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martedì 31 maggio 2011

La partecipazione alla Santa Messa

Vorrei parlare oggi di un aspetto liturgico molto importante, che talvolta rischia di essere male interpretato, il più delle volte in buona fede, in virtù di un insegnamento errato, poiché filtrato dalle mentalità rivoltose degli anni addietro: si tratta della partecipazione dei fedeli alla Santa Messa. E' innegabile che durante e dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa abbia voluto dare una grande importanza alla promozione della cosiddetta actuosa participatio; leggiamo infatti nella Costituzione conciliare dedicata alla Sacra Liturgia, la Sacrosanctum Concilium:

14. È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, [...] ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia.

L'espressone "partecipazione attiva" ha dato adito, nel periodo post-conciliare, alle interpretazioni più disparate, che nella maggior parte dei casi poco avevano che fare con il suo reale significato. Ed è forse questa divergenza tra quello che intende la Chiesa e quello che si vuole che la Chiesa intenda l'esempio più lampante del relativismo in campo religioso, della contrapposizione fra ermeneutiche del concilio (rottura e riforma nella continuità) che tante volte il Papa ci ricorda nei suoi discorsi.
La tendenza, oggi, è quella di considerare la partecipazione attiva dei fedeli come una conquista del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica ad esso seguita, merito esclusivo di un certo modo di intendere la Santa Messa in netta contrapposizione con quanto accadeva prima del concilio. Inevitabilmente, per promuovere questa idea (sbagliata, come avremo modo di vedere), si finisce per contrappore la Messa cosiddetta "tridentina", dove (si insinua) i fedeli erano costretti a stare zitti e fermi, come degli spettatori ad uno spettacolo non gradito, alla Messa "moderna", dove cade ogni barriera e freno e si può finalmente cantare, parlare, a volte ballare, dando all'assemblea la libertà di fare un po' ciò che vuole. A poco servono le indicazioni dei Papi, specialmente il beato Giovanni Paolo II e il pontefice regnante, Benedetto XVI, a cercare quasi di raddrizzare certe situazioni ormai fuori controllo e a far capire che queste interpretazioni sono del tutto errate e dannose.
Tuttavia le cose non stanno esattamente come oggi la maggior parte di noi considera; sembrerà paradossale, ma il tema della partecipazione dei fedeli era vivo e attuale da molto prima del Concilio Vaticano II, in un periodo in cui quella "tridentina" era l'unica Messa per tutto il mondo. Per fare alcune citazioni, nel motu proprio "Tra le sollecitudini" di san Pio X, del 1903, troviamo:

In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi.

O ancora, in maniera più esauriente, troviamo spiegato nella "Instructio de Musica Sacra et Sacra Liturgia" del Missale Romanum, datata 3 settembre 1958:

22. La Messa richiede, per sua natura, che tutti i presenti vi partecipino nel modo proprio a ciascuno.

a) Questa partecipazione deve essere in primo luogo interna, attuata cioè con devota attenzione della mente e con affetti del cuore, attraverso la quale i fedeli «strettissimamente si uniscano al Sommo Sacerdote... e con Lui e per Lui offrano [il Sacrificio] e con Lui si donino».

b) La partecipazione però dei presenti diventa più piena se all’attenzione interna si aggiunge una partecipazione esterna, manifestata cioè con atti esterni, come sono la posizione del corpo (genuflettendo, stando in piedi, sedendo), i gesti rituali, soprattutto però le risposte, le preghiere e il canto.
[...]

25. Nella Messa solenne dunque, l’attiva partecipazione dei fedeli può essere di tre gradi:

a) Il primo grado si ha, quando tutti i fedeli danno cantando le risposte liturgiche: Amen; Et cum spiritu tuo; Gloria tibi, Domine; Habemus ad Dominum; Dignum et iustum est; Sed libera nos a malo; Deo gratias. Si deve cercare con ogni cura che tutti i fedeli, di ogni parte del mondo, possano dare cantando queste risposte liturgiche.

b) Il secondo grado si ha quando tutti i fedeli cantano anche le parti dell’Ordinario della Messa: Kyrie, eleison; Gloria in excelsis Deo; Credo; Sanctus-Benedictus; Agnus Dei. Si deve poi cercare di far sì che i fedeli imparino a cantare queste stesse parti dell’Ordinario della Messa, soprattutto con le melodie gregoriane più semplici. Se d’altra parte non sapessero cantare tutte le singole parti, nulla vieta che i fedeli ne cantino alcune delle più facili, come il Kyrie, eleison; Sanctus-Benedictus; Agnus Dei, riservando il Gloria e il Credo alla «schola cantorum».
Si deve cercare inoltre di far sì che in tutte le parti del mondo i fedeli imparino queste più facili melodie gregoriane: Kyrie, eleison; Sanctus-Benedictus, e Agnus Dei secondo il numero XVI del Graduale Romano; il Gloria in excelsis Deo con Ite, Missa est-Deo gratias, secondo il numero XV; il Credo poi secondo il num. I o III. In questo modo si potrà ottenere quel risultato tanto desiderabile, che i fedeli in tutto il mondo possano manifestare, nell’attiva partecipazione al sacrosanto Sacrificio della Messa, la loro fede comune anche con uno stesso festoso concento.

c) Il terzo grado finalmente si ha quando tutti i presenti siano talmente preparati nel canto gregoriano da poter cantare anche le parti del Proprio della Messa. Questa piena partecipazione alla Messa in canto si deve sollecitare soprattutto nelle comunità religiose e nei seminari.

In quest'ultima istruzione si trova, in particolare, la definizione di "partecipazione attiva", dei gesti che essa richiede (non battere le mani, balletti sul posto o simili, ma da seduti alzarsi in piedi, o inginocchiarsi) e di cosa significa partecipare col canto: non che l'assemblea debba cantare tutto ciò che la schola o il celebrante osano intonare, ma che esistono parti proprie (le risposte) per loro natura fatte apposta per i fedeli, altre fatte per la sola schola, altre per il solo celebrante. Se, in particolare, ci concentriamo sull'ultima parte della citazione, scopriamo che nella Messa cantata della nostra parrocchia viene messa in pratica quasi alla lettera, merito dei parroci che negli anni si sono succeduti ed hanno avuto cura di pascere il loro gregge in comunione con il Papa e tutta la Chiesa.
La "scoperta" che di partecipazione attiva si parlava anche e soprattutto per la Messa nel rito antico porge immediatamente una serie di considerazioni: innanzitutto che la partecipazione attiva di cui si parla nel Concilio Vaticano II non è una scoperta degli anni 70 e della riforma post-conciliare, ma un aspetto di cui la Chiesa si è sempre occupata (possiamo dire che "si partecipava" anche nella Messa antica); poi, non avendo il Concilio Vaticano II inventato nulla di nuovo, che la partecipazione attiva che esso raccomanda è la stessa raccomandata anche prima dal Magistero della Chiesa; infine, che aggiungere significati rivoluzionari alla partecipazione attiva, e bocciare per questo la Messa nel rito antico, è non solo privo di fondamento, ma contrario al Concilio Vaticano II e al Magistero immutabile della Chiesa. Non dimentichiamoci, infatti, che i padri conciliari non scrivevano di liturgia sulla base della Messa nel rito post-conciliare (oggi detto forma ordinaria), ma avevano sempre visto e celebrato nel rito pre-conciliare (oggi detto forma extraordinaria).
Leggendo, dunque, il concilio in continuità con il Magistero precedente, viene naturale spiegarsi perché esso non abolisca, ma raccomandi che i fedeli imparino a cantare ed ascoltare il canto gregoriano, definito "il canto proprio della liturgia romana", e perché l'organo a canne è raccomandato come lo strumento per eccellenza nell'accompagnamento del canto o anche da solo. Viene naturale leggere il motu proprio Summorum Pontificum e la recente istruzione Universae Ecclesiae come la maniera con cui il Santo Padre cerca di correggere per tutta la Chiesa le visioni errate, in materia liturgica, sulle diverse forme del rito della Santa Messa, e non come il contentino dato a quattro nostalgici di pizzi e merletti. Risultano altresì inspiegabili le ragioni di chi, in nome di chissà quale concilio (a questo punto), predica che la lingua latina, il canto gregoriano, il contegno proprio della devozione dei fedeli, la bellezza dell'arte a servizio di Dio, siano aspetti retrogradi, superati, da sostituire con urgenza e da rigettare con odio.
Concludo ricordando una delle finalità con cui il papa ha "liberalizzato" la Messa nella forma extraordinaria del rito romano; egli vuole che ovunque, nella Chiesa, il rito antico aiuti i fedeli a vivere il nuovo con la devozione, l'amore e il rispetto che si deve a Gesù Cristo nelle sacre specie consacrate (cose che, a ben guardare, oggi viviamo piuttosto con monotonia o meccanicità distaccata, anche a causa del modo improprio di intendere la partecipazione attiva di cui sopra). D'altra parte, grazie al nuovo rito, i fedeli possono introdursi e capire quello antico in maniera più profonda, rispetto a quanto facevano i nostri padri o nonni fino a cinquant'anni fa, affinché esso non sia solamente una sorta di rievocazione storica, ma un'autentica espressione di fede e devozione.

