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venerdì 24 febbraio 2012

La Passione di Cristo - Il Cenacolo

Iniziamo, in questo primo venerdì di Quaresima, un percorso sulla Passione del Signore guidato dalle rivelazioni private della beata Anna Caterina Emmerich, religiosa tedesca vissuta a cavallo tra il '700 e l'800, per meditare sui dolori e sul sacrificio di Cristo in questo Tempo di Quaresima. La Dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù Cristo è un dettagliato resoconto delle visioni che ebbe dei momenti più dolorosi della vita del Signore sulla terra fino alla Risurrezione. Oggi cominciamo con l'Ultima Cena e l'Agonia di Gesù nel Getsemani.

Vidi un grande edificio in una zona alberata sul versante meridionale del monte Sion, non lontano dalle rovine del palazzo di Davide. Nel cortile spazioso di questa solida costruzione vidi altre case, tra le quali quella del maestro di mensa e un'altra dove si radunavano la santa Vergine e le pie donne dopo la morte di Gesù. L'edificio si trovava in pessime condizioni, quando divenne proprietà di due buoni membri del sinedrio, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea. Essi provvidero a ristrutturare la sala principale allestendola come cenacolo per i banchetti pasquali degli stranieri. In questo locale vi avevano abitato i prodi capitani di Davide. Nel cenacolo non ho visto finestre: la luce scende dai fori praticati nelle alte volte; dal soffitto pendono molte lucerne. Durante le feste le pareti vengono coperte fino a metà altezza da meravigliose stuoie e tappeti e un velo blu viene steso al di sopra di un'apertura nel tetto. Una tenda simile separa la sala principale dei banchetti dal vestibolo, al quale si accede da tre ingressi. Dietro la sala principale si trova un locale interno, ai cui lati vengono deposti gli arredi e gli oggetti del culto, e al centro c'è un focolare che serve per cuocere i pani azzimi e arrostire l'agnello pasquale, ma viene usato anche per bruciare gli incensi e gli avanzi del pasto. La divisione del cenacolo in tre parti — vestibolo, sala centrale e sala interna — è simile alla struttura del tempio: atrio, santuario e santo dei santi. I locali situati nell'altra ala dell'edificio servivano da deposito per le grandi pietre tombali ed edilizie e come officina degli scalpellini, poiché Giuseppe d'Arimatea possedeva al suo paese cave di pietre della miglior qualità; egli commerciava in lapidi, ornamenti architettonici e colonne, e tutto veniva lavorato sotto la sua guida. Nicodemo collaborava con Giuseppe nell'attività commerciale, inoltre si occupava di sculture e lavori d'intaglio. Eccetto i giorni di festa, lo si vedeva spesso in questa sala intento a scolpire disegni e ornamenti sulla pietra.

Preparativi dell'ultima cena
«Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a prepara re per mangiare la Pasqua» (Luca 22,8).(Il giovedì santo, prima dalla sua passione, il 13 Nisan, cioè 29 arzo, Gesù aveva 33 anni e diciotto settimane meno un giorno).

A Betania, dopo il pasto in casa di Simone il lebbroso, vidi Maria Maddalena che ungeva il capo di Gesù. Questa scena scandalizzò Giuda a tal punto che corse a Gerusalemme per consegnare il Signore nelle mani dei sacerdoti del tempio. In quella stessa giornata, poco prima dell'aurora, nostro Signore ordinò ai due più fedeli apostoli, Simon Pietro e Giovanni, di recarsi a Gerusalemme onde provvedere al banchetto pasquale nel cenacolo. Gesù disse loro che avrebbero incontrato sul monte Sion un uomo che portava una brocca d'acqua, nella cui casa l'anno precedente avevano già consumato l'agnello pasquale. Essi avrebbero dovuto seguirlo fino a questa casa e dirgli le seguenti parole: «Il Maestro ti manda a dire che il suo tempo si avvicina e desidera consumare il pasto di Pasqua da te». A quelle parole costui avrebbe provveduto a tutto. I due apostoli si recarono a Gerusalemme e salirono a Sion. Essi presero un sentiero alberato che fiancheggiava un profondo ruscello. Giunti in cima al monte, presso il cortile del cenacolo, incontrarono l'uomo descritto da Gesù. Nell'apprendere il messaggio del Maestro, costui disse subito che Nicodemo aveva preparato un banchetto, ma egli non sapeva per chi fosse, adesso se ne rallegrava. L'uomo si chiamava Heli, era cognato di Zaccaria di Ebron, lo stesso che aveva comunicato a Gesù la dolorosa morte di Giovanni Battista. Dopo che Pietro e Giovanni ebbero visitato il cenacolo, presero gli ultimi accordi con Heli e si accomiatarono da lui. I due apostoli attraversarono un ponte e discesero per un sentiero coperto da cespugli, alla fine del quale si trovava l'abitazione del vecchio Simeone, il sacerdote morto dopo la presentazione del Signore al tempio. Adesso la sua casa era abitata dai suoi figli, alcuni dei quali erano segretamente discepoli di Gesù. Qui gli apostoli s'intrattennero con uno di loro che lavorava nel tempio. I tre s'incamminarono insieme verso il mercato del bestiame, situato a nord del tempio. Sul lato meridionale del mercato vidi dei prati recintati nei quali saltellavano dei graziosi agnellini. Dopo averli scelti, il figlio di Simeone entrò nel recinto e ne prese quattro; gli animali si erano strofinati contro di lui come se lo conoscessero assai bene. Tre agnelli furono portati al tempio e uno al cenacolo. Vidi Pietro e Giovanni mentre facevano acquisti e altre commissioni in città. Passarono per la casa di Serafia dalla quale ricevettero degli utensili in ceste coperte e un antico calice chiuso in una borsa. Esso sarebbe servito al Signore per l'istituzione dell'Eucaristia. Da diversi anni Serafia intratteneva ottime relazioni con la beata Vergine e la santa famiglia.

