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lunedì 31 ottobre 2011

Solennità di Tutti i Santi

La dedicazione di un giorno particolare nel calendario per la celebrazione di un'unica festa per tutti i Santi risale ai primi secoli della storia cristiana, e fin dai secoli VIII e IX si hanno testimonianze storiche ben documentate sul fatto che la festa fosse celebrata anche a Roma il primo giorno di novembre. La Chiesa onora l'assemblea festosa delle anime di coloro che, nostri fratelli, sono ora nella gloria del Paradiso, insieme alle schiere celesti, e possono godere della visione beata del Padre. L'interpretazione del culto dei Santi nella Chiesa cattolica ha provocato e provoca tutt'ora qualche confusione: si pensi ad esempio ad alcune eresie protestanti; oppure ai frequenti dubbi che vengono instillati spesso nei ragazzi e nei giovani, tentando di fare del culto dei Santi un pretesto per farli allontanare Fede cattolica. Li si induce, cioè, a pensare che i Santi siano onorati nella Chiesa in maniera impropria, addirittura come se fossero altri dei. Nulla di più sbagliato e fuorviante. Ci viene in aiuto un estratto del sempre utile Catechismo Maggiore di San Pio X, che in maniera semplice e breve ci aiuta a capire perché celebrare la solennità di Tutti i Santi:

«208. Perché la Chiesa ha istituito la festa di tutti i Santi?

La Chiesa ha istituito la festa di tutti i Santi:

  • per lodare e ringraziare il Signore d'aver santificati i suoi servi in terra e d'averli coronati di gloria in cielo;
  • per onorare in questo giorno anche quei Santi de' quali non si fa una festa particolare fra l'anno;
  • per procurarci maggiori grazie col moltiplicare gli intercessori;
  • per riparare in questo giorno i mancamenti che nel corso dell'anno abbiamo commesso nelle feste particolari dei Santi;
  • per eccitarci maggiormente alla virtù cogli esempi di tanti Santi d'ogni età, d'ogni condizione e di ogni sesso, e colla memoria della ricompensa che godono in cielo.»

E, al numero successivo, aggiunge:

«209. Che cosa ci deve animare ad imitare i Santi?

Ad imitare i Santi ci deve animare il considerare che essi erano deboli e fragili come noi e soggetti alle stesse passioni, che confortati dalla divina grazia si sono fatti santi con quei mezzi che possiamo usare anche noi, e che per i meriti di Gesù Cristo è promessa a noi pure quella stessa gloria che ora essi godono in paradiso.»

Da queste poche ma efficaci righe, capiamo perché la Chiesa onora i Santi: innanzitutto è una lode ed un ringraziamento a Dio, che ha onorato per primo questi suoi servi sulla terra e nel cielo; è poi un invito all'imitazione delle virtù di questi nostri fratelli che ci hanno preceduto sulla terra, e che hanno meritato di essere riconosciuti in maniera particolare dalla Chiesa a motivo dell'esemplarità con cui hanno vissuto il Vangelo di Cristo. I Santi, per la Chiesa, non sono affatto delle divinità, né il loro culto può essere in qualche modo associato ad una qualsiasi forma di politeismo, come certi individui, nella loro ignoranza di come stanno realmente le cose, vogliono far credere alla gente, traendo in errore anche le anime innocenti. Il Catechismo di San Pio X precisa che essi erano "deboli e fragili come noi e soggetti alle stesse passioni", e non per l'esclusivo proprio merito si sono sollevati, ma "confortati dalla divina grazia", "con quei mezzi che possiamo usare anche noi". Quindi il culto reso ai santi diventa anche un ringraziamento a Dio, poiché Egli dà anche a noi le possibilità e i mezzi per essere santi; da qui nasce, poi, una supplica affinché ci conceda, al termine della nostra vita di raggiungere i nostri fratelli, che già sono Santi, in Paradiso.

Perché, allora, pregare i santi? Innanzitutto bisogna precisare che Colui a cui indirizzare ogni nostra preghiera è sempre la Santissima Trinità, nel nome di Gesù Cristo nostro Signore; ciò detto, la preghiera ai Santi non mira a richiedere a loro stessi direttamente quei beni e quelle grazie di cui solo Dio è dispensatore, ma riconosce i Santi come "intercessori", ossia mediatori. Essi portano la nostra preghiera a Dio, pregandolo perché venga esaudita e guadagnandoci in questo modo le grazie richieste; San Giacomo, infatti, afferma che «molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza» (Gc 5, 16) e, poiché nessuno di noi sulla terra può dirsi giusto e privo di colpe, molto più delle nostre saranno gradite al Signore le preghiere di coloro che, per la grazia di Cristo e la rettitudine con cui hanno applicato alla loro vita il Vangelo, possono adesso contemplare il volto di Dio. La preghiera rivolta ai Santi è e deve essere una preghiera rivolta a Dio per intercessione dei Santi; ad essi si chiede, inoltre, protezione, per resistere alle tentazioni del demonio, per avere la forza di sopportare le sofferenze e le tribolazioni e per essere confermati nella testimonianza di Cristo nella propria vita come gli stessi Santi hanno fatto nella loro. Così nascono i Santi patroni: quasi con una sorta di "solidarietà" fraterna, i fedeli sulla terra invocano quei Santi che in vita hanno sofferto una particolare sofferenza, svolto un certo lavoro, servito particolarmente i poveri o gli ammalati perché essi possano con maggior vigore rivolgere a Dio le preghiere dei loro protetti.

Ma nella solennità che ci accingiamo a celebrare, non onoriamo e ricordiamo soltanto i Santi del calendario; tutti i defunti che hanno lasciato questo mondo nella grazia di Dio, veramente pentiti e contriti di tutti i loro peccati, scontata la pena temporale che il peccato ha provocato e ammessi in Paradiso, partecipano della stessa gloria dei Santi che la Chiesa ha riconosciuto, per così dire, "ufficialmente". Questo è un grande motivo di speranza per noi che ancora siamo in pellegrinaggio sulla terra; ma allo stesso tempo non deve sminuire in noi il senso del peccato e il Timore del Signore. E' infatti invalso, nel nostro tempo, il pensiero che alcuni nostri fratelli che lasciano questo mondo debbano subito essere considerati santi, ad esempio per vicende particolari che hanno contrassegnato la loro vita, il modo con cui sono morti, la loro visibilità pubblica eccetera; per contro, altre persone, che magari hanno vissuto e sono defunte nell'anonimato, non meritano lo stesso onore e trattamento. Questo non per entrare nel merito dell'effettiva santità o meno dei nostri fratelli che muoiono, ma per stare bene in guardia sul rischio di fare del nostro giudizio, personale o collettivo, il metro con cui stabilire quando una persona è santa e quando non lo è, cosa che spetta unicamente a Nostro Signore. Per questo, di fronte alla morte dei nostri fratelli, è necessario, anziché azzardare processi di canonizzazione autonomi, rivolgerci con umiltà e devozione alla Pietà Divina, ancora una volta per mezzo dell'intercessione dei Santi.
Ecco, perché, all'inizio del mese di novembre, troviamo in successione, quasi fossero unite, la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione di Tutti i fedeli defunti. I primi, già giunti alla gloria del Paradiso, ci aiutano nella preghiera alla Divina Misericordia, affinché anche gli altri (e noi con loro) possano giungere alla stessa gioia.

Ricordo infine gli appuntamenti che nella nostra parrocchia sono dedicati ai Santi e ai nostri morti: domani, giorno di Ognissanti, le Sante Messe seguiranno l'orario festivo, con i Vespri solenni alle 17:45. Alle ore 15:00 si terrà la processione dal Duomo al cimitero cittadino, durante la quale saranno cantate le litanie dei Santi; al termine si terrà la benedizione delle tombe in quel cimitero e, di ritorno verso il Duomo, a quelle del cimitero napoleonico. Ricordo inoltre la possibilità di lucrare l'Indulgenza Plenaria per i propri defunti a partire dalle ore 12 del 1° novembre e fino a tutto il giorno 2, visitando una chiesa o una cappella alle solite condizioni stabilite dalla Chiesa, e durante tutta l'Ottava dei defunti, visitando le tombe al cimitero. Mercoledì 2, alle ore 15:00, si terrà come consuetudine la Santa Messa nella cappella del cimitero cittadino, con la presenza dei sacerdoti di tutto il vicariato.

sabato 29 ottobre 2011

A proposito di Halloween

Ricordo che, quand'ero bambino, questo periodo dell'anno era sentito come particolarmente importante; si avvicinava infatti la festa di Tutti i Santi, in occasione della quale si stava a casa da scuola e si andava a Messa, il che faceva di questo giorno un po' una "domenica", anche se cadeva in mezzo alla settimana. Il giorno successivo, poi, era il "giorno dei morti"; anche in quell'occasione le scuole erano chiuse, e anche se non c'era la Messa come la domenica, si avvertiva in famiglia un certo clima raccolto: addirittura alcuni miei parenti accendevano un lumino in casa davanti alle fotografie dei nostri cari defunti, come a tenerne più vivo il ricordo in questo periodo dell'anno. Da allora non sono passati tanti anni; eppure, a guardarsi intorno, sembra addirittura di abitare in un'altra nazione: zucche esposte in quasi tutti gli esercizi pubblici, per non parlare di scheletrini e maschere da carnevale mal riuscite, e già da una settimana circa si cominciano a sentire, la sera, i primi scoppi di petardi, come se fossimo già al veglione di san Silvestro. E' Halloween, la "festa" che ha sostituito quella di Ognissanti.

