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venerdì 17 giugno 2011

Musica sacra: quando Peppone e don Camillo si scambiano i ruoli

In seguito al Concilio Vaticano II si è creata nella chiesa una contrapposizione, che dura ormai da quasi cinquant'anni, tra due categorie, che vengono spesso etichettate come progressisti e tradizionalisti. Il problema è molto vasto, ma, anche se è riduttivo ridurlo ad un solo ambito, è chiaro che l'ambiente privilegiato in cui questo scontro si è fatto più sentire è quello liturgico, e specialmente della musica sacra. Si è così venuta a creare nella maggior parte delle nostre parrocchie una vera e propria barriera impenetrabile tra due correnti di pensiero, che, a guardar bene, sembrano essersi cristallizzate agli anni settanta, quando, durante la contestazione, il "mondo dei giovani" insorse contro quello degli adulti per rivendicare "autonomia" e "libertà", dando anche una sfumatura politica all'intera faccenda. Così, nelle chiese di oggi, troviamo quasi ovunque la divisione tra gruppi di giovani e gruppi definiti "di vecchi", che in molte città non si parlano nemmeno, e i cui confini sembrano essere completamente scorrelati dalla reale età anagrafica dei fedeli.
Da un po' di mesi a questa parte la questione della musica liturgica sembra essere tornata in primo piano su molti giornali: a dare il la (è proprio il caso di dirlo) è stato qualche tempo fa il maestro Riccardo Muti, ma a lui sono seguite le voci di diversi opinionisti, fino a questi giorni, con due articoli contrapposti apparsi uno sul giornale La Repubblica, di noto orientamento progressista, ed uno su l'Osservatore Romano, giornale della Santa Sede.
La cosa curiosa è che, a differenza di quello che si potrebbe pensare, l'articolo di Repubblica, a firma di Michele Smargiassi, esprime una critica decisa, a tratti anche satirica, sul diffuso orientamento musicale delle parrocchie italiane, augurandosi un ritorno ad un'arte autentica ed al canto gregoriano, mentre l'Osservatore Romano spinge sul freno, in un tentativo di difesa che, dobbiamo ammettere, raramente abbiamo visto mettere in atto con tale prontezza quando Repubblica attaccava la Chiesa su problemi quali il rapporto tra politica e valori non negoziabili, tanto raccomandati dal papa. L'impressione che si ha è paragonabile a quella che avremmo nel vedere don Camillo sul palco della animata Brescello, mentre aizza la folla alla rivoluzione proletaria, mentre Peppone sta sul campanile, pronto a suonare le campane per interrompere l'amico-rivale alla bisogna. Perché tutti possano farsi una propria idea, qui di seguito cito entrambi gli articoli.

La musica di Dio
Di Michele Smargiassi

È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella Chiesa italiana, spesso divisa, c'è un argomento che mette d'accordo tutti, un po' più scandalizzati i tradizionalisti, un po' più ironici i progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in tutte le parrocchie della penisola tra l'introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche. Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in qualche oratorio di periferia.

Non si può dire che gli allarmi non siano risuonati, è il caso di dire, molto in alto. Già venticinque anni fa l'allora cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una Chiesa che si riduca a fare solo della musica "corrente" cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice amante della musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte, applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si ascoltano nelle chiese, un vero insulto». La questione sta diventando spinosa, anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si gioca l'aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi al facile attacco di quella «eresia dell'informe», come la definisce lo scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di «canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è penosa?», insorse dieci anni fa l'allora presidente del Pontificio istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.

La Chiesa francese ha risolto la questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell'imprimatur.
Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto, l'anarchia del parrocchia'n'roll sembra ingovernabile. Ogni diocesi dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra banchi e navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi. La scena, un po' dovunque, dev'essere quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: "Don, che cosa cantiamo?", e il mio ritornello è inesorabilmente "vatti a leggere le antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca"».
Il risultato è nelle orecchie di tutti. Reperibile a vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix. Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità (Signore scende la sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di consumo, simil-Ramazzotti e para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c'è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull'aria di The sound of silence di Simon & Garfunkel: «Padre Nostro tu che staiiii / in chi ama veritàaaa...»). La ribellione è nell'aria, un gruppo Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l'Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista. L'arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ha spuntato personalmente a matita rossa dai libretti parrocchiali i canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti s'invocano il ripristino d'autorità del Gregoriano e la disciplina monostrumentale dell'organo a canne, o almeno dell'armonium.

Sotto queste pressioni, un paio d'anni fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi, esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque anni di raccolte nazionali e locali. E c'era di tutto. Delle musiche abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi perdonar...»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel centro del mio cuor»), di espressioni rubate a qualche spot televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi di ingenuità (definire Maria «l'irraggiungibile» non è incoraggiante per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare un verso: cantare «Tu che sei nell'universo» solo perché «nell'alto dei Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio bene.

Un compito immane, defatigante, sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384 decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un segno sacro».
Giusto non voler guastare l'entusiasmo degli animatori parrocchiali, volonterosi e incolpevoli. Ma il punto è questo, che i canti durante la messa non sono un "accompagnamento", non sono gli "stacchetti" fra un responsorio e una lettura: fanno parte della liturgia, sono cosa sacra come le parole dell'Elevazione. Come è possibile che la stessa Chiesa che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la deflagrazione nucleare» chiamata "Messa Beat". Chi la ricorda? Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli spaghetti-western e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i giovani». Davvero una bomba atomica. Trasmissioni Rai, concerti, tournée internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri pubblicati dall'etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers, per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori. Ma fu così che la Chiesa non perse l'onda del Sessantotto. E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei: «Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si canta solo a messa».