Gesù si reca a Gerusalemme

Giuda Iscariota preparò con i farisei il piano per la cattura di Gesù; a Gerusalemme conobbe perfino le guardie della spedizione e ogni minimo dettaglio. Il traditore era posseduto interamente dalle sue passioni, in modo particolare dall'invidia, dalla cupidigia e dall'ambizione, nonostante avesse operato guarigioni e miracoli nel nome del Signore. Intanto a Betania Gesù diede l'addio alla Madre. Egli parlò con la santa Vergine, informandola che aveva inviato Simon Pietro, l'apostolo della fede, e Giovanni, l'apostolo dell'amore, a preparare la Pasqua. Di Maria Maddalena disse: «Lei soffre molto per il suo amore indicibile, talvolta esce fuori di sé perché il dolore è ancora carnale». Quando Gesù annunziò alla Madre santissima il compimento della sua missione terrena e i prossimi avvenimenti, ella lo pregò teneramente di farla morire con lui. Dopo aver la ascoltata attentamente, il Redentore la esortò a restare calma nel suo dolore e le preannunciò che sarebbe risorto e poi apparso a lei e agli apostoli. Le precisò perfino il luogo dove le sarebbe apparso. La santa Madre non pianse più, ma era molto triste e si raccolse nella sua desolazione. Gesù la strinse al cuore con tenerezza e le promise di celebrare spiritualmente con lei la Pasqua e il santo Sacramento. Il Redentore accennò anche al prossimo tradimento di Giuda. La Vergine Maria pregò compassionevolmente per il miserabile. Il Signore si congedò amorosamente da tutti, dando gli ultimi insegnamenti. Verso mezzogiorno Gesù si recò a Gerusalemme con nove apostoli e sette discepoli; all'infuori di Natanaele e Sila, erano tutti di Gerusalemme e dintorni. Durante il cammino, con un'espressione pietosa sul viso, il Redentore parlò agli apostoli e disse che finora aveva dato loro il pane e il vino, ma da quel giorno in poi avrebbe dato anche la sua carne, il suo sangue e tutto quello che aveva. Purtroppo i discepoli e gli apostoli, non essendo in grado di comprendere l'alto valore spirituale di questo insegnamento, credettero che egli parlasse dell'agnello pasquale. Giunti presso un bivio, i discepoli si separarono dagli apostoli giungendo prima al cenacolo, dove, nell'atrio, lasciarono dei fardelli con le vesti cerimoniali di Pasqua; poi si recarono a casa di Maria, madre di Marco. Pietro e Giovanni s'incontrarono con Gesù e gli apostoli nella valle di Giosafat. Le pie donne furono le ultime a raggiungere il cenacolo.

L'ultima cena
«Venuta la sera, si mise a tavola insieme ai dodici apostoli» (Matteo 26,20).