Sembra quasi impossibile che in così poco tempo il nostro mondo abbia subito un cambiamento così drastico, tanto da importare e quasi fare propria una "tradizione" che non gli appartiene. Infatti i bambini di oggi, all'avvicinarsi del mese di novembre, non pensano più ai Santi o ai propri defunti: prima di tutto si sta avvicinando Halloween. Ascoltando, poi, le opinioni della gente, alcuni pensano che, in fin dei conti, è soltanto una carnevalata, anche se fuori stagione; sì, i più adulti sono perplessi dalla sua diffusione, anche perché non la sentono come un'usanza propria, ma, dopo tutto, non fa del male a nessuno, anzi, fa divertire i bambini e i ragazzi. Altri, addirittura, colgono l'occasione per criticare la Chiesa, che, resasi conto della diffusione massiccia di questa "festa", da un po' di anni fa sentire la sua voce contraria.

Ma siamo davvero sicuri che quella di Halloween sia soltanto una festa in maschera, un modo per far divertire i bambini e per far fare baldoria ai giovani? Vorrei riflettere su due temi in particolare; il primo è quello del culto dei defunti, che da questa falsa tradizione viene completamente svalutato. La religione cattolica ha da sempre considerato degno di particolare rispetto il ricordo dei defunti; i cattolici, infatti, credono nella risurrezione della carne e nella Comunione dei Santi. Basti pensare, storicamente parlando, alla posizione dei cimiteri cristiani nei primi secoli dopo la libertà di culto: essi erano costruiti proprio adiacenti alle chiese, e addirittura, in alcuni casi, i defunti venivano seppelliti all'interno dello stesso edificio sacro. Un esempio tangibile di questo è il nostro Duomo, che è antico a sufficienza: sotto il portone principale sono rimaste ancora delle tombe di antiche famiglie caorlotte e davanti al campanile, dove ora sorge il centro civico, vi era il primo cimitero cittadino. Questo perché i cristiani credono che, specialmente nella Santa Messa, il cielo e la terra si uniscano in un'unica liturgia; così, quando il cristiano si recava in chiesa si ricongiungeva invisibilmente con i propri cari defunti nell'adorazione del Santo Sacrificio, ed avere le tombe vicino alle chiese era un modo ancor più forte per sottolineare questo aspetto. Poi, a partire dall'età napoleonica, i cimiteri sono stati gradualmente rimossi dai centri delle città: il cimitero di Caorle, ad esempio, fu spostato dal sagrato del Duomo alla via che porta alla sacheta (a quel tempo il confine della città), e via via più in periferia, quasi a voler allontanare dai vivi il ricordo dei propri morti e l'idea stessa che la morte è una condizione comune della vita. Ciononostante anche oggi, almeno nell'immediatezza della dipartita di una persona, credenti e non credenti si stringono con affetto tra loro e intorno alle famiglie che hanno subito il lutto con profondo rispetto e condoglianza.
Cosa comporta, allora, Halloween per il culto dei morti? Certamente oggi non possiamo più riferirci liberamente, come si faceva fino a qualche anno fa, al 2 novembre come al "giorno dei morti" senza timore di essere fraintesi. Provate a pensarci anche voi: se si parla di "giorno dei morti" si pensa più facilmente al titolo di un film dell'orrore che al nome della ricorrenza che cade a inizio novembre. Da uno stato di rispetto, non oso dire timore, per la morte e per i defunti, si passa ad una completa de-sacralizzazione, che significa anche mancanza di rispetto. Pensiamo quindi bene a quale messaggio mandiamo ai bambini quando li si veste da vampiri, zombie e quant'altro; la concezione stessa della vita dopo la morte viene stravolta, passando dalla condizione ultraterrena dei Novissimi, che da sempre viene indicata come "eterno riposo", ad una sorta di dannazione che vede i morti risvegliarsi su questa terra e comportarsi come dei demoni. Non solo, ma, complici una certa letterattura e cinematografia moderne, che come al solito, per far leva sui giovani, si avvalgono di messaggi più o meno esplicitamente sessuali, è proprio quest'ultima "vita" dopo la morte ad essere presentata come allettante ed affascinante, mentre quella religiosa è vista piuttosto come perdente e deleteria. Tanto che molti genitori si fanno molti più problemi a portare i propri bambini in cimitero per visitare con pietà le tombe dei propri cari che a fargli guardare o leggere le storie di vampiri e di zombie; oppure molti giovani, che ritengono la fede una creduloneria da cretini, si perdono in queste superstizioni fino a cadare vittime di cose abominevoli, come divinazione e sedute spiritiche.

Da questo mi aggancio al secondo aspetto della "festa di Halloween" su cui volevo riflettere, ossia l'avvicinamento all'occulto e l'esposizione agli influssi demoniaci. Halloween, infatti, è nata in diversi Paesi e con diverse culture: in Germania ed Inghilterra, da usanze sciamaniche celtiche, ma soprattutto in Irlanda, dove ha preso la connotazione spiritistica che ha ancora oggi. La famosa zucca intagliata è infatti legata alla leggenda di Sunny Jack, un fabbro dissoluto che aveva fatto un patto col diavolo e, al termine della sua vita, non fu accolto in Paradiso, né all'inferno, condannando la sua anima ad errare per sempre sulla terra con un lumino che inserì in una rapa cava per farsi luce. Questa è la vera storia delle zucche che vediamo esposte nei negozi, nelle case, alle feste di compleanno dei bambini... Vittime di quel consumismo che ha trasformato ormai tutte le feste religiose in occasioni redditizie per pochi. Non è un caso, a questo proposito, che per i bambini la vera festa di questo periodo sia Halloween: ma la parola "Halloween" deriva da All Hallows' Eve, che vuol dire "Vigilia di Tutti i Santi"; chiamare, dunque, "festa" questa sorta di ricorrenza significa fare della vigilia occasione più importante della festa vera e propria, che è Ognissanti, la quale viene oggi per lo più snobbata, dai giovani che la sera prima hanno fatto i bagordi fino a tardi e, sempre più spesso, anche dai bambini e i loro genitori. Possiamo credere e convincerci, quindi, che questi che lancia la Chiesa siano solo degli allarmi senza significato, ma nel frattempo, nel modo di sentire comune, Tutti i Santi, festa religiosa, ha ceduto il passo alla sua vigilia, "festa" pagana. E cos'è questa, se non l'opera del diavolo?

Voglio concludere con l'augurio per tutti i lettori di una buona festa di Tutti i Santi ed una santa Commemorazione dei Fedeli Defunti; in sintonia con quanto predica la Chiesa, vorrei spronare ad un atto di coraggio i genitori dei bambini più piccoli, quelli che, se non andranno vestiti da scheletrino o da vampiro per le strade della città forse si sentiranno un po' diversi dagli altri loro amichetti. E' vero che saranno diversi dai loro amichetti, ma in alcuni casi, e questo è certamente uno di quelli, c'è una diversità positiva, che conferisce pregi e originalità. E a coloro che pensano che prendere in giro i morti sia solo un modo per "esorcizzare" la paura della morte vorrei rispondere che si esorcizzano il diavolo e i suoi demoni; quelli bisogna scacciare con forza dalla nostra vita e da quella dei bambini, e non il ricordo delle persone care defunte e il pensiero che un giorno anche noi moriremo, cosa che ci aiuta a vivere con umiltà e letizia la nostra vita presente.