I documenti di questo articolo:

lunedì 30 maggio 2011

Il saluto della diocesi a mons. Beniamino

Dopo l'annuncio, prima di Pasqua, della nomina del vescovo ausiliare della nostra diocesi a vescovo di Vicenza, è giunto il momento per mons. Beniamino Pizziol di lasciare la nostra diocesi per fare il suo ingresso nella sua nuova terra. Il 19 giugno prossimo, domenica della Santissima Trinità, è prevista nella Cattedrale di Santa Maria Annunciata di Vicenza la Santa Messa per l'inizio del suo ministero pastorale; ma prima il nostro patriarcato vuole esprimere tutta la sua riconoscenza e porgere il suo più cordiale saluto al suo già vescovo ausiliare, che per tanti anni ha servito la Chiesa di Venezia. Questo momento si svolgerà nella Basilica Cattedrale di San Marco alle ore 18:30 di mercoledì prossimo, 1° giugno; l'evento sarà inoltre trasmesso in diretta da Telechiara (canale 14 del digitale terrestre oppure in internet, cliccando su questo collegamento, funziona solo con Internet Explorer) e da Bluradio Veneto (frequenza FM 88.70 • 92.00 • 94.60 oppure in internet, su questo collegamento, cliccando sul play dove c'è scritto "streaming").
Propongo di seguito l'estratto del saluto indirizzato a mons. Beniamino dal nostro patriarca, il cardinale Angelo Scola, pubblicato sul suo blog angeloscola.it; credo riassuma un po' i sentimenti ed i pensieri di tutti noi nei confronti del nostro vescovo ausiliare ora in partenza per la diocesi di Vicenza.

La partenza del Vescovo Beniamino avviene subito dopo il dono della Visita del Santo Padre e quello della Beatificazione dell’amato Giovanni Paolo II, segni potenti, tangibili della presenza di Gesù che è risorto ed è sempre con noi (Antifona della Messa del giorno di Pasqua).
In questi giorni così intensi possiamo dire di aver gustato le primizie della Sua resurrezione: sul dolore per il distacco vince la gioia per il dilatarsi di una compagnia che si approfondisce in forza del sì di ciascuno alla volontà del Padre. Come quando un figlio o un fratello parte dalla famiglia di origine in obbedienza alla sua vocazione: la famiglia non si impoverisce. Più che l’esperienza della perdita fa l’esperienza dell’allargamento. Il cuore impara una misura più grande, accostandosi un po’ di più all’ampiezza, alla lunghezza, all’altezza e alla profondità dell’amore di Cristo.
Uno dei più importanti semi gettati da Benedetto XVI durante la sua preziosa visita nelle nostre terre è stato il potente richiamo alla comunione: «Siate nelle vostre Chiese e in seno alla società “quasi beatorum chorus” come affermava Girolamo del clero di Aquileia, per l’unità della fede, lo studio della Parola, l’amore fraterno, l’armonia gioiosa e pluriforme della testimonianza ecclesiale» (Benedetto XVI, Saluto ad Aquileia, 7 maggio 2011).
Davvero siamo stati confermati nella fede e i vincoli di comunione tra le Chiese del nuovo Nord Est, oggi in particolare con quella di Vicenza, si sono rinsaldati.
Con il cuore pieno di gratitudine per la sovrabbondanza di questi doni, e reso più certo del disegno buono con cui la Provvidenza ci conduce, ripetiamo il nostro grazie al Vescovo Beniamino per l’instancabile, intelligente dedizione con cui ha servito la nostra Chiesa.

giovedì 26 maggio 2011

Il Papa affida l'Italia alla Madonna

Al termine del Santo Rosario nella Basilica di Santa Maria Maggiore, recitato insieme ai vescovi della Conferenza Episcopale Italiana, il Santo Padre Benedetto XVI ha pregato davanti all'icona della Salus Populi Romani, ed ha affidato l'Italia alla sua materna protezione nell'anniversario dei 150 anni della sua unità politica.
Nel breve intervento che ha rivolto ai presenti, riuniti nella «splendida basilicadove spiritualità e arte si fondono in connubio», il Papa ha espresso la sua comunione con tutte le comunità cristiane d'Italia, anche con la più piccola, poiché in ognuna di esse rimane viva la tradizione che lega il mese di maggio alla devozione mariana, terre ricche di santuari e chiesette, dove si prega soprattutto il Santo Rosario. La preghiera, che ha il suo vertice nella liturgia, la cui forma è custodita dalla vivente Tradizione della Chiesa, è sempre un fare spazio a Dio, ha ricordato il Pontefice. Insieme con Maria siamo chiamati a fare gli stessi passi di Gesù; nel suo Battesimo, alle nozze di Cana, ad entrare nella sinagoga con Lui, a salire sul monte Tabor e ad entrare nel cenacolo del nuovo ed eterno Sacrificio.
Il Santo Padre ha poi proseguito dicendo che, in quanto Figlio di Dio, Cristo è forma dell'uomo; la preghiera ci aiuta a riconoscere in Lui il centro della nostra vita, a conformare la nostra volontà alla sua, a fare qualsiasi cosa ci dica, certi della sua fedeltà. Questa è la missione fondamentale della Chiesa; Maria ne costituisce il modello, lo specchio nel quale siamo chiamati a riconoscere la nostra identità. L'unica nostra via di salvezza è quella che si esprime nell'obbedienza filiale: “Avvenga di me secondo la tua parola”. La disposizione del suo cuore, l'ascolto, l'accoglienza, l'umiltà, la fedeltà, la lode e l'attesa corrispondono agli atteggiamenti interiori e ai gesti che plasmano la vita cristiana; di essi si nutre la Chiesa.
Dalla descrizione del bronzo della porta santa di questa basilica, sul quale è raffigurato il Concilio di Efeso dell'anno 431, il pontefice ha ricordato come in quel Concilio la Chiesa difese e conservò per Maria il titolo di Madre di Dio, titolo cristologico, che esprime l'unità della natura umana e divina di Cristo.
In Maria si intravvede il disegno unitario che intreccia i due testamenti, hanno il compimento le storie dell'Antico Testamento di donne che incarnano un popolo umiliato e sconfitto; ma in esse è viva anche la speranza, un sì che è accoglienza e dono perfetto. Maria ne è la forma più alta; su di Lei, Vergine, discende lo Spirito Santo, che feconda e plasma la Creazione. Aprendosi alla sua azione, Maria genera il Figlio, presenza di Dio che viene nella storia e la rigenera dall'alto. La fede infatti non è alienazione; sono altre le esperienze che inclinano la dignità dell'uomo; in varie stagioni l'incontro dell'uomo con la Parola del Vangelo è stato segno di civiltà, esprimendosi nella cultura, nelle arti e, non da ultimo, nella carità.
Un importante passaggio del suo intervento, Benedetto XVI l'ha dedicato al mondo politico; «l'Italia, nei 150 anni della sua unità politica, deve essere orgogliosa della presenza della Chiesa», la quale non vuole privilegi, ed è rispettosa della legittima laicità dello stato, ma difende i diritti dell'uomo; la Chiesa, forte di un'espressione collegiale e di una presenza attiva nel territorio, continua a svolgere la sua missione di difesa della vita umana in tutte le sue fasi e della famiglia, ed aiuta ad affrontare le difficoltà della vita, non ultima oggi la ricerca dell'occupazione. Per questo il Papa ha chiesto al mondo politico che si adoperi in ogni sforzo per superare il precariato lavorativo che grava su molti giovani.
Rivolgendosi ai vescovi, il Santo Padre ha invitato a non esitare nel condurre i fedeli laici a vincere ogni chiusura e indifferenza e a partecipare, conformemente alla dottrina sociale della Chiesa, alla vita pubblica, in modo che chi vi partecipa non ceda alla tentazione di raggiungere solo il proprio interesse personale. Ha esortato a lavorare per l'incontro tra settentrione e mezzogiorno; «la vostra parola e il vostro esempio», ha detto, «siano di incoraggiamento e di sprone per coloro che ricercano solidi riferimenti spirituali», additando loro la vittoria di Cristo sul male e sulla morte come segno di speranza.
Il pontefice ha poi concluso con una paterna esortazione, perché nonostante tutte le difficoltà nulla è impossibile a Dio. Ha invitato a porre tutto il popolo italiano sotto la protezione della Mater Unitatis, perché il Signore gli conceda i doni della pace e dell'unità, ed ha esortato le forze politiche affinché colgano l'occasione dell'unità per superare ogni pregiudiziale contrapposizione, e cercare insieme ciò che veramente giova al bene del paese.
«L'esempio di Maria apra la strada ad una società più giusta e responsabile, conforti le famiglie, incoraggi i giovani, conforti gli ammalati a seguire Cristo, che è la vita stessa».

Rosario recitato dal Papa

Quest'oggi, nella patriarcale arcibasilica liberiana, più grande tempio dedicato alla Beata Vergine Maria (e per questo chiamato Santa Maria Maggiore), il Santo Padre Benedetto XVI reciterà il Santo Rosario, a conclusione del mese di maggio, insieme con i vescovi italiani riuniti a Roma per l'assise della Conferenza Episcopale Italiana. Si tratta di un importante appuntamento, trasmesso in diretta dalle principali emittenti cattoliche (TV2000 e Telepace) a partire dalle 17:30. Inoltre, in occasione del 150mo anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha annunciato che il Papa rinnoverà l'affidamento della nostra amata nazione italiana alla Madonna. Un primo affidamento al Cuore Immacolato della Beata Sempre Vergine Maria fu effettuato da papa Giovanni XXIII il 13 settembre 1959, a conclusione del XVI Congresso Eucaristico Nazionale di Catania. Quest'oggi papa Benedetto XVI eleverà alla Madonna un'invocazione affinché «non si estingua nelle nuove generazioni la fede trasmessa dai Padri; resti vivo e coerente il senso dell’onesta’ e della generosita’, la concordia operosa, l’attenzione ai piccoli, agli anziani e agli ammalati, la premurosa apertura verso tutta l’umanita’, che in ogni parte del mondo soffre e lotta, e spera verso un avvenire di giustizia e di pace».
Uniamoci anche noi al Santo Padre e ai vescovi che oggi si troveranno a Santa Maria Maggiore per pregare il Rosario; per chi ne avrà la possibilità guardando la trasmissione in diretta (canale 28 del digitale terrestre, o sul sito internet delle televisioni sopra citate), o anche semplicemente recitando un Rosario con l'intenzione che sarà espressa quest'oggi dal Papa.