I tradizionalisti sbagliano. Dare la colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell'Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore. Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe, romanze...». Il difetto della Chiesa post-conciliare semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione liturgica. Con l'abbandono del latino, la Cei predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del repertorio canoro. A disposizione c'erano solo un po' di litanie antiquate, Mira il tuo popolo, T'adoriam ostia divina. «Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che faceva le prove in oratorio, o quelle dell'ultimo campeggio scout, e portarle sull'altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un'infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi.

Eppure ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare, compositori di qualità. Don Parisi li cita con rispetto: don Marco Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri, autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta... «Vedo il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant'anni dalla riforma conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità. Nell'attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il sospetto che le parrocchie d'Italia, come patrono della musica, non invochino santa Cecilia, ma Sanremo.

E di seguito la replica di Marcello Filotei sull'Osservatore:

Se la musica liturgica diventa un pretesto per litigare
Di Marcello Filotei

È paradossale che proprio la liturgia, luogo principe dell’armonia e dell’incontro, sia a volte concepito come una sorta di campo di battaglia da quanti — ognuno con le proprie rispettabili ragioni — vorrebbero rivedere le modalità di utilizzo della musica e del canto durante le celebrazioni. L’argomento è di particolare interesse, tanto che il quotidiano «la Repubblica» gli dedica tre pagine nel numero del 16 giugno, rilevando incongruenze nei testi di alcuni canti moderni e lamentando un basso livello nella qualità dei canti liturgici in genere.
È indubbio che in molti casi il tasso «artistico» dei brani musicali proposti nelle chiese è discutibile, ma appare semplicistico — se non strumentale — contrapporre questa produzione al corpus gregoriano. L’enorme patrimonio che giunge dai secoli passati, infatti, ispira e si affianca alle nuove proposte. La questione, semmai, è come garantire che i canti di oggi siano di livello artistico degno del ruolo che devono sostenere nella liturgia, un ruolo che non è solo decorativo.
Cantare il gregoriano non è vietato ed è anzi auspicabile e possibile, anche in forma semplice. Ma chi si lamenta perché le antiche melodie non sono abbastanza valorizzate, non fa che certificare un problema culturale: nella liturgia spesso, purtroppo, il livello della musica è paragonabile a quello, molto basso, dei brani trasmessi in radio e in televisione, almeno in Italia, come rileva tra l’altro sul giornale romano il consulente per la musica liturgica della Confrenza episcopale italiana, monsignor Vincenzo De Gregorio. La qualità dei canti che si ascoltano in chiesa è, in genere, lo specchio di una situazione di degrado culturale più ampio. Tale argomento non può però essere utilizzato per sostenere che tutto quello che è venuto dopo il concilio Vaticano II sia da rigettare in blocco.
Spazio, dunque, a tutte le opinioni, ma non alle strumentalizzazioni di quanti, da una parte e dall’altra, brandiscono come clave le proprie visioni della musica liturgica. Forse non è ancora chiaro il percorso per arrivare alla composizione di inni moderni, rispettosi della tradizione e di alto livello artistico e che convivano con la giusta valorizzazione del gregoriano. Per il momento però si può evitare di negare dignità artistica a chi sostiene tesi diverse dalle proprie. Almeno per riguardo alla liturgia.



Ovviamente, come sempre, la sezione dei commenti è aperta a tutti coloro che vorranno contribuire in maniera costruttiva.

Vorrei cominciare con un mio commento. Io credo che il modo di intervenire dell'articolista dell'Osservatore sia quantomeno inopportuno, se non addirittura dannoso. E' giusto il richiamo a non litigare, specialmente se la discussione avviene in ambito ecclesiastico; ma farlo dicendo in sostanza, come fa Filotei, che le ragioni stanno sia di qua che di là è un ragionare secondo quel relativismo che più volte il papa ha condannato. Non è vero che tutto è indistintamente accettabile, come se non vi fosse un orientamento uguale per tutti, dato dalla Chiesa con il suo Magistero, in ambito di musica liturgica. Come più volte citato in questo blog, i pronunciamenti abbondano, prima, durante e dopo il Concilio, e tutti sono concordi nell'affidare al canto gregoriano la posizione preminente nel panorama liturgico-musicale. Di più: il beato Giovanni Paolo II, citando il suo predecessore san Pio X, ha ribadito che il canto gregoriano non è solo il modello, ma anche il criterio per scegliere la musica che deve ornare le nostre Messe: «Tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme». Quindi Filotei sbaglia quando dice che «appare semplicistico — se non strumentale — contrapporre questa produzione al corpus gregoriano»; è la Chiesa stessa che chiede questo confronto.
Anche la chiosa dell'articolo di Filotei è discutibile: «Per il momento però si può evitare di negare dignità artistica a chi sostiene tesi diverse dalle proprie». Egli, infatti, sposta l'attenzione dalla composizione musicale alle persone che la sostengono. Ma quando si critica la dignità artistica di un canto non si vuole criticare coloro che lo eseguono; esistono criteri di oggettività che permettono di giudicare la dignità artistica di un canto, che si basano sull'armonia, sulla tessitura musicale, sul testo, sul ritmo... E non si può nemmeno fare a meno di criticare una composizione per presunto rispetto di chi sostiene tesi diverse dalle proprie (questo modo di pensare è tipicamente politically correct): se il canto è musicalmente indegno lo è e basta, e tacere, oppure mentire, sulla sua indegnità sarebbe, questo sì, mancanza di rispetto nei confronti dell'intelligenza delle persone, comprese quelle che sostengono tesi diverse dalle proprie.

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