Immagini: da angolodiangelnellavigna.blogspost.com

venerdì 28 ottobre 2011

Il discorso del Papa ad Assisi

Come già accennato ieri su questo blog e ripreso dalla gran parte delle testate di informazione, ieri si è tenuta ad Assisi la "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo", Pellegrini della verità, pellegrini della pace; nella mattinata il Santo Padre Benedetto XVI ha tenuto il suo intervento, che ora vi proponiamo. A modo di vedere di chi vi scrive, sono stati due i punti salienti del discorso del Papa; il tema della violenza rispetto alla religione e quello della contrapposizione fra un certo agnosticismo, che oggi sta prendendo sempre più piede, ed un ateismo assolutista e a tratti violento.
Il pontefice ha infatti affrontato il tema della violenza giustificata dalla religione: l'esempio più cronologicamente vicino a noi è quello del terrorismo, specie di matrice islamica, che in questi ultimi anni sta sconvolgendo i paesi arabi; ma il Papa non manca di sottolineare che anche il cristianesimo è stato in passato usato dagli uomini come pretesto per commettere atti violenti, e di questo, dice il Papa, ce ne vergognamo. Spesso il sorgere di contese e di guerre con il pretesto della religione ha dato adito all'idea che il problema fosse insito nelle religioni stesse; il Santo Padre ha fortemente respinto questa tesi. Egli ha sottolineato come le manifestazioni violente non siano frutto della religione in sè, ma è l'uomo a snaturarla per i propri fini. Di certo, però, i credenti hanno la grande responsabilità di far conososcere al mondo, con la propria vita, Dio, il cui nome è "Dio dell'amore e della pace", senza sottrarsi alle domande che vengono loro poste.
Sull'altro fronte, il Papa ha poi dedicato una parte del discorso ai non credenti, descrivendo la divisione fra un ateismo fomentato più che altro dall'odio anti-religioso, anch'esso causa di violenza, e un atteggiamento, invece, più costruttivo, adottato da uomini che, cercando continuamente il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso Dio.
Un'ultima riflessione sul discorso che è pubblicato di seguito; la scelta del Papa di partecipare alla giornata svoltasi ieri ad Assisi è stata oggetto di discussioni critiche, che mettevano in luce il rischio del sincretismo religioso. Purtroppo c'è da dire che questo rischio è tutt'altro che una fantasia: ad ascoltare i commenti giornalistici e le interviste compiute su emittenti televisive anche religiose (come TV2000), c'è da prendere atto che c'è ancora molta confusione. Molti, troppi, sono ancora i fedeli che pensano che "pace" e "dialogo" tra le religioni siano per forza l'unificazione in una religione unica, e che questa religione unica sia realizzabile soltanto con la rinuncia della propria identità cattolica; e la cosa è ancor più preoccupante quando viene da studiosi e talvolta ecclesiastici di chiara fama. Dal discorso di ieri del Papa, invece, è apparso evidente che l'ecumenismo ed il dialogo interreligioso non devono essere preceduti da uno "svuotamento" della propria identità e del proprio credo religioso; ma, pur ammettendo che anche i non credenti in Cristo possano essere capaci di mettersi alla ricerca del vero bene per l'uomo (vero bene che, gioco forza, non può che portare a Cristo e al Padre), il cristiano deve essere certo della sua Fede e ben ancorato alla Chiesa in Cristo Gesù.

Cari fratelli e sorelle,
distinti Capi e rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo,
cari amici,

sono passati venticinque anni da quando il beato Papa Giovanni Paolo II invitò per la prima volta rappresentanti delle religioni del mondo ad Assisi per una preghiera per la pace. Che cosa è avvenuto da allora? A che punto è oggi la causa della pace? Allora la grande minaccia per la pace nel mondo derivava dalla divisione del pianeta in due blocchi contrastanti tra loro. Il simbolo vistoso di questa divisione era il muro di Berlino che, passando in mezzo alla città, tracciava il confine tra due mondi. Nel 1989, tre anni dopo Assisi, il muro cadde – senza spargimento di sangue. All’improvviso, gli enormi arsenali, che stavano dietro al muro, non avevano più alcun significato. Avevano perso la loro capacità di terrorizzare. La volontà dei popoli di essere liberi era più forte degli arsenali della violenza. La questione delle cause di tale rovesciamento è complessa e non può trovare una risposta in semplici formule. Ma accanto ai fattori economici e politici, la causa più profonda di tale evento è di carattere spirituale: dietro il potere materiale non c’era più alcuna convinzione spirituale. La volontà di essere liberi fu alla fine più forte della paura di fronte alla violenza che non aveva più alcuna copertura spirituale. Siamo riconoscenti per questa vittoria della libertà, che fu soprattutto anche una vittoria della pace. E bisogna aggiungere che in questo contesto si trattava non solamente, e forse neppure primariamente, della libertà di credere, ma anche di essa. Per questo possiamo collegare tutto ciò in qualche modo anche con la preghiera per la pace.

Ma che cosa è avvenuto in seguito? Purtroppo non possiamo dire che da allora la situazione sia caratterizzata da libertà e pace. Anche se la minaccia della grande guerra non è in vista, tuttavia il mondo, purtroppo, è pieno di discordia. Non è soltanto il fatto che qua e là ripetutamente si combattono guerre – la violenza come tale è potenzialmente sempre presente e caratterizza la condizione del nostro mondo. La libertà è un grande bene. Ma il mondo della libertà si è rivelato in gran parte senza orientamento, e da non pochi la libertà viene fraintesa anche come libertà per la violenza. La discordia assume nuovi e spaventosi volti e la lotta per la pace deve stimolare in modo nuovo tutti noi.

Cerchiamo di identificare un po’ più da vicino i nuovi volti della violenza e della discordia. A grandi linee – a mio parere – si possono individuare due differenti tipologie di nuove forme di violenza che sono diametralmente opposte nella loro motivazione e manifestano poi nei particolari molte varianti. Anzitutto c’è il terrorismo, nel quale, al posto di una grande guerra, vi sono attacchi ben mirati che devono colpire in punti importanti l’avversario in modo distruttivo, senza alcun riguardo per le vite umane innocenti che con ciò vengono crudelmente uccise o ferite. Agli occhi dei responsabili, la grande causa del danneggiamento del nemico giustifica ogni forma di crudeltà. Viene messo fuori gioco tutto ciò che nel diritto internazionale era comunemente riconosciuto e sanzionato come limite alla violenza. Sappiamo che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione per la crudeltà spietata, che crede di poter accantonare le regole del diritto a motivo del "bene" perseguito. La religione qui non è a servizio della pace, ma della giustificazione della violenza.

La critica della religione, a partire dall’illuminismo, ha ripetutamente sostenuto che la religione fosse causa di violenza e con ciò ha fomentato l’ostilità contro le religioni. Che qui la religione motivi di fatto la violenza è cosa che, in quanto persone religiose, ci deve preoccupare profondamente. In un modo più sottile, ma sempre crudele, vediamo la religione come causa di violenza anche là dove la violenza viene esercitata da difensori di una religione contro gli altri. I rappresentanti delle religioni convenuti nel 1986 ad Assisi intendevano dire – e noi lo ripetiamo con forza e grande fermezza: questa non è la vera natura della religione. È invece il suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione. Contro ciò si obietta: ma da dove sapete quale sia la vera natura della religione? La vostra pretesa non deriva forse dal fatto che tra voi la forza della religione si è spenta? Ed altri obietteranno: ma esiste veramente una natura comune della religione, che si esprime in tutte le religioni ed è pertanto valida per tutte? Queste domande le dobbiamo affrontare se vogliamo contrastare in modo realistico e credibile il ricorso alla violenza per motivi religiosi. Qui si colloca un compito fondamentale del dialogo interreligioso – un compito che da questo incontro deve essere nuovamente sottolineato. Come cristiano, vorrei dire a questo punto: sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è "Dio dell’amore e della pace" (2 Cor 13,11). È compito di tutti coloro che portano una qualche responsabilità per la fede cristiana purificare continuamente la religione dei cristiani a partire dal suo centro interiore, affinché – nonostante la debolezza dell’uomo – sia veramente strumento della pace di Dio nel mondo.

Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione – come abbiamo detto – vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il "no" a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio.

Qui non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della "decadenza" dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso.

L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. In tale contesto ho rimandato alla necessità del dialogo, e parlato della purificazione, sempre necessaria, della religione vissuta. Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza.

Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: "Non esiste alcun Dio". Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono "pellegrini della verità, pellegrini della pace". Pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri. Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile. Per questo ho appositamente invitato rappresentanti di questo terzo gruppo al nostro incontro ad Assisi, che non raduna solamente rappresentanti di istituzioni religiose. Si tratta piuttosto del ritrovarsi insieme in questo essere in cammino verso la verità, dell’impegno deciso per la dignità dell’uomo e del farsi carico insieme della causa della pace contro ogni specie di violenza distruttrice del diritto. In conclusione, vorrei assicurarvi che la Chiesa cattolica non desisterà dalla lotta contro la violenza, dal suo impegno per la pace nel mondo. Siamo animati dal comune desiderio di essere "pellegrini della verità, pellegrini della pace". Vi ringrazio.