Nel cenacolo, dopo aver indossato gli abiti rituali, Gesù e i suoi commensali si prepararono a consumare l'agnello pasquale. Tre agnelli furono sacrificati e macellati nel tempio, secondo l'uso ebraico; un quarto fu immolato e macellato nel vestibolo del cenacolo: era quello destinato alla tavola di Gesù e dei suoi apostoli. L'uccisione di quest'agnello suscitò un'immane commozione. Il Signore fece presente che stava per aprirsi una nuova epoca e che il sacrificio di Mosè e dell'agnello pasquale stavano per trovare compimento. Disse inoltre che l'agnello era stato immolato come fu un tempo in Egitto, «paese dal quale egli stava per condurli fuori». Il sangue dell'agnello fu raccolto in una bacinella, in cui Gesù immerse un ramo d'issopo e tinse la serratura e i due stipiti della porta del cenacolo, infine fissò al di sopra di essa il ramoscello bagnato di sangue. A questo punto gli apostoli e i discepoli intonarono un salmo: «Beati coloro la cui via è immacolata, che camminano nella legge di Dio. Beati quelli che osservano i suoi precetti e lo cercano di tutto il cuore; che non commettono iniquità, ma camminano nelle sue vie... ». Il Signore dichiarò che l'angelo sterminatore non sarebbe entrato là e che lui stesso era il vero Agnello pasquale. Aggiunse che stava per compiersi un nuovo sacrificio e che iniziava una nuova epoca, la quale sarebbe durata sino alla fine del mondo. Così dicendo, Gesù, seguito dagli apostoli, versò il sangue dell'agnello sul focolare, consacrandolo come altare, indi l'intero cenacolo fu consacrato quale nuovo tempio. Subito dopo gli apostoli e i discepoli si divisero in tre gruppi, ciascuno formato da dodici persone più un capo tavola avente funzioni di capofamiglia. Gesù prese posto con i dodici apostoli nella sala centrale del cenacolo. Nelle due sale laterali, divise da portici, si disposero rispettivamente i due gruppi di discepoli: uno con Natanaele a capotavola e l'altro con Eliachimo, figlio di Cleofa e di Maria Heli. Quest'ultimo era stato discepolo di Giovanni Battista. Dopo la preghiera, il maestro della mensa pose dinanzi al Redentore il coltello d'osso per tagliare l'agnello pasquale. L'animale, preparato dal figlio di Simeone, era stato infilzato in uno spiedo; le zampe anteriori erano state legate a un pezzo di legno posto trasversalmente e quelle posteriori erano distese lungo lo spiedo. L'agnello, così servito, mi ricordò nostro Signore sulla croce! Ogni commensale ne ebbe una parte su un pezzo di focaccia. Staccarono la carne servendosi di un coltello d'osso; più tardi le ossa dell'agnello furono bruciate. Il Signore fece a pezzi un altro agnello, che fu servito a Maria santissima e alle pie donne riunite in un'altra sala; la santa Vergine infondeva serenità a tutte. La tavola principale era a semicerchio: alla destra di Gesù erano seduti Giovanni, Giacomo il Minore e Giacomo il Maggiore, all'estremità del tavolo c'era Bartolomeo e, dall'altra parte, Tommaso e Giuda Iscariota. Alla sinistra del Signore si trovavano Pietro, Andrea e Taddeo, dall'altro lato Simeone, Matteo e Filippo. Giuda era appena arrivato, non aveva assistito alla cerimonia di consacrazione perché si era attardato a complottare con i farisei. Il Salvatore spezzò un pane azzimo e lo distribuì, tenendone per sé una parte, quindi benedisse per la seconda volta il vino e disse: «prendete e bevete il frutto della vite, poiché io non ne berrò più finché non sarà venuto il regno di Dio». Durante il pasto Gesù parlò con lieta tenerezza, ma ad un tratto si oscurò in volto, la sua voce si fece grave e, rivolto agli apostoli, disse: «Uno di voi sta per tradirmi. Costui è oggi a mensa con me!». Gli apostoli furono sconvolti e a turno domandarono a Gesù: «Signore, sono forse io?». Guardando Giuda mentre inzuppava il pane nel piatto, come facevano gli altri apostoli, il Signore soggiunse: «Ora, come è stato scritto, il Figlio dell'uomo sta per andarsene, ma guai all'uomo che lo tradirà! Sarebbe meglio per lui se non fosse mai nato!». Pietro e Giovanni gli chiesero preoccupati: «Chi è costui?». Giovanni, che sedeva alla destra di Gesù, appoggiò spontaneamente il capo sul petto del Signore e ne udì la voce dentro di sé: «Quello a cui porgerò questo boccone di pane intinto». Subito dopo Gesù intinse il pane nella lattuga e lo porse a Giuda con grande amore Giovanni rassicurò Pietro con uno sguardo. Giuda era completamente posseduto da un demonio; per tutto il tempo della cena vidi un piccolo mostro giacere ai suoi piedi, talvolta gli si allungava fino al suo cuore.

La lavanda dei piedi
«Se dunque vi ho lavato i piedi io, Signore e Maestro, dovete anche voi lavarvi i piedi l'un l'altro» (Giovanni 13,14).