mercoledì 25 maggio 2011

Corona aurea super caput eius

Colgo l'occasione di un fatto particolare accaduto oggi al termine dell'udienza generale (segnalato dal blog Orbis Catholicus Secundus) per ricordare un'antifona molto suggestiva, che veniva cantata durante la cerimonia d'Incoronazione del Sommo Pontefice fino a papa Paolo VI. Oggi infatti una delegazione di cristiani cattolici ed ortodossi di Bulgaria ha donato una tiara a papa Benedetto XVI, realizzata per volere di Dieter Philippi, un uomo d'affari tedesco con una grande devozione per il papato, che egli vede come segno supremo d'unità per tutti i cristiani. La tiara è un copricato che viene usato tutt'ora nella chiesa ortodossa e nelle chiese cattoliche di rito orientale; differisce dalla mitria vescovile per essere chiuso e spesso sormontato da una croce. La tiara dei papi è anche chiamata triregno, poiché ornata di tre corone (anche se la struttura a tre corone si deve soltanto a papa Benedetto XII a partire dal 1342), ed intesa nella storia come simbolo di sovranità, ma anche della triplice missione del papa: "Padre dei Principi e dei Re", "Guida del Mondo" e "Vicario di Cristo in terra", come recitava la frase che il cardinale protodiacono pronunciava un attimo prima di imporre questo copricapo sulla testa del nuovo papa:

Accipe Tiaram
tribus coronis ornatam
et scias te esse patrem
principum et regum,
rectorem orbis in terra,
vicarium Salvatoris nostri
Jesu Christi,
cui est honor et gloria
in saecula saeculorum.
Ricevi la tiara
ornata di tre corone,
e sappi che tu sei il Padre
dei Principi e dei Re,
la Guida del Mondo
e il Vicario di Nostro Signore
Gesù Cristo sulla terra,
a cui è dovuto onore e gloria
nei secoli dei secoli.

Altre interpretazioni della simbologia della tiara furono quelle della triplice potestà di Cristo (Sacerdote, Re e Profeta), che Giovanni Paolo II menzionò durante l'omelia dell'inizio del suo pontificato, oppure alla triplice missione della Chiesa, "militante, purgante e trionfante".
Papa Giovanni Paolo I, il servo di Dio Albino Luciani, non volle assumere la tiara all'inizio del suo pontificato, così come dopo di lui fecero Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, dato il significato di un simbolo che "forse ingiustamente è stato considerato come simbolo del potere temporale dei papi" (Giovanni Paolo II). E' da notare che anche il beato Karol Wojtila ricevette in dono una tiara, da alcuni fedeli di origine ungherese.
Di seguito il testo, con la traduzione, dell'antifona Corona aurea super caput eius, ed il video dell'Incoronazione di papa Giovanni XXIII, dove questa antifona si può ascoltare, con tutta l'emozione di un evento storico che risulterà toccante soprattutto per i caorlotti.

Corona aurea
super caput ejus.
Expressa signo sanctitatis,
gloriae honoris,
et opus fortitudinis.

(Ps.) Quoniam praevenisti eum
in benedictionibus dulcedinis
posuisti in capite eius
coronam de lapide pretioso.
Una corona dorata
sopra il suo capo.
Segno di manifesta santità,
di gloria, di onore,
ed opera di fortezza.

(Sal.) Poiché lo hai prevenuto
con fauste benedizioni
gli ponesti sul capo
una corona di pietre preziose.








Foto dal blog Orbis Catholicus Secundus

Il bambino "è" un diritto o "ha" un diritto?

Continuano le critiche alla bocciatura del progetto di legge Concia, detto contro l'omofobia. Si moltiplicano articoli di giornali (specialmente quelli di una certa area politica), gruppi sui social network e trasmissioni televisive che puntano a descrivere l'Italia come un paese in cui sono calpestati i diritti umani, nella fattispecie quelli delle persone omosessuali. Uno degli argomenti più contestati è quello dell'affidamento dei bambini a coppie omosessuali. Oggi, nelle varie mappe disegnate dalle associazioni gay, un Paese non può essere considerato civile se ad una coppia omosessuale non è garantito il diritto di avere un figlio. Com'è possibile, ci si può chiedere, avere un figlio ad una coppia omosessuale? Il problema è presto risolto: basta rivolgersi a madri o padri surrogati, che mettono a disposizione i propri gameti o l'intero utero (nel caso della madre surrogata), solitamente in cambio di denaro. Così vediamo Elton John ed il suo compagno a spasso con la carrozzina, Ricky Martin con i suoi piccoli e molti altri esempi famosi. In Italia la legge non permette di avere figli tramite genitori surrogati: e all'opinione pubblica si dice che questa è una violenza contro le coppie omosessuali, una manifestazione di aperta omofobia da parte dello Stato e della Chiesa, poiché in questo modo alle coppie eterosessuali e alle coppie omosessuali non vengono garantiti gli stessi diritti.
Effettivamente questa affermazione appare inappellabile, e lascia poco spazio ad interpretazioni che siano in qualche modo comprensive dei motivi della legge italiana e della Chiesa, che con tale legge concorda. Ma fermiamoci un attimo, ed analizziamola bene: "Privare le coppie omosessuali di avere un figlio significa non riconoscere loro gli stessi diritti delle coppie eterosessuali". In questo modo è fuori d'ogni dubbio che si intende il figlio come un diritto della coppia; il bambino "è" un diritto. Purtroppo una tale affermazione non suscita immediatamente la reazione da parte di chi la legge o ascolta, poiché il nostro mondo quotidiano è ormai intriso di questa mentalità (bambino = diritto) anche e soprattutto tra le coppie eterosessuali, non solo omosessuali. E' vero che l'assenza di un figlio può essere fonte di grande sofferenza per una coppia; ma questo non deve indurre a pensare che a tutti coloro che desiderano un bambino debba essere concesso a tutti i costi. Questo perché il bambino non è un oggetto, un bene materiale; è una persona umana, e come tale ha la sua dignità individuale, che deve essere garantita e rispettata. Il bambino, più che "essere" un diritto, "ha" dei diritti, proprio in quanto persona.
Alcuni obiettano: talvolta le persone omosessuali hanno maggiore sensibilità e si comportano meglio degli eterosessuali nei confronti dei bambini (dato del tutto privo di prove, tra le altre cose, e forse figlio di quel modus cogendi "gay è meglio" di cui parlavo nel precedete post); ciò non è sufficiente, tuttavia, per il bambino. Al bambino non basta "essere trattato bene", nemmeno essere amato come se avesse due genitori eterosessuali; egli ha bisogno di due genitori, un padre ed una madre, maschio e femmina: "ha" il diritto di crescere in una famiglia di questo tipo, e questo prevalica ogni altro preteso diritto degli adulti su di lui. Lo scrive oggi, su La Bussola Quotidiana, lo psicanalista Claudio Risè, intervistato da Antonio Giuliano. Nell'articolo intitolato Bimbi con due padri, ecco perché no argomenta, studi alla mano, la tesi che, per la crescita del bambino, siano necessari entrambi gli aspetti, maschile e femminile.

Bimbi con due padri, ecco perchè no
Di Antonio Giuliano

Per chi da anni denuncia la crisi della figura paterna suona quasi beffarda la grancassa mediatica e culturale di chi vorrebbe famiglie con due padri (come Repubblica del 23 maggio “I figli di due padri”). Ma lo psicanalista Claudio Risè ormai non si scompone più: «Nel nostro orizzonte culturale l’essere umano non viene più considerato come una persona con un suo corpo, ma solo come un oggetto prefabbricato. Qui si sta organizzando la produzione di bambini come adorabili oggetti di consumo». Sulla scia di sponsor del calibro di Elton John o Ricky Martin anche in Italia sarebbero un centinaio le coppie omosessuali che ricorrono all’estero (da noi è vietata) alla maternità “surrogata”: in pratica nell’utero di una donatrice che offre a pagamento il proprio utero viene inserito un embrione formato dall’ovocita di una donatrice e il seme di uno dei due padri. E la campagna mediatica si rianima mentre è in corso in parlamento il dibattito sulla legge sull’omofobia.

Professore perché per un bimbo è importante avere un padre e una madre?
In assenza del genitore del proprio sesso, sarà molto difficile per quel bambino sviluppare la propria identità psicologica corrispondente. La psiche maschile e quella femminile sono molto diverse e l’identità complessiva si forma anche a partire dalla propria identità sessuale. Nel caso di maternità surrogata, lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo di una bimba con due genitori di sesso maschile sarebbe in forte difficoltà: avrebbe problemi nel riconoscersi nel proprio sesso. Lo stesso accade al piccolo maschio.

Qualcuno le obietterebbe che uno dei due padri (o una delle madri nel caso di coppie lesbiche) potrebbe benissimo svolgere il ruolo della figura materna (o paterna nell’altro caso).
No. La vita umana è inscritta in due ordini: il dato naturale, biologico, e quello simbolico che il bambino ha iscritto nella propria psiche, conscia e inconscia. Entrambi presiedono allo sviluppo, alla manifestazione di una capacità progettuale, alla crescita di un’affettività equilibrata. Il padre è un individuo di genere maschile che ha scritto nel suo patrimonio genetico, antropologico, affettivo e simbolico la storia del proprio genere. Proprio perché è un maschio e non è una donna, non può avere né il sapere naturale profondo, né quello simbolico materno. I due codici simbolici, paterno e materno, sono molto diversi: la madre è colei che soddisfa i bisogni, il padre è colui che dà luogo al movimento e propone il limite: indica la direzione e stabilisce dove non si può andare. Nei paesi anglosassoni e del nordeuropea da tempo ci sono casi di coppie omosessuali con figli: studi sul campo hanno provato che la mancanza di genitori di sesso diverso è fonte di problemi, il più evidente dei quali (quando i genitori sono del sesso opposto al tuo), è la formazione delle tua immagine sessuale profonda.