Fonte: vatican.va.

giovedì 27 ottobre 2011

Il Papa ad Assisi

Oggi si svolgerà ad Assisi la "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo", dal tema: Pellegrini della verità, pellegrini della pace, alla quale anche Papa Benedetto XVI parteciperà. Nell'attesa dell'evento ripropongo le parole dell'omelia del Santo Padre alla Liturgia della Parola di ieri.

Cari fratelli e sorelle,

oggi il consueto appuntamento dell’Udienza generale assume un carattere particolare, poiché siamo alla vigilia della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, che si terrà domani ad Assisi, a venticinque anni dal primo storico incontro convocato dal Beato Giovanni Paolo II. Ho voluto dare a questa giornata il titolo "Pellegrini della verità, pellegrini della pace", per significare l’impegno che vogliamo solennemente rinnovare, insieme con i membri di diverse religioni, e anche con uomini non credenti ma sinceramente in ricerca della verità, nella promozione del vero bene dell’umanità e nella costruzione della pace. Come ho già avuto modo di ricordare, "Chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere pace, chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio".

Come cristiani, siamo convinti che il contributo più prezioso che possiamo dare alla causa della pace è quello della preghiera. Per questo motivo ci ritroviamo oggi, come Chiesa di Roma, insieme ai pellegrini presenti nell’Urbe, nell’ascolto della Parola di Dio, per invocare con fede il dono della pace. Il Signore può illuminare la nostra mente e i nostri cuori e guidarci ad essere costruttori di giustizia e di riconciliazione nelle nostre realtà quotidiane e nel mondo.

Nel brano del profeta Zaccaria che abbiamo appena ascoltato è risuonato un annuncio pieno di speranza e di luce (cfr Zc 9,10). Dio promette la salvezza, invita ad "esultare grandemente" perché questa salvezza si sta per concretizzare. Si parla di un re: "Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso" (v. 9), ma quello che viene annunciato non è un re che si presenta con la potenza umana, la forza delle armi; non è un re che domina con il potere politico e militare; è un re mansueto, che regna con l’umiltà e la mitezza di fronte a Dio e agli uomini, un re diverso rispetto ai grandi sovrani del mondo: "cavalca un asino, un puledro figlio d’asina", dice il profeta (ibidem). Egli si manifesta cavalcando l’animale della gente comune, del povero, in contrasto con i carri da guerra degli eserciti dei potenti della terra. Anzi, è un re che farà sparire questi carri, spezzerà gli archi di battaglia, annuncerà la pace alle nazioni (cfr v. 10).

Ma chi è questo re di cui parla il profeta Zaccaria? Andiamo per un momento a Betlemme e riascoltiamo ciò che l’Angelo dice ai pastori che vegliavano di notte facendo guardia al proprio gregge. L’Angelo annuncia una gioia che sarà di tutto il popolo, legata ad un segno povero: un bambino avvolto in fasce, posto in una mangiatoia (cfr Lc 2,8-12). E la moltitudine celeste canta "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama" (v. 14), agli uomini di buona volontà. La nascita di quel bambino, che è Gesù, porta un annuncio di pace per tutto il mondo. Ma andiamo anche ai momenti finali della vita di Cristo, quando Egli entra in Gerusalemme accolto da una folla festante. L’annuncio del profeta Zaccaria dell’avvento di un re umile e mansueto tornò alla mente dei discepoli di Gesù in modo particolare dopo gli eventi della passione, morte e risurrezione, del Mistero pasquale, quando riandarono con gli occhi della fede a quel gioioso ingresso del Maestro nella Città Santa. Egli cavalca un asina, presa in prestito (cfr Mt 21,2-7): non è su di una ricca carrozza, non è a cavallo come i grandi. Non entra in Gerusalemme accompagnato da un potente esercito di carri e di cavalieri. Egli è un re povero, il re di coloro che sono i poveri di Dio. Nel testo greco appare il termine praeîs, che significa i mansueti, i miti; Gesù è il re degli anawim, di coloro che hanno il cuore libero dalla brama di potere e di ricchezza materiale, dalla volontà e dalla ricerca di dominio sull’altro. Gesù è il re di quanti hanno quella libertà interiore che rende capaci di superare l’avidità, l’egoismo che c’è nel mondo, e sanno che Dio solo è la loro ricchezza. Gesù è re povero tra i poveri, mite tra quelli che vogliono essere miti. In questo modo Egli è re di pace, grazie alla potenza di Dio, che è la potenza del bene, la potenza dell’amore. E’ un re che farà sparire i carri e i cavalli da battaglia, che spezzerà gli archi da guerra; un re che realizza la pace sulla Croce, congiungendo la terra e il cielo e gettando un ponte fraterno tra tutti gli uomini. La Croce è il nuovo arco di pace, segno e strumento di riconciliazione, di perdono, di comprensione, segno che l’amore è più forte di ogni violenza e di ogni oppressione, più forte della morte: il male si vince con il bene, con l’amore.

E’ questo il nuovo regno di pace in cui Cristo è il re; ed è un regno che si estende su tutta la terra. Il profeta Zaccaria annuncia che questo re mansueto, pacifico, dominerà "da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra" (Zc 9,10). Il regno che Cristo inaugura ha dimensioni universali. L’orizzonte di questo re povero, mite non è quello di un territorio, di uno Stato, ma sono i confini del mondo; al di là di ogni barriera di razza, di lingua, di cultura, Egli crea comunione, crea unità. E dove vediamo realizzarsi nell’oggi questo annuncio? Nella grande rete delle comunità eucaristiche che si estende su tutta la terra riemerge luminosa la profezia di Zaccaria. E’ un grande mosaico di comunità nelle quali si rende presente il sacrificio di amore di questo re mansueto e pacifico; è il grande mosaico che costituisce il "Regno di pace" di Gesù da mare a mare fino ai confini del mondo; è una moltitudine di "isole della pace", che irradiano pace. Dappertutto, in ogni realtà, in ogni cultura, dalle grandi città con i loro palazzi, fino ai piccoli villaggi con le umili dimore, dalle possenti cattedrali alle piccole cappelle, Egli viene, si rende presente; e nell’entrare in comunione con Lui anche gli uomini sono uniti tra di loro in un unico corpo, superando divisione, rivalità, rancori. Il Signore viene nell’Eucaristia per toglierci dal nostro individualismo, dai nostri particolarismi che escludono gli altri, per formare di noi un solo corpo, un solo regno di pace in un mondo diviso.

Ma come possiamo costruire questo regno di pace di cui Cristo è il re? Il comando che Egli lascia ai suoi Apostoli e, attraverso di loro, a tutti noi è: "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli… Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,19). Come Gesù, i messaggeri di pace del suo regno devono mettersi in cammino, devono rispondere al suo invito. Devono andare, ma non con la potenza della guerra o con la forza del potere. Nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù invia settantadue discepoli alla grande messe che è il mondo, invitandoli a pregare il Signore della messe perché non manchino mai operai nella sua messe (cfr Lc 10,1-3); ma non li invia con mezzi potenti, bensì "come agnelli in mezzo ai lupi" (v. 3), senza borsa, bisaccia, né sandali (cfr v. 4). San Giovanni Crisostomo, in una delle sue Omelie, commenta: "Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore" (Omelia 33, 1: PG 57, 389). I cristiani non devono mai cedere alla tentazione di diventare lupi tra i lupi; non è con il potere, con la forza, con la violenza che il regno di pace di Cristo si estende, ma con il dono di sé, con l’amore portato all’estremo, anche verso i nemici. Gesù non vince il mondo con la forza delle armi, ma con la forza della Croce, che è la vera garanzia della vittoria. E questo ha come conseguenza per chi vuole essere discepolo del Signore, suo inviato, l’essere pronto anche alla passione e al martirio, a perdere la propria vita per Lui, perché nel mondo trionfino il bene, l’amore, la pace. E’ questa la condizione per poter dire, entrando in ogni realtà: "Pace a questa casa" (Lc 10,5).