Consumato l'agnello pasquale, essi recitarono la preghiera solenne. Subito dopo, il maestro della mensa con due servi sparecchiarono la tavola; Gesù li pregò di portare dell'acqua nel vestibolo. Rimasto solo con gli apostoli, il Signore riprese a istruirli amorevolmente, parlò del suo regno, del suo ritorno al Padre e disse che lasciava a loro tutto quanto aveva. Poi parlò della penitenza, dell'esame di coscienza e della confessione dei peccati, del dolore e della purificazione. Compresi che questo insegnamento aveva qualche relazione con la lavanda dei piedi. Vidi che tutti si erano profondamente pentiti dei loro peccati, tranne Giuda. Quando ebbe finito di parlare, il Signore inviò Giovanni e Giacomo il Minore a prendere i catini d'acqua che i servitori avevano deposto nel vestibolo. Allorché i due apostoli gli portarono i catini, Gesù si cinse alla vita un asciugatoio e comandò agli apostoli che si ponessero a sedere in modo che egli potesse lavare loro i piedi. Obbedienti, essi sedettero, dopo aver disposto le sedie a semicerchio secondo l'ordine in cui erano seduti a tavola. Mentre Gesù si cingeva con l'asciugatoio, gli apostoli si chiedevano quale fra loro sarebbe stato il più grande, per ché il Maestro era prossimo a lasciarli. Gesù li riprese, dicendo che egli stesso era il loro servo e nessuno era più grande di un altro; poi li esortò a restare tranquilli. Durante la lavanda dei piedi il cuore del Signore traboccava di amore e di carità verso i suoi apostoli. Quando giunse a Pietro, questi sobbalzò esclamando: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se io non te li lavo, non sarai di me partecipe; più tardi capirai meglio quello che sto facendo!». Sottovoce, mi sembrò che gli dicesse: «Simone, tu hai meritato che il mio Padre celeste ti rivelasse chi veramente io sono e dove vado, tu solo lo hai professato e dichiarato; perciò io voglio edificare la mia Chiesa su di te e le porte dell'inferno non prevarranno mai su di essa. La mia forza resterà nei tuoi successori fino al la fine dei tempi». Allora il Signore lo indicò agli apostoli come suo successore quando lui non ci sarebbe più stato. A questo punto Pietro replicò: «Signore, lavami i piedi, non solo, ma le mani e il capo». Gesù aveva parlato della lavanda dei piedi quale purificazione dai peccati quotidiani, perché i piedi sono a contatto continuo con la terra e soggetti a sporcarsi, se si cammina senza fare attenzione. Questo gesto del Signore, come tutti gli altri, aveva un profondo significato spirituale e valeva come assoluzione generale dei peccati. Ma Pietro vide nell'azione del Maestro un'umiliazione troppo grande; egli ignorava che entro breve Gesù si sarebbe umiliato perfino alla morte in croce. Lavando i piedi a Simon Pietro, il Signore disse: «Chi ha fatto il bagno, è già del tutto puro, e ha bisogno solo di lavarsi i piedi. Voi siete puri, ma non tutti!». Pronunciate queste parole, il Redentore passò a lavare i piedi a Giuda. Oltremodo commosso, Gesù fece l'ultimo tentativo di salvarlo: abbassando il suo volto sui piedi dell'Iscariota, gli sussurrò di riflettere bene che cosa stesse per fare, perché già da un anno concepiva il tradimento. Giuda fingeva di non sentire e continuava a discutere con Giovanni; Pietro ne fu scandalizzato e lo richiamò: «Giuda, il Maestro ti parla! ». E l'iscariota rispose evasivo: «Signore, lungi da me ciò che pensi!». Gli altri non avevano udito le parole di Gesù, perché aveva parlato sottovoce. Il tradimento di Giuda fu il motivo del dolore più grande provato dal Signore nella sua passione. Quando il Salvatore lavò i piedi a Giovanni e a Giacomo parlò dell'umiltà, disse che chi è servo di tutti è il grande, e che essi dovevano seguire il suo esempio e lavarsi i piedi reciprocamente.

Istituzione dell'Eucaristia. Un antico rito d'accoglienza
«Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Giovanni 6,51).

Dopo la lavanda dei piedi, il maestro di mensa, eseguendo l'ordine del Signore, coprì la tavola con un panno su cui distese una tovaglia rossa, sopra ne mise una bianca traforata e quindi vi posò due anfore, una colma d'acqua e l'altra di vino. Pietro e Giovanni presero la borsa contenente il calice di Serafia e la posero sulla tavola davanti a Gesù. Quasi mi sembrò che avessero trasportato un tabernacolo. Sulla tavola vidi anche un piatto ovale con tre pani azzimi, bianchi e sottili, striati a righe regolari. Leggermente incisi da Gesù, essi erano stati coperti e posti accanto al resto del pane del banchetto pasquale. Vidi anche due vasetti, uno d'acqua e l'altro di vino, e tre piccoli contenitori, uno vuoto, uno contenente olio grasso e l'altro olio liquido. Compresi che Gesù stava per istituire il santo sacramento dell'Eucaristia, prendendo spunto da un antico rito simbolico di amore fraterno. Più tardi, fra i numerosi capi d'accusa, il Signore fu imputato dinanzi a Caifa di eresia per aver introdotto un nuovo rituale nelle celebrazioni pasquali. Ma Nicodemo, con le Scritture alla mano, provò che dividere il pane e bere allo stesso calice faceva parte di un'antica cerimonia d'accoglienza. Era un segno d'amore e di massimo riguardo verso gli ospiti; infatti la cerimonia, in uso nella tradizione giudaica, aveva luogo all'arrivo e alla partenza di questi ultimi. Il posto del Signore a tavola era fra Giovanni e Pietro. Le porte erano state ben chiuse e l'atmosfera si fece intima e solenne; allora Gesù disse agli apostoli: «Ho ardentemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi prima di soffrire...». Tolto il velo dal calice, il Signore pregò e parlò solennemente, spiegando il significato e lo svolgimento della celebrazione. Poi benedisse il pane e gli oli ed elevò al cielo la patena con i pani azzimi, quale sublime offerta al Padre celeste. Deposta la patena sull'altare, la ricoprì e prese il calice, nel quale Pietro versò il vino e Giovanni l'acqua, indi Gesù lo benedisse aggiungendovi dell'acqua con il cucchiaino. Con indicibile amore, donando tutto se stesso, il Signore pregò e sollevò il calice per istituire il santissimo Sacramento. Subito dopo, deposto il calice sull'altare, Gesù spezzò il pane che aveva segnato, pregò e mise i pezzettini sulla patena, lasciandone cadere uno nel calice. Nello stesso istante vidi la santa Vergine che riceveva spiritualmente il Sacramento. Il Signore mi apparve trasfigurato, pregò e parlò di nuovo. Mi parve che ogni parola da lui pronunciata penetrasse come un fuoco spirituale nel cuore degli apostoli. Li vidi tutti estasiati nell'udire le parole del suo insegnamento, eccetto l'Iscariota. Gesù prese la patena con i frammenti del pane e pronunziò le parole della consacrazione: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo che dono a voi». Quando mise il pane sulla lingua degli apostoli, che si avvicinavano a due a due, vidi il volto di Giuda oscurarsi. Egli era stato il terzo a prendere il corpo di Cristo. Il Signore, posandogli il bocconcino sulla lingua, gli aveva sussurrato: «Fai presto ciò che vuoi fare! ». Ogni cosa era circonfusa di luce, il pane scese nella bocca degli apostoli come un bocconcino luminoso, riempiendoli di gioia. Solo Giuda restava nella sala come un'ombra oscura e torbida. Mentre Gesù proferiva le parole della consacrazione e Giovanni versava il sangue divino nelle sei coppe, una per ogni coppia di apostoli, il traditore uscì dal cenacolo e corse via. Vidi tre demoni che lo guidavano.