Quali sono i rischi che corre un bambino/a che cresce senza un genitore di sesso femminile? Tanto più che nella fecondazione assistita eterologa padre e madre sono spesso sconosciuti…
L’esperienza del contatto fisico con la madre, nella cui pancia si è stati, è riconosciuta dalla psichiatria e dalle psiconalisi come fondativa della personalità, e della stessa corporeità…

Nei libri come Il padre l’assente inaccettabile o Il mestiere di padre (entrambi pubblicati dalla San Paolo) denunciava la scomparsa della figura paterna. Ora invece sembra a rischio la figura materna.
Anche quei libri sono stati scritti per dimostrare che servono entrambi i genitori, entrambi gli aspetti, quello maschile e quello femminile. La verità è che ormai non c’è solo una crisi della paternità. Ma dell’umanità in generale. L’essere umano, attraverso acquisti e affitti di parti del corpo e elementi generativi è diventato un “prodotto fabbricato”, nel senso in cui ne parlava Michel Foucault. Siamo ormai all’interno di un modello culturale “materialista” (ma in realtà molto mentale, perché passa dalla negazione del corpo “naturale”) fondato sulla soddisfazione narcisistica dei bisogni indotti dal sistema di consumo. Il bimbo “fabbricato” è uno di questi nuovi bisogni. È l’effetto del processo di secolarizzazione che ha tagliato anche i rapporti con il padre celeste, Dio: non c’è posto per l’Altro, tanto meno per la dimensione verticale. Ma negando l’ordine naturale e simbolico siamo costretti a negare anche la nostra corporeità (iscritta in essi) come spiego nel mio ultimo libro Guarda tocca vivi. Riscoprire i sensi per essere felici (Sperling & Kupfer, pp. 210, euro 16,50). Altro che superinvestimento nei sensi. L’ideologia consumista, le mode, i media dettano i nostri comportamenti, perfino nell’innamoramento: ci si incontra e ci si lascia in base ai suggerimenti della moda e delle “tendenze”. La sapiente teologia dell’amore di Giovanni Paolo II è stata spazzata via da una sessualità staccata dalla sensualità della persona umana, e consumista. Non stupiamoci, allora, se sono sempre di più quelli che vogliono evadere dal proprio corpo: magari con le droghe o coi disturbi alimentari come l’anoressia. La sacralità del corpo del cristianesimo è stata negata, e i consumi divinizzati. Ma solo riappropriandoci della nostra corporeità potremo relazionarci con gli altri. E con Dio.

lunedì 23 maggio 2011

L'incenso e il velo del Calice

Voglio riprendere questo intervento di don Nicola Bux, professore di Liturgia orientale a Bari e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, che la scorsa settimana ha fatto un po' il giro di tutti i blog cattolici. Esso parla di due aspetti della liturgia un po' trascurati, quasi snobbati, nella maggior parte delle chiese: l'uso di coprire il calice con il velo e le parole del sacerdote per la benedizione dell'incenso.
In particolare, don Bux cita le rubriche post-conciliari, tra le quali l'ordinamento generale del Messale Romano nella sua terza edizione, e sottolinea come esse raccomandino, e non il contrario, l'uso di queste cose. In particolare il velo del calice merita un approfondimento: esso è un pezzo di stoffa quadrata, bianco o del colore liturgico del giorno, con decorazioni spesso floreali e con croci che ricordano da vicino i motivi della casula o pianeta che il prete indossa durante la celebrazione dei Divini Misteri. Nella Messa in forma extraordinaria esso è normalmente prescritto; segno di come questa forma del rito romano, equiparata a quella in forma ordinaria grazie al motu proprio Summorum Pontificum e all'istruzione Universae Ecclesiae di papa Benedetto XVI, ci ispiri un profondo senso di pietà e devozione verso l'Eucarestia che oggi è andato purtroppo perduto in maniera diffusa. Ripristinare l'uso del velo del calice, come tra l'altro già invita a fare il Messale della forma ordinaria, rappresenta un passo avanti verso quel reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano a cui il Santo Padre tiene moltissimo. Leggiamo, dunque, l'intervento di don Nicola Bux.

Il velo del calice e la benedizione dell'incenso
Di don Nicola Bux

ROMA, mercoledì, 18 maggio 2011 (ZENIT.org).- Si odono di frequente richiami a volgere l’attenzione all’Oriente cristiano, intanto sono omessi nel rito romano elementi che lo richiamano, come velare il calice e benedire l’incenso. La presenza di tende e veli nella liturgia è riconducibile al culto giudaico; per esempio il doppio velo all’ingresso del santuario nel tempio di Gerusalemme, segno di riverenza verso il mistero della Shekina, la presenza divina. Così per l’incenso e gli altri aromi che bruciavano sull’altare apposito antistante, al fine di elevare visibilmente l’anima alla preghiera, secondo le parole del salmo 140: Dirigatur, Domine, oratio mea, sicut incensum, in conspectu tuo – La mia preghiera stia davanti a te come incenso, o Signore. Nello stesso tempo il profumo copriva l’effetto sgradevole degli odori degli animali immolati e del sangue dei sacrifici.
Il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani, impure, le cose sacre: un simbolo dell’esigenza di purezza spirituale per avvicinarsi a Dio. Se la liturgia è fatta di simboli, questo è uno dei più importanti. I veli coprono le mani dei ministri, come gli angeli offerenti rappresentati nell’arte bizantina e romanica. In linea di principio, i vasi sacri, quando non in uso, sono sempre velati per alludere alla ricchezza che vi si nasconde.
Il velo del calice è un piccolo drappo del medesimo colore e stoffa della pianeta o casula, oppure sempre bianco, che serve a coprire tutto il calice, sull’altare o sulla credenza, dall’inizio della Messa all’offertorio; e poi dopo la purificazione che segue la comunione. Nel rito bizantino i veli sono due, per il calice e per il disco, ovvero la patena dei pani da consacrare. Nel rito romano, sebbene sia prescritto «lodevolmente» dall’Ordinamento generale del Messale di Paolo VI (n. 118), il velo che copre il calice è, nell’odierna prassi celebrativa, ordinariamente omesso.
Veniamo all’incensazione. Il sacerdote, all’inizio della Liturgia Eucaristica, messo l’incenso nel turibolo, lo benedice e poi incensa tutto l’altare, in onore del Signore. L’incenso viene benedetto, nella Messa in forma extraordinaria, con la preghiera: Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a dextris altaris incensi, et omnium electorum suorum, incensum istud dignetur Dominus benedicere, et in odorem suavitatis accipere – Per intercessione di san Michele arcangelo, che sta alla destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi santi, il Signore voglia benedire questo incenso e accoglierlo come profumo a Lui gradito. Questa benedizione è più solenne della prima, nella quale si dice: Ab illo benedicaris, in cuius honore cremaberis – Ti benedica Colui in onore del quale sarai bruciato. Qui sono invocati gli angeli perché il mistero dell’incenso non rappresenta altro che la preghiera dei santi presentata a Dio dagli angeli, come dice san Giovanni nell’Apocalisse (8,4): Et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo – E dalla mano dell’Angelo il fumo degli aromi ascende con la preghiera dei santi davanti a Dio.
Ancor prima però, come spiega Prosper Guéranger, «siccome il pane e il vino che ha offerti hanno cessato d’appartenere all’ordine delle cose comuni e usuali, [il sacerdote] li profuma con l’incenso, come fa per Cristo stesso, rappresentato dall’altare». Belle le parole che accompagnano l’incensazione prima in forma di triplice croce e poi di triplice cerchio sul pane e del calice: Incensum istud a Te benedictum ascendat ad Te Domine et descendat super nos misericordia tua – Ascenda a te, Signore, questo incenso da Te benedetto e discenda su di noi la tua misericordia. È tutto il senso della liturgia, che ascende a gloria della presenza divina e discende per la nostra salvezza – in latino, salvare vuol dire conservare – affinché siamo completamente noi stessi e possiamo vivere in eterno con Dio. Il sacerdote si inchina «in spirito di umiltà e con animo contrito» affinché il sacrificio si compia alla presenza di Dio in modo da essere gradito; poi invoca lo Spirito sulle offerte. Il sacerdote, rendendo il turibolo al diacono, gli rivolge un augurio che fa ugualmente a sé medesimo, dicendo: Accendat in nobis Dominus ignem sui amoris, et flammam aeternae caritatis – Il Signore accenda in noi il fuoco del suo amore e la fiamma dell’eterna carità. Il diacono, ricevendo il turibolo, bacia la mano del sacerdote e poi la parte superiore delle catene, invertendo l’ordine delle azioni che aveva compiuto presentandoglielo. Tutti questi usi sono orientali e la liturgia li conserva perché sono dimostrazioni di rispetto e riverenza.
Dunque, la Chiesa non ha escluso gli aromi dai suoi riti, anzi usa il balsamo per preparare il Crisma. L’incensazione simboleggia il sacrificio perfetto dei santi doni del pane e del vino, cioè Gesù Cristo, a cui sono unite le nostre persone in sacrificio spirituale, emananti profumo soave che sale al cielo (cf. Gen 8,21; Ef 5,2); così sono le preghiere dei santi (Ap 5,8) e le virtù dei cristiani (2Cor 2,15).
Qualcuno osserverà che, da quanto il velo del tempio si è squarciato, non abbiamo più bisogno di alcun velo, e da quando si è offerto il sacrificio di Cristo non abbiamo più bisogno di incenso. In verità non dovremmo nemmeno più aver bisogno di alcun edificio sacro, perché Cristo è il nuovo tempio. Il punto è che, con la venuta di Gesù, il profano non è scomparso del tutto: però è continuamente incalzato dal sacro che è dinamico, in via di compimento: «Perciò dobbiamo ritrovare il coraggio del sacro,il coraggio della distinzione di ciò che è cristiano; non per creare steccati, ma per trasformare, per essere realmente dinamici» (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, Milano 2002, p 127).