Davanti alla Basilica di San Pietro, si trovano due grandi statue dei santi Pietro e Paolo, facilmente identificabili: san Pietro tiene in mano le chiavi, san Paolo invece tiene nelle mani una spada. Per chi non conosce la storia di quest’ultimo potrebbe pensare che si tratti di un grande condottiero che ha guidato possenti eserciti e con la spada ha sottomesso popoli e nazioni, procurandosi fama e ricchezza con il sangue altrui. Invece è esattamente il contrario: la spada che tiene tra le mani è lo strumento con cui Paolo venne messo a morte, con cui subì il martirio e sparse il suo proprio sangue. La sua battaglia non fu quella della violenza, della guerra, ma quella del martirio per Cristo. La sua unica arma fu proprio l’annuncio di "Gesù Cristo e Cristo crocifisso" (1Cor 2,2). La sua predicazione non si basò "su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza" (v. 4). Dedicò la sua vita a portare il messaggio di riconciliazione e di pace del Vangelo, spendendo ogni sua energia per farlo risuonare fino ai confini della terra. E questa è stata la sua forza: non ha cercato una vita tranquilla, comoda, lontana dalle difficoltà, dalle contrarietà, ma si è consumato per il Vangelo, ha dato tutto se stesso senza riserve, e così è diventato il grande messaggero della pace e della riconciliazione di Cristo. La spada che san Paolo tiene nelle mani richiama anche la potenza della verità, che spesso può ferire, può far male; l’Apostolo è rimasto fedele fino in fondo a questa verità, l’ha servita, ha sofferto per essa, ha consegnato la sua vita per essa. Questa stessa logica vale anche per noi, se vogliamo essere portatori del regno di pace annunciato dal profeta Zaccaria e realizzato da Cristo: dobbiamo essere disposti a pagare di persona, a soffrire in prima persona l’incomprensione, il rifiuto, la persecuzione. Non è la spada del conquistatore che costruisce la pace, ma la spada del sofferente, di chi sa donare la propria vita.

Cari fratelli e sorelle, come cristiani vogliamo invocare da Dio il dono della pace, vogliamo pregarlo che ci renda strumenti della sua pace in un mondo ancora lacerato da odio, da divisioni, da egoismi, da guerre, vogliamo chiedergli che l’incontro di domani ad Assisi favorisca il dialogo tra persone di diversa appartenenza religiosa e porti un raggio di luce capace di illuminare la mente e il cuore di tutti gli uomini, perché il rancore ceda il posto al perdono, la divisione alla riconciliazione, l’odio all’amore, la violenza alla mitezza, e nel mondo regni la pace. Amen.


Fonte: vatican.va.

martedì 25 ottobre 2011

Quella Madonnina distrutta che sorrideva

Lo scorso 15 ottobre, come tutti abbiamo avuto modo di constatare a mezzo stampa ed internet, si è tenuto a Roma, come in molte altre città del mondo, il corteo degli indignati. Un movimento nato a causa della recente crisi economica, per far sentire la voce del popolo che non vuole pagare di tasca propria gli errori che vengono attribuiti ai propri governanti e al mondo della finanza; un movimento nato in Spagna per protestare contro un governo progressista e socialista, ma che paradossalmente è stato rivendicato proprio dai movimenti e dai partiti di matrice progressista, socialista e comunista. E così si è presentato anche in Italia, dove ha potuto alimentarsi della consueta carica di odio che nel nostro Paese è il tratto caratteristico di quello che dovrebbe essere il confronto politico.
Il risultato è ancora sotto gli occhi di tutti noi, specialmente dei romani: vetrine in frantumi, persone che uscendo per la strada trovano un relitto annerito al posto della propria automobile, cartelli stradali divelti e strade smontate per poter tirare i sanpietrini addosso ai poliziotti. Ed infine, ma non certamente per importanza, una chiesa con il Crocifisso martoriato e privata della statua della Santa Madre di Dio, distrutta da una furia quasi assassina. Quella Madonnina Immacolata, che certamente avrà accolto centinaia di anime in preghiera con un amorevole e materno sorriso, e che non ha smesso di sorridere quando, distrutta tra le bestemmie, veniva ammirata dai partecipanti al corteo, qualcuno indifferente, qualcuno imbarazzato, qualcuno incuriosito fino al punto di scattare una fotografia e forse, speriamo, qualcuno addolorato.

Quasi tutti i commentatori e i giornalisti si sono affrettatti a condannare le violenze di quel giorno, additando in questi famigerati black-bloc i responsabili di ogni male, come se i disordini e le violenze fossero sempre opera di extra-terrestri di cui si ignora la provenienza, di capri espiatori a cui addossare ogni colpa, con la quasi certezza che resteranno pressoché impuniti. Con una visione ostinatamente politically correct, si ha quasi paura di indagare più a fondo quelli che sono i legami tra manifestazioni di questo tipo e la presenza dei violenti; perché, è innegabile, i black-bloc non compaiono come funghi nelle giornate tranquille, quando le casalinghe sono occupate a fare la spesa e i ragazzini sono a scuola; essi vengono allo scoperto sempre e soltanto all'interno di manifestazioni che gli stessi organizzatori non rifiutano di etichettare come disobbedienti. E, malgrado il nome in inglese (sempre per far pensare che questi loschi personaggi provengano come da un'altra dimensione), sono entrati in azione solo in Italia: sia in questo mese come anche nel dicembre dello scorso anno. Quando poi costoro si manifestano, si assiste al solito acquazzone umano di gente che cade dalle nuvole: chi se lo sarebbe mai aspettato che in quella tale manifestazione vi sarebbero stati dei violenti? Chi si sarebbe mai aspettato che, in una manifestazione infarcita di odio anticapitalistico qualcuno si sarebbe messo in testa di spaccare le vetrine di qualche banca o di bruciare qualche SUV? Chi si sarebbe mai aspettato che qualcuno avrebbe fatto irruzione in una chiesa, avrebbe preso la statua della Beata Vergine tra le bestemmie, e l'avrebbe con violenza gettata a terra e calpestata? Diciamoci la verità: forse non avremmo creduto che qualcuno sarebbe arrivato a tanto, per un'idea del rispetto e della buona educazione che ancora molti di noi hanno, ma sicuramente, se ci avessero detto il giorno prima che qualcuno avrebbe profanato un luogo sacro, non avremmo certo pensato ad una moschea o ad una sinagoga, e nemmeno ad una chiesa valdese o luterana, ma ad una chiesa cattolica.

I fatti di Roma mettono in luce ancora una volta che, se è vero che la partecipazione a queste manifestazioni non vuol dire automaticamente che il partecipante sia violento, è vero anche che è l'ambiente nel quale queste manifestazioni nascono, intriso di ideologia relativista, di disobbedienza e di indignazionismo fine a se stesso, a creare il terreno fertile per la violenza. Lo dimostra il fatto (cito un articolo di Daniele Fazio apparso sul blog Associazione "Maria SS. dell'Elemosina") che il nome di Indignados trae origine da un testo francese dal combattente Stéphane Hessel, tradotto in Italia col titolo Indignatevi; in esso troviamo i "comandamenti" del buon indignado: attaccare i politici, gli industriali e la Chiesa, definendoli "caste", quindi sostituirli con altri uomini che si definiscono leali e generosi secondo gli ideali della rivoluzione francese (e che, guarda caso, allora come oggi, sono i leaders di questi movimenti), con l'illusione che per superare le crisi politiche ed economiche non sia necessario alcun sacrificio. Questi movimenti si basano su un substrato di rimostranze giuste, come ad esempio la richiesta di un mondo della politica e della finanza che siano più rispettosi del resto del mondo, ad esempio diminuendo i propri privilegi soprattutto in questi momenti critici; ma poi finiscono per sfruttare le grandi masse, facilmente allettate da questi argomenti accettabili, mettendo loro in bocca slogan anarchici, femministi, omosessualisti e, soprattutto, anti-cattolici. Il povero partecipante, che crede di stare ancora combattendo per una causa giusta, finisce per fare il ruolo dell'utile idiota, fornendo alla fin fine l'adeguata copertura a gesti di violenza inaudita come quelli di Roma. Ma Roma, e l'Italia, non sono le sole "pecore nere": un chiaro esempio del funzionamento di questo meccanismo lo abbiamo avuto proprio in Spagna, dove il movimento degli Indignados è nato e cresciuto. Prima il sit in davanti ai palazzi del potere, per far sentire la propria voce dinanzi ai governanti, e poi la trasformazione in quell'odioso movimento anticlericale, anch'esso di violenza inaudita, anche se non si è arrivati alle mani (o meglio agli estintori e ai sanpietrini), che si è espresso in tutto il suo odio contro i pellegrini della GMG.