Nell'orto degli Ulivi. L'angoscia mortale di Gesù
«Cristo Gesù, pur possedendo la natura divina, non pensò valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso pren dendo la natura di schiavo e divenendo simile agli uomini; ap parso in forma umana, umiljò se stesso, facendosi obbediente fi no alla morte, e alla morte in croce...» (Filippesi 2,6-8).

Dopo l'istituzione del santissimo Sacramento, in cui Gesù aveva offerto se stesso immolato misticamente, il Signore e gli apostoli intonarono un canto di ringraziamento e lasciarono il cenacolo. Nel vestibolo incontrarono Maria, la Madre di Gesù, con Maria figlia di Cleofa e Maria Maddalena. Le pie donne esortarono il Signore a non recarsi nell'orto degli Ulivi perché correva voce sulla sua cattura. Ma Gesù le confortò e lasciò il cenacolo, dirigendosi verso il monte degli Ulivi. Compresi che la sua anima era profondamente turbata. Attraversando la valle di Giosafat, Gesù parlò agli apostoli metaforicamente, ma essi non capirono e attribuirono alla stanchezza quel modo strano di esprimersi. Quando giunsero al monte degli Ulivi era già notte. La luna, benché non fosse ancora piena, illuminava tutta la montagna e rifletteva la sua luce sul volto di Gesù e degli apostoli. Con aria afflitta il Signore disse: «Questa notte sarete indignati con me e vi disperderete, poi ché è scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore si disperderanno”... Ma quando sarò risuscitato vi precederò in Galilea». Gli apostoli, che da quando avevano ricevuto il santo Sacramento vivevano la pace dello spirito, si strinsero affettuosamente attorno a lui e lo rassicurarono della propria fedeltà. Pietro intervenne più di tutti gli altri: «Se anche tutti si scandalizzassero, io non ti lascerò mai,Signore!». Con il volto afflitto Gesu gli predisse: «In verità, in verità ti dico che questa notte stessa, prima ancora che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Ma Pietro non si diede per vinto e replicò: «Dovessi morire con te, Signore, non ti rinnegherò mai!'». Così ribadirono pure tutti gli altri. Attraversarono un ponte sul torrente Cedron e si fermarono nel giardino del Getsemani. Era questo un luogo adatto alla meditazione e alla preghiera; qualche volta veniva anche utilizzato dalle persone prive di un proprio giardino per organizzarvi feste e banchetti. Il Getsemani è ampio, circondato da una siepe, pieno di alberi e di fiori. Vidi anche alcune capanne di frasche. Gli apostoli avevano la chiave del giardino. Nelle notti precedenti Gesù vi si era ritirato con i suoi apostoli per istruirli circa la scienza divina; quella notte, però, scelse di pregare solo nell'orto degli Ulivi, che è lì vicino, cinto da un muro. Il Signore lasciò otto apostoli all'ingresso del Getsemani e portò con sé soltanto i prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Giunto nell'angolo più incolto dell'orto interno, in cui si trovano piccole grotte e molti ulivi, Gesù divenne molto triste perché sentì vicina la sua ora. L'angoscia di quel momento si rispecchiava chiaramente sul suo volto. Allora Giovanni gli domandò perplesso: «Signore, come mai sei così triste, tu che ci hai sempre dato conforto e coraggio e ci hai consolato nei tempi peggiori?». Egli gli rispose: «La mia anima è triste fino a morire!». Guardandosi intorno vide avanzarsi nubi cariche d'immagini orrende: erano le tentazioni della vicina prova. La sua passione spirituale stava per avere inizio. Prima di ritirarsi nella solitudine orante, Gesù disse ai tre: «Mentre io vado a pregare nel luogo che ho scelto, restate qui e vegliate: pregate per non cadere nella tentazione. Ricordate che lo spirito è pronto, ma la carne è debole!». Così dicendo, nella sua sconfinata angoscia interiore, Gesù scese per un piccolo sentiero ed entrò in una grotta profonda sei piedi. Vidi spaventose figure affollare minacciose la stretta caverna dove il Signore si era ritirato a pregare. Fu qui, ai piedi del monte degli Ulivi, che Adamo ed Eva piansero disperati il loro peccato. Vidi i nostri progenitori nello stesso luogo in cui Gesù depose la sua divinità nelle mani della santissima Trinità, affidando la sua innocente umanità alla giustizia di Dio. Con questo sublime atto di carità il Redentore si donava interamente al Padre quale vittima riparatrice dei nostri peccati. Tutte le colpe del mondo, commesse dall'uomo fin dal la sua prima caduta, gli apparvero a miriadi nella loro completa mostruosità. Nella sua sconfinata angoscia, Gesù supplicò il Padre celeste di perdonare i pensieri malvagi e le offese degli uomini, offrendogli in cambio la sua suprema espiazione. La grotta si era affollata di forme spaventose, immagini delle passioni, dei vizi e delle malvagità del genere umano. Vidi il Redentore abbandonarsi alla sua natura umana e prendere sopra di sé le nefandezze del mondo. Era sudato, stremato e angosciato di fronte agli innumerevoli peccati che Satana continuava a mostrargli come sue conquiste, mentre gli diceva: «Come?!... Anche questo vuoi prendere sopra di te e sopportarne la pena?». La sua umanità stava già per soccombere sotto l'enorme peso dei nostri peccati, quando un solco di luce chiarissima scese dal cielo, da oriente. Erano le schiere angeliche del paradiso inviate dal Padre celeste per infondere rinnovato vigore al suo Figlio divino. Gesù era al limite del le sofferenze spirituali, il peso delle colpe umane continuava a gravare immensamente su di lui e a causargli dolori