare dedicato a san Pio X, al secolo Giuseppe Sarto, che fu patriarca di Venezia e visitò egli stesso il Santuario; la pala d'altare posta sopra è opera di M. Bressanin del 1956. Sulla destra, invece, è posto il cosiddetto "pozzetto", ovvero un blocco marmoreo in pietra d'Istria sopra il quale, racconta la tradizione, fu rinvenuto il simulacro della Vergine da alcuni pescatori. Alle sue spalle è posto un Crocifisso, realizzato negli anni cinquanta. L'intero soffitto del Santuario, sorretto da possenti lesene è ricoperto da motivi floreali affrescati, tra i quali si aprono dei medaglioni contenenti le figure dei quattro Evangelisti ed un affresco che raffigura la leggenda del ritrovamento della statua della Madonna, opera del pittore Gino Filippi; in corrispondenza del coro si aprono altri quattro medaglioni raffiguranti quattro titoli della Vergine delle litanie lauretane. Lungo il cornicione che separa il soffitto dalle pareti corre un nastro ove sono dipinti, in caratteri dorati, alcuni versi di preghiere mariane.
Con decreto della Penitenzieria Apostolica e diploma del Capitolo della Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, dal 2009 il Santuario della Madonna dell'Angelo è legato alla papale arcibasilica liberiana tramite lo spirituale vincolo di affinità, che concede a tutti i fedeli che lo visitano le stesse indulgenze di cui gode la basilica mariana di Roma. In particolare proprio quest'oggi, giorno della festa del Santuario, è concessa a tutti i fedeli che visiteranno la chiesa alle solite condizioni stabilite dalla Chiesa l'Indulgenza Plenaria.

martedì 14 giugno 2011

Tesori d'arte sacra: Gli affreschi dell'abside

In questo mensile appuntamento con i tesori d'arte sacra conservati nel Duomo, nel Santuario e nel Museo parrocchiale, concludiamo la parte riguardante l'abside centrale descrivendo gli affreschi che ne ornano le pareti. Nel catino si possono osservare ancora oggi, riportati alla luce in seguito ai restauri del 1995, i frammenti dell'antico affresco che doveva rappresentare il Cristo Pantocratore circondato da Santi e dalla regina Caterina Cornaro, che in seguito ad un naufragio sulle coste caorlotte, fu tratta in salvo dai pescatori della cittadina marittima; in quell'occasione la regina di Cipro donò alla cattedrale della città, secondo la tradizione, la preziosa pala d'oro, di cui abbiamo parlato qualche mese fa. Contestualmente, nella parte superiore del tamburo, separata dal catino tramite una decorazione a foglie d'acanto in rilievo (come è possibile ammirare anche nella Basilica di San Marco a Venezia), dovevano trovarsi le figure degli apostoli, di cui rimangono la figura di un volto e di un piede. Nella parte centrale dovevano trovarsi gli stemmi del vescovo Domenico Minio (1684-1698), del podestà Costantino Zorzi e lo stemma della città. Questi affreschi furono ricoperti da uno strato d'intonaco già nel XVII secolo, secondo quanto riportato dallo storico Giovanni Musolino: il 23 giugno 1686 fu il Consiglio dei cittadini a decidere «d'imbiancar certe figure poste sotto la cappella dell'altar maggiore per essere indecenti, molto sconcie nella faccia, consumate dal tempo e di poca considerazione». La parte inferiore del tamburo è invece decorata con un drappo affrescato, ancora oggi ben conservato. Da notare i frammenti lapidei con cui è ornata la sede del celebrante e degli accoliti, risalenti al VI-VII secolo e provenienti dalla chiesa costruita precedentemente all'attuale Duomo, esempi mirabili di arte cristiana longobarda; in particolare con la raffigurazione del pavone, a sinitra, e della lepre, a destra. Il contorno a doppia ghiera dell'arco trionfale, sotto il quale si trova oggi l'altare maggiore moderno, sono inoltre decorati da motivi floreali e geometrici affrescati.
Nella parete sinistra del presbiterio si trova, conservato in buono stato, un affresco risalente al secolo XV, raffigurante una struttura con pinnacoli e due santi, uno dei quali è oggi irriconoscibile, l'altro è Santo Stefano Protomartire, patrono della città. All'interno della struttura è stato successivamente dipinto lo stemma del vescovo Giuseppe Maria Piccini (1644-1648), che riformò la struttura del presbiterio rimuovendo la struttura dell'iconostasi e sostituendola con le balaustre ancor oggi conservate in cattedrale. Lo stemma veniva a trovarsi proprio sopra il faldistorio del vescovo, realizzato con ferro e piombo e ornato da velluti damascati in occasione delle festività più importanti; tale struttura sopravvisse fino al Concilio Vaticano II e ne sono testimonianza alcune foto, che raffigurano il patriarca Angelo Giuseppe Roncalli a Caorle, durante le celebrazioni in onore della Madonna dell'Angelo.
Dalla parte opposta, sulla parete destra del presbiterio, si trova un altro affresco, del secolo XVI, raffigurante la Vergine con Bambino in trono tra le figure di san Giovanni Evangelista (a sinistra) e la Maddalena (a destra). A sinistra dell'Evangelista, inoltre, si scorge la figura di un santo vescovo vestito dei paramenti sacri e delle insegne episcopali, in atto benedicente: la tradizione ci tramanda essere la figura di sant'Alvise. Da notare, in particolare, l'iconografia della Maddalena, con in mano il vaso dei profumi che, il giorno della Risurrezione del Signore, portava al Sepolcro per ungere il Corpo di Cristo. L'insieme delle quattro figure è inserito in una struttura di colonne ed archi a sesto acuto che ricordano la struttura che separa le navate nella basilica di Aquileia.