Se ora proviamo a guardare alle nostre spalle, che cosa ha effettivamente cambiato la manifestazione del 15 ottobre? Oltre alla violenza che ha generato nel suo stesso alveo, ha offerto soluzioni efficaci alla crisi? Anche qui siamo onesti con noi stessi e tra di noi se riconosciamo che né le manifestazioni né gli ideali dei movimenti che le organizzano offrono una via d'uscita che non sia fatta solo di parole, anzi: finiscono per aggravare i già ingenti problemi degli stessi manifestanti. Proviamo allora a rivolgere, per l'ultima volta, lo sguardo a quella Madonnina distrutta, rimasta sull'asfalto di una città ferita; a quella statua che, pur irriconoscibile per la tanta violenza subita, non ha perso il sorriso, anche nei confronti del suo stesso profanatore, di coloro che erano d'accordo con lui e di quelli che, di fronte a quella scena, non se la sono sentita di abbandonare un corteo ormai degenerato. Essa identifica lo stesso amore della Madre di Dio che rappresenta, la quale ha dovuto sopportare le ben più atroci sofferenze che noi infliggiamo al suo Figlio sulla Croce, e che, malgrado ciò, ancora ci viene in soccorso. Ella ci offre la via d'uscita da tutte le nostre crisi e sofferenze: ci mostra che, con l'odio, nessuna situazione potrà mai essere risolta; ci invita a rimettere al centro la dignità della vita dell'uomo, dal suo inizio alla sua fine naturali, ci mostra il diritto naturale, firma di Dio sul gran disegno della Creazione, che si coniuga ai doveri dell'uomo e alla responsabilità di tutti. L'amore comporta sempre sacrificio; prendiamo esempio da Lei, la cui statua ha dovuto essere distrutta e deturpata dalle bestemmie, insieme a quella del suo Figlio, per farci fermare un attimo e guardare a quello che l'odio può trasformarci.

domenica 23 ottobre 2011

Giornata Missionaria Mondiale - Messaggio del Papa

«Come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi»
(Gv 20,21)

In occasione del Giubileo del 2000, il Venerabile Giovanni Paolo II, all’inizio di un nuovo millennio dell’era cristiana, ha ribadito con forza la necessità di rinnovare l’impegno di portare a tutti l’annuncio del Vangelo «con lo stesso slancio dei cristiani della prima ora» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 58). È il servizio più prezioso che la Chiesa può rendere all’umanità e ad ogni singola persona alla ricerca delle ragioni profonde per vivere in pienezza la propria esistenza. Perciò quello stesso invito risuona ogni anno nella celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale. L’incessante annuncio del Vangelo, infatti, vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione - e animati dallo slancio missionario: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2).

Andate e annunciate

Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19). La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo. Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus. Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada (Lc 24,33-34). Il Papa Giovanni Paolo II esortava ad essere “vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: “Abbiamo visto il Signore!”» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).

A tutti

Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes, 5).

Questo compito non ha perso la sua urgenza. Anzi, «la missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento … Uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 1). Non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo e non hanno ancora ascoltato il suo Messaggio di salvezza.

Non solo; ma si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede. È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal Messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali.

Corresponsabilità di tutti

La missione universale coinvolge tutti, tutto e sempre. Il Vangelo non è un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo dono-impegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati, i quali sono «stirpe eletta, … gente santa, popolo che Dio si è acquistato” (1Pt 2,9), perché proclami le sue opere meravigliose.

Ne sono coinvolte pure tutte le attività. L’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali: la dimensione missionaria della Chiesa è essenziale, e pertanto va tenuta sempre presente. E’ importante che sia i singoli battezzati e sia le comunità ecclesiali siano interessati non in modo sporadico e saltuario alla missione, ma in modo costante, come forma della vita cristiana. La stessa Giornata Missionaria non è un momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa.

Evangelizzazione globale

L’evangelizzazione è un processo complesso e comprende vari elementi. Tra questi, un’attenzione peculiare da parte dell’animazione missionaria è stata sempre data alla solidarietà. Questo è anche uno degli obiettivi della Giornata Missionaria Mondiale, che, attraverso le Pontificie Opere Missionarie, sollecita l’aiuto per lo svolgimento dei compiti di evangelizzazione nei territori di missione. Si tratta di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l'istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa. Annunciando il Vangelo, essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il Servo di Dio Paolo VI, che nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 31.34); non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale “percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità” (Mt 9,35).

Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti. In essa noi portiamo, seppure in vasi di creta, la nostra vocazione cristiana, il tesoro inestimabile del Vangelo, la testimonianza viva di Gesù morto e risorto, incontrato e creduto nella Chiesa.

La Giornata Missionaria ravvivi in ciascuno il desiderio e la gioia di “andare” incontro all’umanità portando a tutti Cristo. Nel suo nome vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, in particolare a quanti maggiormente faticano e soffrono per il Vangelo.

Dal Vaticano, 6 gennaio 2011, Solennità dell’Epifania del Signore

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Fonte: vatican.va.

giovedì 20 ottobre 2011

Francesco Marchesi diventa diacono

Sabato 22 ottobre alle ore 16:00 nella nostra Basilica Cattedrale di San Marco a Venezia riceverà l'ordinazione diaconale il seminarista Francesco Marchesi, che da ormai un anno presta servizio nella nostra parrocchia del Duomo. Insieme a lui verranno ordinati diaconi altri due seminaristi: Morris Pasian, della parrocchia di Jesolo centro, e Mauro Margagliotti, della parrocchia di Santa Barbara di Mestre. Ad ordinare i tre seminaristi sarà l'Amministratore apostolico del nostro patriarcato, S.E. mons. Beniamino Pizziol, vescovo di Vicenza. Si tratta di un momento molto importante per tutta la diocesi; i tre giovani, infatti, accedono al primo grado del sacerdozio ministeriale (il diaconato), e nei prossimi mesi si prepareranno a ricevere l'ordinazione sacerdotale. Ed è un momento particolarmente importante anche per la nostra parrocchia, non solo per il fatto che Francesco presta già servizio presso di noi, ma anche perché ha deciso di servire la sua prima Messa da diacono proprio nel nostro Duomo, nella giornata di domenica 23 ottobre, durante la quale proclamerà il Vangelo e ci proporrà per la prima volta una riflessione sulla Parola di Dio. Ringraziamo, quindi, il Signore per questo dono che fa a Francesco (che da sabato in poi dovremo abituarci a chiamare "don") e a tutta la nostra comunità parrocchiale; in particolare preghiamo per lui, e per gli altri seminaristi che con lui saranno ordinati. Questa sera alle 20:30, nella parrocchia di Jesolo centro, si terrà una veglia di preghiera per i fedeli del litorale; ma anche coloro che per diversi motivi non potranno parteciparvi sono invitati a rivolgere una preghiera al Signore per questi nostri fratelli che diventeranno diaconi. Un altro momento di preghiera è previsto per domani, venerdì 21, sempre alle ore 20:30 in Basilica della Salute, sede del Seminario patriarcale.

Infine ricordiamo ancora una volta che la solenne celebrazione eucaristica, durante la quale l'Amministratore apostolico mons. Pizziol ordinerà diaconi Francesco, Morris e Mauro, si terrà nella Basilica Cattedrale di San Marco, a Venezia, sabato 22 ottobre alle ore 16:00. Coloro che vogliono partecipare di persona possono aggregarsi al gruppo di parrocchiani che partirà dal patronato intorno alle ore 13:15 per Punta Sabbioni (con mezzi propri e con il pullmino della parrocchia). Oppure possono raggiungere autonomamente Venezia in treno; in questo caso facciamo presente che ci sono treni dalla stazione di San Donà di Piave per Venezia Santa Lucia alle ore 13:33, 14:01 o 14:12.

lunedì 17 ottobre 2011

Benedetto XVI indice l'Anno della Fede

Lettera Apostolica in forma di Motu proprio
Porta fidei
del Sommo Pontefice
Benedetto XVI
con la quale si indice
l’Anno della fede

1. La "porta della fede" (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre, e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù che, con il dono dello Spirito Santo, ha voluto coinvolgere nella sua stessa gloria quanti credono in Lui (cfr Gv 17,22). Professare la fede nella Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo – equivale a credere in un solo Dio che è Amore (cfr 1Gv 4,8): il Padre, che nella pienezza del tempo ha inviato suo Figlio per la nostra salvezza; Gesù Cristo, che nel mistero della sua morte e risurrezione ha redento il mondo; lo Spirito Santo, che conduce la Chiesa attraverso i secoli nell’attesa del ritorno glorioso del Signore.

2. Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nell’Omelia della santa Messa per l’inizio del pontificato dicevo: "La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza"1. Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato2. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone.

3. Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cfr Mt 5,13-16). Anche l’uomo di oggi può sentire di nuovo il bisogno di recarsi come la samaritana al pozzo per ascoltare Gesù, che invita a credere in Lui e ad attingere alla sua sorgente, zampillante di acqua viva (cfr Gv 4,14). Dobbiamo ritrovare il gusto di nutrirci della Parola di Dio, trasmessa dalla Chiesa in modo fedele, e del Pane della vita, offerti a sostegno di quanti sono suoi discepoli (cfr Gv 6,51). L’insegnamento di Gesù, infatti, risuona ancora ai nostri giorni con la stessa forza: "Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la via eterna" (Gv 6,27). L’interrogativo posto da quanti lo ascoltavano è lo stesso anche per noi oggi: "Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?" (Gv 6,28). Conosciamo la risposta di Gesù: "Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato" (Gv 6,29). Credere in Gesù Cristo, dunque, è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza.