atroci, mentre gli spiriti malvagi lo deridevano e i demoni gli facevano sentire la loro orribile voce. Infine, nonostante le spaventose visioni, rincuorato dagli angeli, Gesù misericordioso seppe accogliere tutto su di sé. Egli amò immensamente Dio e anche gli uomini, vittime delle loro stesse passioni. Il demonio ignorava che Gesù fosse il Figlio di Dio; credendolo soltanto un uomo giusto, lo tentò in tutti i modi come già aveva fatto nel deserto. Satana lasciò scorrere dinanzi alla santa anima del Signore le sue opere di carità facendole apparire come colpe contro il mondo e contro Dio. Tentò di dimostrargli che esse non sarebbero valse a nulla e non erano state adatte a soddisfare la giustizia divina, anzi erano state causa di scandalo e di rovina per molti. Come un arguto fariseo, Satana gli rimproverò le mancanze e gli scandali che avevano suscitato i suoi apostoli e i discepoli, i disordini che essi avevano provocato abolendo le antiche usanze e, tra l'altro, incolpò Gesù di aver causato la strage degli innocenti e una vita di tribolazioni ai suoi genitori. Inoltre l'accusò di essersi rifiutato di operare diverse guarigioni e di non aver salvato Giovanni Battista, e così continuò a lungo. Gesù era rimasto perseverante nell'orazione, pur continuando a sudare con tremiti convulsi. Egli aveva lasciato prevalere la sua infinita misericordia permettendo al demonio di fargli soffrire le pene dei comuni mortali, in particolare dei giusti, i quali in punto di morte dubitano per fino delle loro sante opere. Atterrito dall'immensa ingratitudine degli uomini verso Dio, il Signore sentì piagare la sua anima e cadde in un violento dolore; allora si alzò e rivolse la sua pena al Padre: «Abbà, Padre mio, se puoi, allontana da me quest'amaro calice!». Ma subito soggiunse: «Sia fatta, però, non la mia, ma la tua volontà!». Sebbene la sua volontà e quella del Padre fossero strettamente congiunte, la natura umana di Gesù tremava di fronte alla morte. Lo vidi sfigurato in volto e le sue labbra erano livide. Barcollando, uscì dalla grotta e si diresse verso i tre apostoli che aveva lasciato fuori. Vedendoli addormentati, il Signore, estenuato e sopraffatto dalla tristezza, incespicò e cadde vicino a loro. Ancora circondato dalle tremende visioni, rialzandosi lentamente, Gesù disse: «Perché dormite? Non potete vegliare nemmeno un'ora? ». I tre, che frattanto si erano svegliati e si erano levati in fretta, vedendo il Signore trafelato e madido di sudore, stavano per chiamare gli altri apostoli, ma Gesù fermò Pietro dicendo: «Non chiamare gli altri, non voglio che mi vedano in queste condizioni, dubiterebbero di me e cadrebbero in tentazione. Ma voi che avete veduto il Figlio dell'uomo nello splendore, potete pure vederlo nell'oscurità e nell'abbandono. Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è sveglio, ma la carne è debole e inferma». Gesù non ignorava che anche i suoi amati apostoli erano caduti in preda all'angoscia e alla paura. Allora parlò loro con amorevole tristezza, mettendoli al corrente circa la dura lotta della natura umana contro la morte. Dopo un quarto d'ora fece di nuovo ritorno alla grotta. Erano quasi le undici di notte. I tre apostoli, afflitti, si chiedevano: «Cosa gli accade per essere così smarrito?». Si coprirono la testa e si misero a pregare. Frattanto, nella notte silenziosa di Gerusalemme, Maria santissima, Maria Maddalena, Maria figlia di Cleofa, Maria Salomè e Salomè avevano lasciato il cenacolo e si erano recate a casa di Maria, la madre di Marco. Tutte erano molto preoccupate per la sorte di Gesù, in modo particolare Maria santissima, la quale non dubitava più sul tradimento di Giuda.
Con il cuore colmo d'amara tristezza, Gesù dunque era ritornato nella grotta. Si gettò col viso al suolo e, con le braccia distese, pregò il Padre in cielo. Allora gli angeli consolatori gli mostrarono l'immagine beata dei nostri progenitori nello stato di santa innocenza, ossia quando Dio dimorava ancora nel loro cuore, facendogli vedere come la loro caduta l'avesse deturpata. In tale contesto il Salvatore vide le indicibili sofferenze che la sua anima avrebbe dovuto superare per redimere l'uomo dal peccato d'origine, causa di tutti i patimenti. Gli angeli gli fecero notare che l'unica natura umana esente dal peccato era quella del Figlio di Dio, il quale per prendere sopra di sé il debito dell'intera umanità doveva superare la ripugnanza umana per la sofferenza e la morte. La sua santa anima vide le pene future che sarebbero gravate sugli apostoli, sui discepoli e sui santi martiri. La crescita della Chiesa tra ombre e luci, le eresie, gli scismi e tutte le forme di vanità e le colpe scandalose del clero. La tiepidezza e la malvagità di numerosi sedicenti cristiani. E ancora: la desolazione del regno di Dio sulla terra e le orrende raffigurazioni dell'ingratitudine e degli abusi degli uomini. Con il suo martirio egli avrebbe instaurato nel mondo il precetto salvifico dell'amore e sarebbe stato il Salvatore divino per quanti, nei secoli, avrebbero voluto sfuggire alle fiamme dell'inferno e avvicinarsi alla luce beatifica di Dio. L'umanità, corrotta dal peccato, che lui si preparava a riscattare col proprio tributo di sofferenze indicibili, si sarebbe potuta salvare solo alla sequela della sua imitazione. Era quindi necessario che egli bevesse quest'amaro calice per trasfigurarsi nella “verità”, nella “porta” e nella “via” al Padre. Vidi Gesù versare lacrime