Foto dal sito caorlotti.it

lunedì 13 giugno 2011

Dopo l'Europride - Considerazioni

«A nome della Chiesa di Roma non posso non esprimere amarezza per l'affronto recato [...] e per l'offesa ai valori cristiani di una città che è tanto cara al cuore dei cattolici di tutto il mondo.
La Chiesa non può tacere la verità [...] perché non aiuterebbe a discernere ciò che è bene da ciò che è male.
»

Queste le parole che sono apparse sui manifesti della contro-manifestazione organizzata da Militia Christi a Roma, in concomitanza con l'Europride, ormai tristemente noto. Non sono parole di mons. Marcel Lefebvre, e nemmeno dei suoi seguaci contemporanei; non sono parole di qualche prete che oggi coloro che amano definirsi "cattolici adulti" disprezzano, usando la parola "tradizionalista" in un senso negativo che non ha. Queste sono parole del beato Giovanni Paolo II, lo stesso beato che non più tardi di un mese e mezzo fa una platea di giovani e adulti andava acclamando addirittura come santo, come un papa amico dei giovani; gli stessi giovani che oggi, pur definendosi cattolici, la pensano in maniera totalmente difforme da quello che il Catechismo della Chiesa cattolica va predicando (il che fa sorgere qualche dubbio sul fatto che costoro abbiano in mente cosa significhi definirsi "cattolici"). Come non ricordare lo sconforto del papa, che aveva supplicato nel lontano 2000 di risparmiare la città di Pietro dalla parata della lussuria e della perversione che anche lo scorso sabato ha avuto luogo; quelle parole e quella parte del messaggio di papa Wojtila oggi sembrano essere state dimenticate. Volontariamente o no poco importa; non possiamo non pensare a come, dal Cielo, papa Giovanni Paolo II continui a rimanere amareggiato e sconfortato per quello che è uscito dal palco del circo massimo sabato scorso: "Facciamo la rivoluzione dell'amore"? Che amore devono inseguire i cristiani, se non Dio che è Amore? E' Lui l'Amore, che ama fino al punto di dare il suo unico Figlio per i suoi figli, giusti o ingiusti che siano, anche per coloro che hanno preso parte alla oscena mascherata. Se noi cristiani crediamo che Dio è Amore, e che Dio è unico nella sua Trinità, come possiamo pensare ad una rivoluzione dell'amore? Quell'amore di cui si parla non è certamente l'amore divino, è l'uomo che vuole sostituire Dio, adorando veri e propri anticristi, chiamando dio (amore) gli idoli della lussuria, gli atti sessuali sfrenati e contro natura, la concupiscenza.