4. Alla luce di tutto questo ho deciso di indire un Anno della fede. Esso avrà inizio l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il 24 novembre 2013. Nella data dell’11 ottobre 2012, ricorreranno anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, testo promulgato dal mio Predecessore, il Beato Papa Giovanni Paolo II3, allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede. Questo documento, autentico frutto del Concilio Vaticano II, fu auspicato dal Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985 come strumento al servizio della catechesi4 e venne realizzato mediante la collaborazione di tutto l’Episcopato della Chiesa cattolica. E proprio l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi è stata da me convocata, nel mese di ottobre del 2012, sul tema de La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Sarà quella un’occasione propizia per introdurre l’intera compagine ecclesiale ad un tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede. Non è la prima volta che la Chiesa è chiamata a celebrare un Anno della fede. Il mio venerato Predecessore il Servo di Dio Paolo VI ne indisse uno simile nel 1967, per fare memoria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo nel diciannovesimo centenario della loro testimonianza suprema. Lo pensò come un momento solenne perché in tutta la Chiesa vi fosse "un'autentica e sincera professione della medesima fede"; egli, inoltre, volle che questa venisse confermata in maniera "individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca"5. Pensava che in tal modo la Chiesa intera potesse riprendere "esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla"6. I grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’Anno, resero ancora più evidente la necessità di una simile celebrazione. Essa si concluse con la Professione di fede del Popolo di Dio7, per attestare quanto i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato.

5. Per alcuni aspetti, il mio venerato Predecessore vide questo Anno come una "conseguenza ed esigenza postconciliare"8, ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione. Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, secondo le parole del beato Giovanni Paolo II, "non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa … Sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre"9. Io pure intendo ribadire con forza quanto ebbi ad affermare a proposito del Concilio pochi mesi dopo la mia elezione a Successore di Pietro: "se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa"10.

6. Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato. Proprio il Concilio, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, affermava: "Mentre Cristo, «santo, innocente, senza macchia» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr 2Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce"11.

L’Anno della fede, in questa prospettiva, è un invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cfr At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo ad una nuova vita: "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una nuova vita" (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. La "fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,6) diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo (cfr Rm 12,2; Col 3,9-10; Ef 4,20-29; 2Cor 5,17).

7. "Caritas Christi urget nos" (2Cor 5,14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra (cfr Mt 28,19). Con il suo amore, Gesù Cristo attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del Vangelo, con un mandato che è sempre nuovo. Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Nella quotidiana riscoperta del suo amore attinge forza e vigore l’impegno missionario dei credenti che non può mai venire meno. La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre, infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano ad accogliere l’invito del Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli. I credenti, attesta sant’Agostino, "si fortificano credendo"12. Il santo Vescovo di Ippona aveva buone ragioni per esprimersi in questo modo. Come sappiamo, la sua vita fu una ricerca continua della bellezza della fede fino a quando il suo cuore non trovò riposo in Dio13. I suoi numerosi scritti, nei quali vengono spiegate l’importanza del credere e la verità della fede, permangono fino ai nostri giorni come un patrimonio di ricchezza ineguagliabile e consentono ancora a tante persone in ricerca di Dio di trovare il giusto percorso per accedere alla "porta della fede".

Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.

8. In questa felice ricorrenza, intendo invitare i Confratelli Vescovi di tutto l’orbe perché si uniscano al Successore di Pietro, nel tempo di grazia spirituale che il Signore ci offre, per fare memoria del dono prezioso della fede. Vorremmo celebrare questo Anno in maniera degna e feconda. Dovrà intensificarsi la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo. Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore Risorto nelle nostre Cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre. Le comunità religiose come quelle parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo.

9. Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza. Sarà un'occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia, che è "il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua energia"14. Nel contempo, auspichiamo che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità. Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata15, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno.

Non a caso, nei primi secoli i cristiani erano tenuti ad imparare a memoria il Credo. Questo serviva loro come preghiera quotidiana per non dimenticare l’impegno assunto con il Battesimo. Con parole dense di significato, lo ricorda sant’Agostino quando, in un’Omelia sulla redditio symboli, la consegna del Credo, dice: "Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore … Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore"16.

10. Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo permette di entrare all’interno di questa realtà quando scrive: "Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede" (Rm 10,10). Il cuore indica che il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo.

L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente in proposito. Racconta san Luca che Paolo, mentre si trovava a Filippi, andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne; tra esse vi era Lidia e il "Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo" (At 16,14). Il senso racchiuso nell’espressione è importante. San Luca insegna che la conoscenza dei contenuti da credere non è sufficiente se poi il cuore, autentico sacrario della persona, non è aperto dalla grazia che consente di avere occhi per guardare in profondità e comprendere che quanto è stato annunciato è la Parola di Dio.

Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo "stare con Lui" introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa.

La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: "«Io credo»; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo» è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. «Io credo»: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire «Io credo», «Noi crediamo»"17.

Come si può osservare, la conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore18.

D’altra parte, non possiamo dimenticare che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comunque in una sincera ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa ricerca è un autentico "preambolo" alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di "ciò che vale e permane sempre"19. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro20. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza.

11. Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabile. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, non a caso firmata nella ricorrenza del trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, il Beato Giovanni Paolo II scriveva: "Questo Catechismo apporterà un contributo molto importante a quell’opera di rinnovamento dell’intera vita ecclesiale… Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede"21.

E’ proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede.

Nella sua stessa struttura, il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa. Alla professione di fede, infatti, segue la spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, operante e continua a costruire la sua Chiesa. Senza la liturgia e i Sacramenti, la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Alla stessa stregua, l’insegnamento del Catechismo sulla vita morale acquista tutto il suo significato se posto in relazione con la fede, la liturgia e la preghiera.

12. In questo Anno, pertanto, il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la formazione dei cristiani, così determinante nel nostro contesto culturale. A tale scopo, ho invitato la Congregazione per la Dottrina della Fede, in accordo con i competenti Dicasteri della Santa Sede, a redigere una Nota, con cui offrire alla Chiesa ed ai credenti alcune indicazioni per vivere quest’Anno della fede nei modi più efficaci ed appropriati, al servizio del credere e dell’evangelizzare.

La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche. La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità22.

13. Sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato. Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro.

In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, "colui che dà origine alla fede e la porta a compimento" (Eb 12,2): in lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua Risurrezione. In lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza.

Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione (cfr Lc 1,38). Visitando Elisabetta innalzò il suo canto di lode all’Altissimo per le meraviglie che compiva in quanti si affidano a Lui (cfr Lc 1,46-55). Con gioia e trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio, mantenendo intatta la verginità (cfr Lc 2,6-7). Confidando in Giuseppe suo sposo, portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode (cfr Mt 2,13-15). Con la stessa fede seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con Lui fin sul Golgota (cfr Gv 19,25-27). Con fede Maria assaporò i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), lo trasmise ai Dodici riuniti con lei nel Cenacolo per ricevere lo Spirito Santo (cfr At 1,14; 2,1-4).

Per fede gli Apostoli lasciarono ogni cosa per seguire il Maestro (cfr Mc 10,28). Credettero alle parole con le quali annunciava il Regno di Dio presente e realizzato nella sua persona (cfr Lc 11,20). Vissero in comunione di vita con Gesù che li istruiva con il suo insegnamento, lasciando loro una nuova regola di vita con la quale sarebbero stati riconosciuti come suoi discepoli dopo la sua morte (cfr Gv 13,34-35). Per fede andarono nel mondo intero, seguendo il mandato di portare il Vangelo ad ogni creatura (cfr Mc 16,15) e, senza alcun timore, annunciarono a tutti la gioia della risurrezione di cui furono fedeli testimoni.

Per fede i discepoli formarono la prima comunità raccolta intorno all’insegnamento degli Apostoli, nella preghiera, nella celebrazione dell’Eucaristia, mettendo in comune quanto possedevano per sovvenire alle necessità dei fratelli (cfr At 2,42-47).

Per fede i martiri donarono la loro vita, per testimoniare la verità del Vangelo che li aveva trasformati e resi capaci di giungere fino al dono più grande dell’amore con il perdono dei propri persecutori.

Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione e un anno di grazia per tutti (cfr Lc 4,18-19).

Per fede, nel corso dei secoli, uomini e donne di tutte le età, il cui nome è scritto nel Libro della vita (cfr Ap 7,9; 13,8), hanno confessato la bellezza di seguire il Signore Gesù là dove venivano chiamati a dare testimonianza del loro essere cristiani: nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica, nell’esercizio dei carismi e ministeri ai quali furono chiamati.

Per fede viviamo anche noi: per il riconoscimento vivo del Signore Gesù, presente nella nostra esistenza e nella storia.