di sangue di fronte all'immane ingratitudine degli uomini; per quelle moltitudini che l'avrebbero odiato e si sarebbero rifiutate di portare la croce con lui. Egli pativa affinché la sua Chiesa fosse fondata sulla roccia, contro la quale le porte dell'inferno non avrebbero prevalso. Ecco perché il demonio per provocano gli aveva detto: «Vuoi davvero soffrire per questa massa d'ingrati?». Con forte dolore, vidi una fitta schiera di nemici del mio Sposo divino mossi dal fanatismo, dall'idolatria e dall'odio contro la Chiesa: ciechi, paralitici, sordi, muti e persino fanciulli. Ciechi che non volevano vedere la verità, paralitici che con la verità non volevano camminare, muti perché si rifiutavano di trasmetterla agli altri e sordi perché rifiutavano di ascoltare le ammonizioni di Dio. I fanciulli crescevano insensibili alle cose divine, istruiti dai genitori e dai maestri alla vana sapienza del mondo. Questi mi fecero maggior compassione perché erano stati oggetto del massimo amore di Gesù. Non potrei mai finire se volessi raccontare tutti gli oltraggi fatti a Gesù, dai sacerdoti indegni, nel santissimo Sacramento... Vidi gli angeli che seguivano con il dito le diverse immagini che essi stessi producevano, ma non udivo quel che dicevano; compresi solo che avevano molta compassione per le sofferenze del Signore. Le sofferenze interiori di Gesù, per tali orribili peccati e concupiscenze, furono così intense che il suo corpo versò fiotti di sangue. Nello stesso tempo vidi la Vergine Maria patire a sua volta l'agonia spirituale del Figlio. La Madre di Gesù si trovava ancora nel giardino di Maria di Marco e veniva consolata dalle pie donne, particolarmente dalla padrona di casa e dalla fedele Maria Maddalena. Perse più volte i sensi mentre sollevava le mani imploranti verso il Getsemani. Anche Gesù, con molto trasporto, contemplava nello spirito le pene della sua santa Madre. Fu una visione intensa e molto commovente. Gli Otto apostoli, sbigottiti e afflitti dal dubbio, temevano per la sorte di Gesù e per la loro. Essi si chiedevano: «Che faremo, se il Maestro verrà arrestato e morirà? Abbiamo rinunciato a tutto per seguirlo e adesso siamo poveri ed esposti al ridicolo. Forse abbiamo sbagliato affidandoci completamente a lui». Fu così che gli apostoli entrarono in tentazione e si misero a cercare un nascondiglio. Anche i discepoli furono assaliti da un grande sconforto e andavano in giro per Gerusalemme con l'intento di apprendere qualche notizia intorno alla sorte del Redentore. Mancava poco alla mezzanotte. Gesù continuava l'intimo colloquio con il Padre celeste, allorché si aprì la terra sotto di lui e si trovò all'improvviso su un sentiero luminoso che scendeva nel limbo. Il Maestro divino scorse Adamo ed Eva, gli antichi patriarchi, i profeti e i giusti, i genitori di sua Madre, Giovanni Battista e una moltitudine di sacerdoti, di martiri, di beati e di santi della futura Chiesa. Tutti avevano il capo cinto dalle corone del santo trionfo, conseguite grazie alle sofferenze patite e alla perseverante lotta contro il male. Lo splendore di tale trionfo era legato unicamente ai meriti della sua prossima passione. Essi lo circondarono, esortandolo a compiere il sacrificio del suo sangue, sorgente di redenzione e di vita spirituale per tutti gli uomini di buona volontà. Questa visione rinvigorì Gesù che stava soggiacendo all'abbattimento umano. Dopo quelle confortanti scene, gli angeli gli mostrarono in tutti i particolari la passione che avrebbe subito tra poco. Quando il divino sofferente si vide inchiodato sulla croce completamente nudo per espiare l'impudicizia degli uomini, pregò fervorosamente il Padre di risparmiargli quell'immane umiliazione. Questa preghiera sarebbe stata esaudita per l'intervento di un uomo pietoso che l'avrebbe coperto. Dopo la visione del suo martirio sulla croce anche gli angeli lo abbandonarono. Egli cadde a terra sfinito come se fosse moribondo: il suo corpo era agonizzante e in preda a un tremito convulso. Vidi la grotta illuminata da tenui raggi lunari. All'improvviso un'altra luce illuminò la grotta: era un angelo inviato da Dio, indossava abiti sacerdotali e aveva nelle mani un piccolo calice. Senza discendere al suolo, la creatura celeste accostò il calice alle labbra di Gesù e, ciò fatto, disparve. Così il Signore aveva accettato il calice delle sue pene, dal quale ne trasse straordinarie energie. Restò ancora per alcuni minuti in atto di gratitudine verso il Padre celeste, poi si rialzò, si asciugò il volto con un sudario e fece ritorno dagli apostoli. Quando Gesù uscì dal la grotta, vidi la sua faccia pallidissima e spettrale: destava profonda compassione; notai però che il suo passo era diritto. La luce lunare e lo splendore delle stelle mi apparvero molto più naturali. Pietro, Giacomo e Giovanni, spossati dall'angoscia, erano caduti di nuovo nel torpore e si erano assopiti con la testa coperta. Gesù, pieno di amarezza, li chiamò ancora una volta e disse loro che non era il momento di dormire ma di pregare, perché l'ora della verità era venuta. Li avvertì che egli si sarebbe consegnato ai suoi nemici senza opporre resistenza; chiese che assistessero sua Madre ed ebbe parole di compassione per il traditore. Ma Pietro gridò: «Noi ti difenderemo, vado a chiamare gli altri!». Gesù lo fermò e gli fece segno di guardare nella valle, dall'altra parte del torrente Cedron, dove una masnada di armati si avvicinava alla luce di una lanterna.