venerdì 20 maggio 2011

Inno gregoriano: "Ad regias Agni dapes"

Nel cuore del Tempo di Pasqua (che si svolge nelle sette settimane dopo la Domenica di Risurrezione) accostiamoci ancora allo scrigno del canto gregoriano e commentiamo l'inno che cantiamo e ascoltiamo durante i Vespri in questo periodo. Si tratta dell'inno Ad regias Agni dapes (che letteralmente significa "Al regale banchetto dell'Agnello"), inno che si trovava nel liber usualis fino alla riforma delle rubriche; è stato poi sostituito dall'Ad coenam Agni providi ("Alla cena dell'Agnello"). In realtà le differenze fra i due inni sono minime; il primo è infatti la rielaborazione del secondo compiuta da Urbano VIII nel '600, il papa che aveva riscritto i testi e la musica di alcuni inni e componimenti gregoriani.
Sono scritti entrambi nell'ottavo degli otto toni gregoriani; la scelta non è casuale, se pensiamo che molti autori del passato sono concordi nell'attribuire a questo modo un'aura di perfezione e di allegrezza. L'VIII, insieme al VII, è il modo gregoriano maggiormente scelto nei componimenti che cantano la Risurrezione del Signore; nei Vespri di Pasqua del rito pre-conciliare ben tre delle cinque antifone della salmodia (antifone che, nella nostra parrocchia, cantiamo anche oggi nei vespri dell'Ottava di Pasqua) sono scritte nel tono ottavo; e ricordano l'antifona In Paradisum, che viene cantata dopo il commiato nel rito delle esequie. La ricchezza del canto gregoriano è anche questa: lontano da componimenti estemporanei che spesso banalizzano le liturgie nelle nostre chiese, esso collega, in questa semplice e nobile maniera, la morte dei fedeli alla Pasqua di Cristo, per sottolineare, nella mente di chi assiste a queste liturgie e ascolta il canto, che la Fede nel Signore Gesù Cristo ci consente, per suo volere, di risorgere insieme a Lui. Per questo motivo è importante che nelle nostre parrocchie si torni a cantare il gregoriano; è infatti l'esempio di come testo e musica liturgici, intimamente uniti e inseparabili, siano parte integrante della liturgia e non un semplice orpello. Il canto gregoriano non nasce per piacere agli uomini, come invece succede per la stragrande maggioranza dei canti che si cantano oggi nelle parrocchie; nasce prima di tutto per trascinare gli animi lontano dal mondo, verso Dio. Se l'uomo vi si approccia con pietà ed umiltà lo apprezzera come il più bello e irraggiungibile dei canti liturgici che si possano eseguire in chiesa.
Di seguito il testo e la traduzione dell'inno: quindi una versione cantata dell'inno Ad coenam Agni providi ed un'improvvisazione organistica sul tema dell'inno Ad regias Agni dapes.

Ad regias Agni dapes,
Stolis amicti candidis,
Post transitum maris Rubri,
Christo canamus Principi.

Divina cuius caritas
Sacrum propinat sanguinem,
Almique membra corporis
Amor sacerdos immolat.

Sparsum cruorem postibus
Vastator horret Angelus:
Fugitque divisum mare,
Merguntur hostes fluctibus.

Iam Pascha nostrum Christus est,
Paschalis idem victima:
Et pura puris mentibus
Sinceritatis azyma.

O vera caeli victima,
Subiecta cui sunt tartara,
Soluta mortis vincula,
Recepta vitæ praemia.

Victor subactis inferis,
Trophaea Christus explicat,
Caeloque aperto, subditum
Regem tenebrarum trahit.

Ut sis perenne mentibus
Paschale Iesu gaudium,
A morte dira criminum
Vitæ renatos libera.

Deo Patri sit gloria,
Et Filio, qui a mortuis
Surrexit, ac Paraclito,
In sempiterna saecula. Amen.
Al regale banchetto dell'Agnello,
rivestiti di candide stole,
dopo il passaggio del mar Rosso,
intoniamo un cantico a Cristo Re.

La Sua divina carità
porge a bere il sacro Sangue;
le membra del santo Corpo
l’Amore Sacerdote immola.

Il sangue sparso sulle porte
fugge l'angelo devastatore;
si ritira il mare diviso,
i nemici sono sommersi dalle onde.

Il nostro Agnello Pasquale è Cristo:
insieme è Vittima pasquale
e puro e sincero pane azzimo
per le anime pure.

O vera celeste vittima,
per cui l'inferno è stato sottomesso,
sciolti i lacci della morte,
riconquistato il premio della vita.

Vincitore, sottomesso l'inferno,
i trofei Cristo dispiega;
e, aperto il cielo,
trascina il re delle tenebre.

Perché Tu sia, alle anime, perenne
- o Gesù - pasquale gaudio,
dalla orrenda morte del peccato
libera i rinati alla vita.

Sia gloria a Dio Padre,
e al Figlio, che dai morti
risuscitò e al Paraclito
per i secoli eterni. Amen

Traduzione in italiano tratta dal sito messainlatino.it



giovedì 19 maggio 2011

Il "gay-friendly" che discrimina i gay

Traggo spunto anche oggi dall'editoriale di Riccardo Cascioli, apparso su La Bussola Quotidiana, per parlare di un tema molto delicato e d'attualità; il titolo dell'editoriale di Cascioli è emblematico: «Chi discrimina chi?». Si tratta della questione che viene oggi chiamata omofobia, per indicare il presunto atteggiamento di intolleranza e di discriminazione, se non di vera e propria vessazione, che sarebbe riservato alle persone con tendenze omosessuali da parte della società di oggi; ma in modo abbastanza diretto, tale accusa è rivolta principalmente alla Chiesa cattolica e a coloro che operano nel sociale (politici, psicologi, pensatori) in sintonia con essa. La domanda che oggi dobbiamo porci è se le cose stanno effettivamente come si sente dire in giro; ovvero sia, la Chiesa discrimina veramente gli omosessuali? E' corretto dire che la Chiesa sia omofoba?
Per rispondere a questi interrogativi è necessario, a mio modo di vedere, capire quello che predica la dottrina cattolica sugli omosessuali; andiamo a leggere quello che scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica:

2357 [...] Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ». Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.

2358 [...] Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.

Da queste righe penso sia per tutti sufficientemente chiara la posizione della Chiesa; si condanna l'atto omosessuale, in quanto intrinsecamente disordinato (e se ne spiegano i motivi) , ma nei confronti di chi presenta tendenze omosessuali si dice di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione (la consueta distinzione fra il peccato ed il peccatore). Forse bisognerebbe tacere sul disordine che certi atti comportano? Molto peggio sarebbe, secondo me, se la Chiesa, per un falso ideale di libertà nei confronti dei gay, tacesse su quello che pensa a proposito degli atti omosessuali. Per un falso rispetto della persona (che la società invece sembra approvare) si sarebbe costretti a mentire: credo che nessuno, nemmeno gli omosessuali stessi, voglia vivere in una società basata sulla menzogna reciproca.
Da dove ha origine questo falso rispetto, questo "politically correct" delle parole e del pensiero a cui oggi sembriamo tutti obbligati? A mio modo di vedere, ciò è dovuto al fatto che è diffusa in tutti un'idea di amore adulterata ancora dalla mentalità sessantottina, da un concetto errato e svuotato di libertà: il famoso "vivi e lascia vivere". Per rispettare la libertà di una persona, se la vedi farsi del male (volontariamente o meno) non puoi intervenire e dirglielo. Il solo fatto di esprimere un'opinione, negativa nella fattispecie, sul comportamento di una persona, per il bene di quella persona, viene bollato come intolleranza; e non si sta parlando di obbligare la gente a comportarsi in un certo modo, né tantomeno di odiare una persona perché si comporta in quella maniera: semplicemente della libertà di esprimere un'opinione negativa sull'atto.
Ma il problema di questa ideologia del "politically correct" è anche un altro; alla fine sono proprio coloro che intendono preservare l'uguaglianza a discriminare quelli che vorrebbero proteggere. Un esempio di tale paradosso è spiegato molto bene da Riccardo Cascioli nel suo editoriale di oggi. Egli parla della bocciatura, in Commissione Giustizia della Camera, del progetto di legge Concia sulle "norme per il contrasto dell’omofobia e transfobia", e racconta le reazioni da parte dell'associazionismo omosessuale (precisa che tali reazioni non provengono in primo luogo dagli omosessuali, ma dalle associazioni). Basta, d'altra parte, una piccola ricerca in rete: "Grave e irresponsabile bocciatura", "peggior destra integralista europea", "complici morali di tutti gli atti di violenza" (per limitarsi ad una sola associazione). Ma facciamo bene attenzione a quello che prevedeva questo progetto di legge; scrive Cascioli:

«Esso è composto di soli due articoli, che aggiungono altrettanti commi a due articoli del codice penale: in pratica, la punizione di un’offesa o una violenza è aggravata se la vittima è un omosessuale o transessuale, e le eventuali attenuanti vengono cancellate; inoltre per chi commette reati di questo genere, in caso di sospensione della pena è previsto un lavoro di pubblica utilità presso associazioni di gay In altre parole, chi si è opposto al progetto di legge non ha avallato norme che rendono le persone omosessuali più vulnerabili o meno protette, semplicemente ha valutato che – dal punto di vista di chi è vittima di violenze o offese - le persone omosessuali sono come quelle eterosessuali. Se le parole hanno un senso è chi vuole questa legge che intende introdurre una discriminazione a vantaggio delle persone omosessuali».