14. L’Anno della fede sarà anche un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità. Ricorda san Paolo: "Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!" (1Cor 13,13). Con parole ancora più forti - che da sempre impegnano i cristiani - l’apostolo Giacomo affermava: "A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»" (Gc 2,14-18).

La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino. Non pochi cristiani, infatti, dedicano la loro vita con amore a chi è solo, emarginato o escluso come a colui che è il primo verso cui andare e il più importante da sostenere, perché proprio in lui si riflette il volto stesso di Cristo. Grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto. "Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40): queste sue parole sono un monito da non dimenticare ed un invito perenne a ridonare quell’amore con cui Egli si prende cura di noi. E’ la fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta che si fa nostro prossimo nel cammino della vita. Sostenuti dalla fede, guardiamo con speranza al nostro impegno nel mondo, in attesa di "nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia" (2Pt 3,13; cfr Ap 21,1).

15. Giunto ormai al termine della sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di "cercare la fede" (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede. Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. Intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia, la fede impegna ognuno di noi a diventare segno vivo della presenza del Risorto nel mondo. Ciò di cui il mondo oggi ha particolarmente bisogno è la testimonianza credibile di quanti, illuminati nella mente e nel cuore dalla Parola del Signore, sono capaci di aprire il cuore e la mente di tanti al desiderio di Dio e della vita vera, quella che non ha fine.

"La Parola del Signore corra e sia glorificata" (2Ts 3,1): possa questo Anno della fede rendere sempre più saldo il rapporto con Cristo Signore, poiché solo in Lui vi è la certezza per guardare al futuro e la garanzia di un amore autentico e duraturo. Le parole dell’apostolo Pietro gettano un ultimo squarcio di luce sulla fede: "Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime" (1Pt 1,6-9). La vita dei cristiani conosce l’esperienza della gioia e quella della sofferenza. Quanti Santi hanno vissuto la solitudine! Quanti credenti, anche ai nostri giorni, sono provati dal silenzio di Dio mentre vorrebbero ascoltare la sua voce consolante! Le prove della vita, mentre consentono di comprendere il mistero della Croce e di partecipare alle sofferenze di Cristo (cfr Col 1,24), sono preludio alla gioia e alla speranza cui la fede conduce: "quando sono debole, è allora che sono forte" (2Cor 12,10). Noi crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno (cfr Lc 11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno della riconciliazione definitiva con il Padre.

Affidiamo alla Madre di Dio, proclamata "beata" perché "ha creduto" (Lc 1,45), questo tempo di grazia.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 ottobre dell’Anno 2011, settimo di Pontificato.

BENEDICTUS PP XVI

sabato 15 ottobre 2011

Tesori d'arte sacra: l'affresco della parete sinistra

In questo appuntamento mensile con i capolavori d'arte sacra del Duomo, continuiamo a scorrere lungo la navata sinistra, fino ad imbatterci nei meravigliosi resti di affresco riportati alla luce molto di recente, appena due anni fa. Infatti le pareti della Cattedrale versavano in condizioni molto critiche, annerite dagli agenti ambientali e a causa dell'umidita, importante durante alcuni periodi dell'anno, specialmente in riva al mare; inoltre a coprire l'affresco vi era il grande dipinto della Natività della Beata Vergine Maria, di cui parleremo certamente più avanti. Durante i lavori di restauro, quindi, staccati tutti i quadri dalla parete, grazie all'opera del restauratore Stefano Bagnariol sono dapprima emersi dai secoli la figura di un volto ed altri frammenti che lasciavano pensare al saio di un frate. Dopo alcuni mesi, al via libera della Sovrintendenza, cominciò il vero e proprio recupero dell'opera, terminato nel maggio dell'anno scorso. Una gran parte dell'affresco è stata perduta; dall'osservazione delle foto più vecchie che ritraggono la navata sinistra del Duomo, risulta infatti che, in corrispondenza della zona dell'affresco, fosse addossato uno dei sette altari laterali, eretti in varie epoche storiche ed abbattuti nel 1925 per finanziare i restauri dell'edificio. Quindi, come era uso nei tempi antichi, tale opera era probabilmente stata coperta con un'altra, tanto che nessuna delle fonti storiche in nostro possesso accennava minimamente alla sua presenza.
Il lavoro minuzioso del restauratore ha permesso di riportare alla luce, oltre ai frammenti tutt'ora visibili del lavoro definitivo, anche i resti del "cartone", ossia delle linee guida, che l'artista ha utilizzato prima di dipingere le figure complete. L'affresco si presenta come un trittico, la successione di tre figure di santi: la prima figura da sinistra, quella che certamente risulta essere la meglio conservata, rappresenta una santa con corona; regge con la mano destra un oggetto a forma tondeggiante, probabilmente una ruota od una macina. Grazie, poi, al cartone sottostante, possiamo evincere che nella mano sinistra reggesse una palma, simbolo iconografico che identifica i martiri. Tutti questi segni sembrano portare alla figura di Santa Caterina d'Alessandria, vissuta tra III e IV secolo in Egitto. Di nobile famiglia, fu data in sposa a Massimino Daia, governatore d'Egitto e Siria, che si proclamò in seguito "Augusto"; di qui, probabilmente, l'uso di dipingere Santa Caterina incoronata, proprio perché sposa di Massimino. Durante i festeggiamenti per il suo matrimonio, in occasione dei quali era previsto il sacrificio di vittime animali agli dei pagani, Caterina invitò il marito a riconoscere Gesù Cristo, rifiutandosi di sacrificare agli idoli. Massimino la condannerà a morte: prima la legò ad una terribile macchina, con due ruote dentate che dovevano dilaniare il corpo del condannato (da cui la rappresentazione della ruota come strumento del suo martirio); ma, uscitane miracolosamente illesa per l'intervento divino, fu decapitata. Santa Caterina era venerata insieme a Santa Margherita d'Antiochia, compatrona di Caorle; per cui è abbastanza plausibile che proprio nella nostra cattedrale vi fosse, almeno in antichità, un altare a lei dedicato.
La seconda figura è ugualmente ben conservata nella quasi totalità, fatta eccezione per il volto, del quale, tuttavia, si riesce a scorgere la folta barba bianca. All'angolo in alto a destra del capo, insieme all'aureola, si intuisce la presenza di un copricapo bianco, molto probabilmente una mitra vescovile, al quale fa da corredo l'altra insegna episcopale, ossia il bastone pastorale. Queste caratteristiche, un vescovo benedicente con la barba bianca, fanno propendere per la figura di San Nicola di Mira (o di Bari), vissuto tra l'anno 250 ed il 326, molto venerato nelle zone costiere, anche venete (si pensi ad esempio alla toponomastica, con San Nicolò del Lido), e del quale la cattedrale conservava (e conserva tutt'ora nel museo) una reliquia.
Infine la terza figura da sinistra è quella deteriorata maggiormente; a guardare i frammenti conservati non si riesce a capire di quale santo si tratti. Ma osservando attentamente il cartone sottostante rimasto, si riesce a vedere, al centro della figura, una mano (molto stilizzata) nell'atto di afferrare la veste, come per scostarla. Basta questo elemento per inferire l'identità di questa figura in San Rocco confessore, nato a Montpellier tra il 1345 ed il 1350 e morto a Voghera tra il 1376 ed il 1379. Egli infatti, contagiato dalla peste mentre curava i suoi amati malati, si ritirò in una grotta, per non essere di peso, mentre un cane randagio gli portava di tanto in tanto qualche tozzo di pane, cosa che gli permetteva di non morire di fame. Guarì miracolosamente, ed è quindi rappresentato nell'atto di mostrare la piaga che aveva sulla gamba.
Le tre figure si stagliano su uno sfondo blu-verde, molto intenso e caratteristico degli affreschi di scuola giottesca, come pure anche la cornice, di cui si scorge un frammento in alto a destra, formata da esagoni racchiusi in stelle a sei punte. Anche i lineamenti gentili del volto di santa Caterina, l'unico pervenuto fino ai nostri giorni, confermano l'affiliazione con quello stile molto diffuso a partire dal Trecento in Italia, anche in Veneto (si pensi alla cappella degli Scrovegni, con gli affreschi realizzati da Giotto, a Padova). Il restauratore ha individuato la probabile datazione dell'opera intorno alla fine del XIV secolo - inizio del XV secolo (fine 1300 inizio 1400); poiché la devozione a san Rocco si diffuse in tutto il nord Italia fin da immediatamente dopo la sua morte (e Caorle lo adottò come suo compatrono) possiamo, in base a questi dati, afferire che si tratti di una delle prime rappresentazioni di San Rocco almeno in Veneto, ma forse in tutto il mondo.
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