Come non pensare al rammarico del beato Giovanni Paolo II di fronte a tanti giovani che si dicono cristiani, abbagliati dalla mentalità relativista e new age del mondo di oggi, che giudicano la Chiesa arretrata perché non accetta queste aberrazioni dell'amore? La Chiesa che per prima esorta a non discriminare ingiustamente qualsiasi fratello con tendenze di carattere omosessuale, ma non per questo si tira indietro quando si tratta di condannare l'atto come intrinsecamente sbagliato. Lo dice il Catechismo, lo dice il beato Giovanni Paolo II: "La Chiesa non può tacere la verità perché non aiuterebbe a discernere ciò che è bene da ciò che è male". Ed anche coloro che contestano la Chiesa, a volte addirittura dal suo interno, devono arrendersi a questa verità, non avendo argomenti seri con cui controbattere all'unica Verità che è Gesù Cristo.
I carri sono stati smontati, deposte le parrucche e reindossati i vestiti: la parata è finita; noi cristiani, però, rimaniamo in questo mondo. Il rammarico, come quello del padre della parabola che vede allontanarsi verso la perdizione il figlio, dopo avergli anticipato la sua parte di eredità, non ci lasci in preda al totale sconforto e alla disperazione; preghiamo ancora di più per noi e per questi fratelli, che accecati dai desideri della carne, non riescono ad assecondare quelli dello spirito: che il Signore perdoni i nostri peccati e ci preservi dal fuoco dell'inferno. E preghiamo anche per i fratelli che, pur dicendosi cristiani, si scagliano contro la Chiesa, tacciandola di oscurantismo ed intolleranza, disconoscendo il Catechismo e quindi l'insegnamento stesso di Nostro Signore Gesù Cristo.
Ci è quasi impossibile non pensare agli scritti della Beata Anna Maria Taigi, sposa e madre senese vissuta a cavallo tra il '700 e l'800, devota alla Santissima Trinità; che ci siano da monito e da sprone per compiere la nostra missione di cristiani, ossia implorare la Misericordia del Signore:

«Dopo questi segni, quando si sarà vicini alla fine, il Drago sarà sciolto e la Divina Madre inviterà alla penitenza e gli uomini senza tener conto dei Celesti moniti andranno per le vie della Eterna Città Santa bagnata dal Sangue dei Principi (Apostoli), portando la Lussuria in processione; e il Padre della Menzogna sarà a loro capo. Sacrilegi compiranno contro i tempi del Santo Spirito e contro la Religione: gli uomini si vestiranno da donne e le donne si vestiranno da uomini, la Voce del Santo Vicario non sarà ascoltata e l' Alma Sua figura sara fatta oggetto di scherno e risa, allora il Drago che già ha preso possesso del suo regno istillerà lumi alle menti degli a lui soggetti per diffondere l'alito pestilento della Lussuria ove il Beatissimo pose Sede e per diffondere e moltiplicare l'opera sua nefanda di distruzione e perdizione, dovrà allora dalla Cristianità implorarsi la Misericordia di Dio e fare Orazione per la Chiesa Militante domandando aiuto alla Madre Santa e offrendo penitenze e sacrifici.»



Alcuni articoli tratti da La Bussola Quotidiana:
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