Un altro esempio di questa dilagante mentalità falsamente egualitaria, che ha toccato da vicino la comunità caorlotta, lo troviamo in questo articolo, dove si dà particolare enfasi al fatto che alcuni alberghi di Caorle avrebbero aperto al "turismo omosessuale". Ma, pensiamoci bene, perché parlare di "turismo omosessuale"? Perché distinguere il turismo di persone con tendenze omosessuali dal turismo della totalità della gente? Non è questo un modo di discriminare i gay? All'interno dell'articolo si prova a spiegare in cosa consisterebbe tale apertura:

«Abbracciarsi e baciarsi come fanno tutte le altre coppie eterosessuali. Bisogna rendersi conto che, per una coppia gay, anche prendersi per mano può diventare un problema se non ci si trova nel posto giusto. Il gestore del locale potrebbe anche infastidirsi se non è preparato alle nuove tendenze del turismo. Ma questo non accadrà a Caorle nelle strutture che hanno già scelto di seguire il "gay wave"».

In altre parole ama i gay chi consente loro di esibirsi in atteggiamenti poco giustificabili davanti a tutti, ad esempio famiglie con bambini. Ci sentiremmo davvero di bollare un albergatore come intollerante per aver detto a una coppia di tenersi certi atteggiamenti in privato anziché farlo davanti ai bambini? Anche qui non credo faccia differenza che la coppia sia omosessuale o eterosessuale. L'articolo, poi, si conclude così:

«Caorle è invece appare del tutto impreparata, almeno per questa stagione, per la realizzazione di hotel "gay only"».

Ed è qui svelato il paradosso: per far sentire gli omosessuali uguali a tutti gli altri l'auspicio è quello di realizzare strutture adatte ai soli gay (praticamente un ghetto).
In conclusione, credo che la vera discriminazione e la vera violenza sulle persone la facciano in primo luogo coloro che puntano non ad evitare (come è giusto e doveroso) la violenza e l'ingiustizia nei confronti degli omosessuali, ma a far passare il messaggio che in qualche modo "gay è meglio". E, voglio ribadirlo, non credo affatto che gli omosessuali in sè abbiano questo atteggiamento; sono piuttosto le associazioni, i movimenti, le unioni che vogliono creare questo clima di scontro. Come dice Riccardo Cascioli nel suo editoriale, «si assiste a una crescente aggressività dei movimenti gay – non delle persone omosessuali – nei confronti di chi non si adegua a questo pensiero politicamente corretto: è questo che dovrebbe allarmare prima di tutto».

mercoledì 18 maggio 2011

Trent'anni fa il referendum sull'aborto

«Anche se milioni di italiani hanno detto "sì" alla vita sono prevalsi i "no"». Così titolava il quotidiano Avvenire titolava il 18 maggio 1981, esattamente 30 anni fa, quando all'indomani del referendum abrogativo della legge 194. In un mondo ancora intriso delle ideologie sessantottine, vinse l'opinione di coloro che ritenevano (ed in molti casi ritengono ancora) il feto come un grumo di cellule inanimate, con un'invadenza della democrazia anche su temi, come la vita degli essere umani, sui quali non è lecito decidere a maggioranza. A trent'anni di distanza possiamo con una certa definitività tirare le somme su quella scelta, e analizzare se davvero le rivendicazioni dei pro-aborto avessero una consistenza. Si predicava, ad esempio, che la legalizzazione dell'aborto avrebbe posto fine alla pratica pericolosa degli aborti clandestini; eppure al giorno d'oggi l'aborto clandestino è una pratica ancora molto diffusa, si parla di qualche decina al giorno. Addirittura c'era chi prospettava una certa necessità della pratica dell'aborto per applicare il cosiddetto "controllo demografico", ed evitare la sovrappopolazione del territorio nazionale, un'altra predizione che oggi, guardandoci alle spalle, fa quasi ridere. Si assicuravano le donne sulle esigue conseguenze a livello fisico e psichico che un intervento del genere avrebbe causato loro, eppure oggi si sente sempre più spesso parlare di donne distrutte, fisicamente o psicologicamente o in entrambi i modi, a causa di un aborto.
L'evoluzione della scienza (anche se era chiaro già nel 1981) ci sta, invece, mettendo sempre più davanti all'evidenza che la vita umana nasce già dal concepimento, e che dunque non esiste un istante di tempo, dopo il concepimento, a cavallo del quale il feto si possa considerare inanimato o vivo. Eppure anche oggi, specie da parte di coloro che innalzano la scienza a dottrina e religione, si fa finta di non capire, si tira in ballo l'entrata dell'anima nel corpo (ma come, gli atei scientisti credono nell'esistenza dell'anima?) e si giustifica l'aborto come atto di libertà della donna (e il bambino, intrappolato nel grembo di una donna che ha deciso di sopprimerlo, non ha libertà?).
In sostanza, l'analisi di trent'anni di legge 194 ci consente di capire come nessuno dei vantaggi "scientifici" e "sociali" attribuiti alla legge dai pro-aborto all'epoca fossero corretti; l'Italia non ha risolto i problemi che si pensavano di risolvere, è soltanto divenuta un paese dove l'omicidio, in certi casi, è diventato legale, e non, come si potrebbe pensare, nei confronti di violenti criminali o oppressori di popoli, ma di esseri innocenti che hanno la sola colpa di essere stati concepiti "per uno sbaglio" dei genitori. Ciononostante si cercano, con creatività e ostinazione, nuove strade per dare la morte ai feti in maniera più comoda per il medico e per la madre; è il caso della pillola abortiva. E, allora come oggi, la Chiesa, che con ingiusta generalizzazione viene accusata di mostruosità contro i bambini a causa degli atti (veramente mostruosi) di alcuni criminali tra le file del clero, è derisa, perseguitata, osteggiata, quando difende (quasi da sola) la vita dei concepiti. Ma, pensiamoci un attimo, uccidere un bambino prima che nasca è davvero così più leggero rispetto al rovinargli la vita con l'orrendo crimine degli abusi?
Vorrei suggerire la lettura di un articolo di Francesco Agnoli, apparso ieri su La Bussola Quotidiana, nel quale il giornalista fa un'analisi delle vicende all'epoca, rivivendo quel cupo periodo in cui la politica, gli uomini e le donne hanno creduto di poter decidere chi far nascere e chi no.

17 maggio 1981, disfatta dei pro life, di Francesco Agnoli.

martedì 17 maggio 2011

Tesori d'arte sacra: frammenti di iconostasi

Torna l'appuntamento mensile con la scoperta dei tesori conservati tra il nostro Duomo, il museo parrocchiale ed il Santuario. Questo mese ci concentriamo sulle sei icone, conservate nel museo, e raffiguranti le figure di sei degli apostoli, attribuite a san Pietro, sant'Andrea, san Bartolomeo, san Matteo, san Giacomo (il minore) e san Filippo . Si tratta di sei dipinti su tavola di epoca trecentesca, ed attribuiti alla scuola di Paolo Veneziano, pittore veneto vissuto tra il 1300 ed il 1365; essi sono i superstiti di una collezione più ampia di tavole, che in antichità dovevano costituire l'iconostasi della Cattedrale. Il critico e storico dell'arte Rodolfo Pallucchini scrisse dell'autore, nel suo libro "La pittura veneziana del Trecento": «Si tratta di una personalità, legata ai modi di Paolo del tempo della pala feriale marciana e del polittico bolognese di San Giacomo, che proporrei di chiamare il Maestro di Caorle. E' certo un pittore che conosce le regole bizantine paleologhe (dal punto di vista tipologico si pensi all'Icone con i dodici "Apostoli" del Museo Puskin di Mosca), ma con un incupimento espressivo quasi macedone ed al tempo stesso con una grandiosità d'impianto che fa pensare che il suo autore fosse pratico di affresco».
L'elemento architettonico dell'iconostasi era entrato a far parte della costruzione degli edifici di culto già in epoca paleocristiana; si tratta di una barriera, solitamente in marmo e legno, che separava il presbiterio dal resto della navata. Se ne annoverano sostanzialmente di due tipi, riconducibili alla maniera occidentale (piuttosto bassa, una sorta di balaustra) e a quella orientale (molto più slanciata). Quella della cattedrale di Caorle, dagli studi effettuati in passato e di recente, doveva senza dubbio essere nello stile delle chiese orientali, a testimonianza degli intensi rapporti commerciali e culturali tra l'Oriente ed Aquileia e poi Venezia.
Il ruolo per il quale nasce l'iconostasi è quello di creare una divisione tra il luogo destinato ai fedeli e quello destinato all'altare, al quale soltanto il clero poteva accedere durante le sacre funzioni. Inizialmente, nelle iconostasi di stile orientale, tale divisione era creata da semplici drappi o arazzi; solo successivamente, tra gli spazi lasciati vuoti dalla struttura in legno o marmo, fecero la loro comparsa raffigurazioni sacre, quali dipinti od anche statue, da cui deriva il nome, di radice greca, «Iconostasi», che significa letteralmente "posto destinato alle immagini". Per avere un'idea della forma che poteva avere l'iconostasi del nostro Duomo basta visitare la basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, dove l'iconostasi è stata conservata.
Una recentissima ricerca pervenutaci dal dott. Fabio Luca Bossetto, dell'Università di Padova, ha gettato una luce nuova sulla storia di questo elemento artistico-architettonico, ora smantellato. Con puntuali riferimenti alle fonti storiche, specialmente dall'archivio storico patriarcale di Venezia, il dott. Bossetto ha ricostruito la struttura che doveva avere l'iconostasi, e che molto probabilmente doveva constare di quindici tavole simili alle sei a noi pervenute, a differenza delle dodici che, fino a qualche anno fa, si pensava. Infatti, scrive nel suo studio, pensando alla forma consueta delle iconostasi bizantine (che avevano sempre nel mezzo la Deesis, ossia l'insieme delle figure del Cristo, la Santa Vergine e san Giovanni evangelista), già nelle prime ricognizioni della Sovrintendenza si era avanzata l'ipotesi della presenza di quindici icone (dodici apostoli più le tre figure della deesis). Tale ipotesi fu poi confermata dagli scritti lasciati dopo la prima visita pastorale dal vescovo di Caorle Francesco Andrea Grassi; ma il presule, che parlava dei dodici apostoli e del Santissimo Salvatore, citava l'Arcangelo Michele e Santo Stefano, piuttosto che le figure della Vergine e dell'Evangelista della Deesis. Tali inserti necessariamente scompaginavano l'intero ordine delle figure, poiché è chiaro che, se vicino al Salvatore non vi erano la Madonna e san Giovanni dovevano essercene altre due, e non era indifferente la scelta di quali figure scegliere; nota il dott. Bossetto che, se si ammetteva che la Deesis fosse sostituita dall'Arcangelo e Santo Stefano, il Protomartire, sebbene patrono della Cattedrale, avrebbe sopravanzato in importanza gli apostoli. Il problema è in qualche modo risolto dalla numerazione rinvenuta sul retro di alcune delle tavole superstiti, di cui parla Maria Elisa Avagnina: si trova il numero IIII dietro a san Bartolomeo, il IX dietro a sant'Andrea, l'XI a san Matteo e il XIII a san Giacomo. Il fatto che la numerazione si spinga oltre il XII conferma la presenza di quindici tavole; pensando poi che il posto centrale (cioè l'VIII) doveva essere riservato al Cristo, e osservando la posizione dei soggetti, che dovevano essere rivolti tutti verso il centro, subito a destra del Salvatore doveva esser posto sant'Andrea, e quindi a sinistra, a rigore di logica, san Pietro, primo tra gli apostoli e fratello di Andrea. Per un coerente posizionamento delle icone dell'Angelo e di Santo Stefano citate dal vescovo Grassi, dunque, esse non potevano che essere poste agli estremi della composizione, probabilmente in ordine di importanza al primo posto a sinistra l'Arcangelo e a destra il Protomartire. Il fatto abbastanza certo che alla destra del Cristo ci fosse sant'Andrea, per Bossetto, significa verosimilmente che non doveva essere rappresentato san Paolo, associato a san Pietro come patroni della Chiesa romana, e la posizione di san Matteo fa pensare alla presenza dei quattro evangelisti, quindi san Marco e san Luca in sostituzione degli apostoli Simone e Giuda, come era consueto in alcune tradizioni.
Dagli scritti lasciati all'epoca, fu il vescovo Giuseppe Maria Piccini, il cui stemma campeggia sulla parete sinistra del presbieterio, a rivoluzionarne l'intera struttura, smantellando l'iconostasi e sostituendola con la più bassa balaustra in marmo ancora presente in Cattedrale, ed inoltre spostando l'altare maggiore ed aprendo due finestroni in corrispondenza dell'abside centrale. Da altre informazioni ricavate dalle visite pastorali dei vescovi Francesco Andrea Grassi e Domenico Minio, il dott. Bossetto ha concluso che sopra l'iconostasi dovevano essere presenti un Crocifisso (lo stesso che campeggia sopra l'altare oggi, sulla croce moderna) e due statue lignee della Vergine e di San Giovanni Evangelista, che dovevano così costituire la Deesis non riprodotta a livello delle icone.
Di seguito la disposizione delle icone nella ricostruzione di Fabio Luca Bossetto; le immagini sono copie fedeli ricostruite (le originali sono conservate nel museo parrocchiale), tratte dal libro "Caorle. Il Duomo e il Museo" a cura di Alessandro Mozzambani e Giulia Pavesi, 1982.


1. San Michele Arcangelo, 2. San Taddeo, 3. San Tommaso, 4. San Bartolomeo, 5. San Luca, 6. San Marco, 7. San Pietro, 8. Santissimo Salvatore, 9. Sant'Andrea, 10. San Giovanni, 11. San Matteo, 12. San Giacomo Maggiore, 13. San Giacomo Minore, 14. San Filippo, 15. Santo Stefano

lunedì 16 maggio 2011

L'Istruzione Universae Ecclesiae

Torno a scrivere dopo una settimana un po' turbolenta, per diversi motivi, tra i quali il blocco della piattaforma blogger su cui questo blog si fonda. E non potevo non parlare di uno degli eventi in chiave liturgica più importante degli ultimi 50 anni di storia della Chiesa, ossia l'emanazione da parte della Pontificia Commissione Ecclesia Dei dell'Istruzione del papa Universae Ecclesiae (che significa "della Chiesa Universale") sulle misure di attuazione della precedente lettera motu proprio data Summorum Pontificum, datata 2007. Questa istruzione, dopo un periodo di circa tre anni dal motu proprio, fissa definitivamente le modalità, per i fedeli e soprattutto per i vescovi ed il clero, per la celebrazione della Santa Messa secondo la forma extraordinaria del rito romano. Cliccando su questo link potete leggere la traduzione in lingua italiana, pubblicata venerdì scorso sul bollettino quotidiano della Sala Stampa Vaticana, accompagnata da una nota redazionale.
Alla luce delle suggestive celebrazioni del papa in visita ad Aquileia e Venezia, specialmente noi, popolo del Nordest, abbiamo la possibilità di leggere queste importanti righe da un particolare punto di vista. Una prima affermazione importante, già presente nel motu proprio e ribadita anche all'inizio dell'istruzione, è la seguente:

«I testi del Messale Romano di Papa Paolo VI e di quello risalente all’ultima edizione di Papa Giovanni XXIII, sono due forme della Liturgia Romana, definite rispettivamente ordinaria e extraordinaria: si tratta di due usi dell’unico Rito Romano, che si pongono l’uno accanto all’altro. L’una e l’altra forma sono espressione della stessa lex orandi della Chiesa. Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con il debito onore».
(§ 6)

Dunque non due Messe diverse, nemmeno una più valida dell'altra; entrambe le forme, vale a dire quella alla quale assistiamo tutte le domeniche nella maggior parte delle nostre chiese e quella nel rito cosiddetto "tridentino", sono la stessa Messa. Questa affermazione sembrerebbe quantomeno fantasiosa; chiunque abbia assistito ad una Messa tridentina o sappia per lo meno di cosa si sta parlando, e la confrontasse con quella che, nella maggior parte dei casi, frequenta nella propria parrocchia, a tutto potrebbe pensare tranne che si parli della stessa cosa. Forse risulterebbero meno differenti se il modo di celebrare la Messa nella forma ordinaria fosse più rispettoso delle rubriche che fin dal Concilio Vaticano II la Chiesa ha sempre emanato. Ritornano, allora, alla mente tutte le frasi, abbondantemente già citate, delle costituzioni conciliari e, talvolta, anche dall'introduzione al Messale di Paolo VI, dopo la riforma liturgica; e ritorna alla mente anche la Solenne Messa celebrata da papa Benedetto XVI al parco san Giuliano. In effetti la Santa Messa "riformata", come è anche chiamata la forma del rito ordinario, post-conciliare, al giorno d'oggi è fatta teatro dei più fantasiosi esperimenti liturgico-cinematografico-musicali. Non possiamo negare che, con l'alibi di "stare al passo con i tempi", o di attirare i giovani alla Santa Messa, ché altrimenti non ci verrebbero più (come se oggi le nostre chiese traboccassero di giovani, specialmente cresimati), la Messa si è trasformata piuttosto in una commedia teatrale, in un palco da concerti rock o in una sala da film. Il carattere del sacro sembra talvolta essere completamente scomparso dalla Santa Messa e dai luoghi di culto in generale; con la pretesa di interpretare il desiderio di Nostro Signore, che gradirebbe il culto in ogni forma lo si voglia a Lui rivolgere, specialmente se il più difforme possibile dalle rubriche liturgiche, si è finito per ridurre il Supremo Sacrificio del Signore sull'altare ad un banale incontro tra amici che si ritrovano la domenica.
Di fronte ad uno scenario come questo risuonano pesantemente le parole che il nostro Santo Padre ci ha rivolti nella Basilica Cattedrale di san Marco:

«La nostra vita spirituale dipende essenzialmente dall’Eucaristia. Senza di essa la fede e la speranza si spengono, la carità si raffredda. Vi esorto pertanto a curare sempre più la qualità delle celebrazioni eucaristiche, specialmente di quelle domenicali, affinché il Giorno del Signore sia vissuto pienamente e illumini le vicende e le attività di tutti i giorni».

A questo scopo ecco il proponimento del pontefice nell'emanazione del motu proprio prima e di questa Istruzione poi: le due forme del rito romano, quella ordinaria e quella extraordinaria, "possono arricchirsi a vicenda", come diceva nella lettera inviata ai vescovi nel 2007. Il papa non ha pensato di tornare a promuovere la liturgia antica soltanto a vantaggio di coloro che non vogliono celebrare in alcun altro rito che quello antico; egli ha pensato ad un rilancio della celebrazione della Santa Messa nella venerabile forma extraordinaria anche e soprattutto per la totalità dei fedeli, perché frequentando l'una e l'altra forma essi possano recuperare il senso del sacro, la venerazione nei confronti della Santissima Eucarestia, la bellezza della lingua e del canto sacro nella liturgia riformata, il significato dell'espressione "partecipazione alla Santa Messa", che non si riduce ad un semplice ripetere con la propria bocca le parole o i canti. Non solo; ma noi oggi, con l'alfabetizzazione che abbiamo (nemmeno da porre in confronto con quella di 50 anni fa, quando vi era solo il rito tridentino) e grazie anche alla Messa nella forma ordinaria, che ci ha dato modo di familiarizzare nella lingua volgare con le parti dell'ordinario della Messa, abbiamo la possibilità straordinaria di accostarci alla Messa antica in maniera molto più efficace di quanto facevano i nostri antenati. Quindi chi obietta che "la Messa in latino è sbagliata perché non si capisce niente", come si sentiva anche domenica scorsa al parco san Giuliano credo abbia sbagliato in partenza; se è vero che si fa più fatica a capire, forse, quello che dice il prete o canta la schola (ma fare più fatica non vuol dire che non ci si possa riuscire), d'altra parte ciò ci aiuta ad accostarci meglio (anche con la fatica dell'intelletto, che spesso vorremmo fare a meno di usare) a Gesù Cristo, giacché la piena comprensione del mistero della Santa Messa, credo, nessuno abbia la pretesa di raggiungerla, sia in italiano che in latino.
D'altra parte nessuno è autorizzato a considerare questo atto magisteriale del papa e della Chiesa come una vittoria dal semplice gusto politico, quasi ad usare la Santa Messa come arma per la lotta ideologica fra le due fazioni pro e contro la Messa in latino; infatti, leggiamo nella stessa istruzione:

«I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».
(§ 19)

Chi ama il latino e la liturgia antica in generale per la Santa Messa non lo fa (e non lo deve fare) per astruse convinzioni personali (che nel caso di alcuni gruppi sfociano in aperte eresie); prima di tutto deve esserci l'amore, nostro nei confronti del Signore, che ha scelto la Santa Messa per tornare da noi col suo Corpo ed il suo Sangue, e Suo nei nostri confronti, poiché ci rende partecipi di questi misteri, così lontani dal nostro mondo e dal nostro modo di pensare. Proprio per questi motivi non dobbiamo cadere nella tentazione di credere che, rendendo la liturgia più vicina a quello che ci fa comodo, come un comizio, una commedia od un concerto rock, essa ci faccia più degnamente accostare al nostro Salvatore, e invece arricchendola col tesoro del canto gregoriano o polifonico e della lingua latina, sia essa, e non noi stessi, ad allontanarci da Lui.
Ringraziamo il Signore ed il nostro Santo Padre, che in nome Suo pasce le pecore del popolo di Dio; preghiamo perché i vescovi e i nostri pastori siano conformi alle sue decisioni, e non vi si oppongano, magari in nome di qualche ideologia che, soltanto per ragioni cronologiche, oggi viene spesso identificata con il fantomatico spirito del concilio.

martedì 10 maggio 2011

La Messa a San Giuliano - Alcune considerazioni

Riprendo un articolo apparso ieri dal blog Cantuale antonianum, che esprime alcune considerazioni (che condivido in pieno) sull'allestimento e lo svolgimento della Santa Messa celebrata da papa Benedetto XVI al parco san Giuliano di Mestre domenica scorsa. Potete raggiungerlo cliccando sul titolo di seguito: Una basilica a cielo aperto: la messa del Papa a Mestre, un esempio per le future maxicelebrazioni papali.
Voglio solo citare alcuni passaggi importanti:

Il cosiddetto "palco papale" era un vero e proprio abside basilicale, con la riproduzione in gigantografia su tela di mosaici in stile bizantino veneziano. L'altare coperto dal ciborio, pilastri che inframezzavano l'enorme presbiterio e lo splendido e semplicissimo ambone che richiamava visivamente quello di San Marco. [...]
Niente biancume iconoclasta o peggio ancora palchi da concerto rock o manifestazione politica: i cerimonieri organizzatori veneti ci hanno finalmente una cattedrale virtuale, degna di una Messa papale, in puro stile Benedetto XVI.
Ma non c'è da lodare solo la scenografia: tutto è stato veramente lodevole. La posizione di vescovi e presbiteri attorno al Papa celebrante, il canto dei ministri (il diacono ha cantillato il vangelo in maniera splendida e significativa), il canto gregoriano, a cui si è voluto dare - ed è ben giusto - il posto d'onore, senza dimenticare il canto assembleare (senza stravaganti novità, ma puntando sui canti più conosciuti). Ottimi e solenni i seminaristi ministranti, guidati - per quanto potevo vedere e sapere - dai precisi (ma discreti) cerimonieri di Padova, i proff. di liturgia Don Gianandrea Di Donna e padre Andrea Massarin, francescano, che ci hanno mostrato di saper unire le competenze teoriche (leggi qui) ad una sana pratica. Non è certo facile organizzare e gestire una celebrazione del genere, neanche sotto la supervisione esperta ed attenta del Maestro delle Celebrazioni pontificie Guido Marini.

Di seguito metto anche le foto, prese in prestito dal blog Sacrissolemniis. Vorrei aggiungere un mio commento. Direi che noi, fedeli del patriarcato di Venezia, nonché tutti i fedeli delle diocesi del Triveneto, dobbiamo essere orgogliosi di aver dato un tale splendore alla celebrazione della Santa Messa con il papa; in questo modo abbiamo tutti (o quasi tutti) avuto l'impressione, come ha detto lo stesso pontefice durante la sua omelia, di non assistere ad un evento mondano, ma alla visita di Nostro Signore nel Supremo Sacrificio dell'Eucaristia: «È significativo che il luogo prescelto per questa Liturgia sia il Parco di San Giuliano: uno spazio dove abitualmente non si celebrano riti religiosi, ma manifestazioni culturali e musicali. Oggi, questo spazio ospita Gesù risorto, realmente presente nella sua Parola, nell’assemblea del Popolo di Dio con i suoi Pastori e, in modo eminente, nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue».
Non è, infatti, da tutte le organizzazioni di questi grandi eventi dare un servizio così nobile ed allo stesso tempo semplice, come lo stesso Concilio Vaticano II ha raccomandato: «I riti splendano per nobile semplicità» (SC 36). La nobiltà era quella dell'arte, vera arte, patrimonio culturale di tutte le genti venete, richiamata nella riproduzione dei mosaici della nostra Basilica Cattedrale di San Marco; nobiltà (e questo è un vanto tutto caorlotto) erano anche i candelieri e la Croce d'altare, provenienti dal Tesoro del nostro Duomo. Semplicità sta nella scelta stessa di queste cose, e non nella ricerca affannosa e spesso inconcludente di chissà quali novità, con la simbologia ambigua tipica di certa "arte" moderna (che troppo spesso abbiamo visto e vediamo fare da cornice alle celebrazioni liturgiche), contraria a quanto lo stesso Concilio insegna: «[I riti] non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 36). Semplicità è anche quella di utilizzare gli immensi tesori di arte sacra che, specie nelle nostre terre, i nostri antenati ci hanno affidato, e non buttarli via, come spesso in questi anni si è fatto, magari spendendo (e questa volta sì sperperando) grandi patrimoni per comprare paramenti e suppellettili di dubbio gusto sia artistico che liturgico.
Nobiltà e semplicità li abbiamo potuti non solo vedere, ma anche udire, con la raffinata scelta dei canti, incentrata sul canto gregoriano. Qui non tutti possono dirsi d'accordo, e questo è certamente motivo di tristezza; ma vorrei ribadire ancora una volta che la celebrazione di domenica scorsa, anche nella musica sacra, seguiva il Concilio, che ci insegna: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale» (SC 116). Ed il posto principale ha avuto: con l'introito previsto per la liturgia del giorno, Iubilate Deo; il canto del Vidi aquam, che nel tempo di Pasqua sostituisce l'Asperges me al momento dell'aspersione con l'acqua benedetta, particolarmente raccomandata nelle domeniche del tempo di Pasqua; l'Ordinario della Messa, preso dalla Messa Prima Lux et origo (alternata alla polifonia della schola cantorum), indicata per il tempo pasquale nei libri preparati in seguito alla riforma liturgica e fortemente voluti dal Concilio e da papa Paolo VI; l'antifona di Comunione, Surrexit Dominus. Oltre al gregoriano abbiamo potuto gustare nuovamente la meravigliosa polifonia rinascimentale che per tanti anni nelle nostre chiese ha alimentato la fede dei nostri padri; ed anche il canto devozionale e popolare, con ritornelli semplici e molto diffusi (ma mai banali) come nei canti Cristo risusciti e Sei Tu, Signore, il Pane. Anche questo perfettamente in linea con quanto ci insegnano i padri conciliari: «Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica [...] Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli» (SC 117-118). Nel libretto per la celebrazione, consegnato gratuitamente a tutti i fedeli, si potevano leggere i testi in latino affiancati dalle traduzioni in italiano, e accompagnati dalla notazione musicale quando alla schola si univa o intervallava l'assemblea.
Le critiche, che sentivo prima e durante la celebrazione, a questo modo di condurre il canto liturgico e la celebrazione mi hanno fatto sorgere immediatamente questa domanda: nelle nostre celebrazioni liturgiche siamo ancora in grado di ascoltare? Siamo capaci di fermarci e far posto per un momento a quello che il Signore ci vuole dire (anche e soprattutto per il fatto che il canto gregoriano trae la sua origine e si sviluppa su testi biblici e patristici)? Siamo disposti con umiltà a tacere per un momento al cospetto di Dio, a deporre la smania di voler fare per forza qualcosa di diverso dall'ascolto e dalla meditazione orante, e metterci devotemente alla sequela di Cristo come fanno i discepoli che ascoltano il maestro senza parlargli sempre sopra? Credo che in questa direzione debba andare l'educazione liturgica del popolo di Dio, direzione indicata ed ampiamente illustrata dal nostro Santo Padre Benedetto XVI, che in ogni celebrazione (specialmente in questa, vissuta da noi in prima persona) vuole insegnare il decoro e la dignità delle celebrazioni, dando indicazioni anche ai suoi cerimonieri in questo senso.
L'augurio che posso rivolgere a tutti coloro che hanno assistito dal vivo alla Santa Messa del parco san Giuliano, ed anche a coloro che l'hanno guardata alla televisione o sentita alla radio, è proprio questo: lasciare con umiltà che l'insegnamento del papa penetri nel profondo del nostro animo; preparare, con spirito di sottomissione, il proprio cuore a ricevere gli insegnamenti del Santo Padre. Solo così essi potranno rinnovare il nostro modo di vivere la liturgia divina, e potremmo dire sul serio che il Santo Padre ha confermato la nostra fede; solo così non faremo della Liturgia una serie di gesti e di azioni inventati dall'uomo e che finiscono solo sull'uomo, ma bensì che partono da Dio e a Dio ritornano.

 
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