Fonte: diocesidicapua.it.

mercoledì 22 febbraio 2012

Mercoledì delle Ceneri - Omelia del Papa

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!


Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.

Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).

E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).

Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).

I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana


Fonte: vatican.va.

Quaresima 2012 - Messaggio del Papa

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri,
per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb10,24)

Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recriminazione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.

Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).

Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 3 novembre 2011


BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Fonte: vatican.va.

martedì 21 febbraio 2012

Le Ceneri e gli appuntamenti quaresimali

Comincia domani il Tempo liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci condurranno alla Pasqua, la solennità più importante dell'anno liturgico. La liturgia caratterizza il Tempo di Quaresima in modo del tutto particolare, ad iniziare proprio dal rito dell'imposizione delle Ceneri che si svolgerà domani in tutte le chiese cattoliche del mondo. Le Ceneri che domani il sacerdote ci porrà sul capo sono i resti del bruciamento degli ulivi rimasti dalla Domenica delle Palme dell'anno scorso; anche questo è significativo, poiché i rami d'ulivo benedetti il giorno delle Palme ricordano l'ingresso in Gerusalemme del Signore Gesù nella settimana santa, e sono il simbolo della Sua Passione (Gesù, infatti, prima del suo arresto, pregava il Padre nel Getsemani, l'orto degli ulivi). Invece il gesto di ricevere la cenere sul capo affonda le sue radici nella storia: apprendiamo che già presso l'antico Egitto era segno di lutto rotolarsi con tutto il corpo nella cenere. Ma l'origine del gesto cristiano del giorno delle Ceneri proviene certamente dai molti passi della Bibbia che ne parlano come di un gesto di penitenza compiuto per supplicare l'aiuto di Dio e per fare penitenza: come ad esempio i Maccabei, che prima della battaglia decisiva contro il nemico «si cosparsero il capo di polvere per la preghiera a Dio» (2Mac 10, 25); o come i tre amici di Giobbe, quando, vista la disgrazia in cui era caduto il loro amico, «levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo» (Gb 2, 12). A sottolineare che il cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza e pentimento, vi sono le parole che il sacerdote pronuncia: "Ricordati che sei polvere e che ritornerai polvere", oppure, "Convertiti e credi al Vangelo". Durante la Quaresima siamo dunque invitati a cambiare vita, a lasciare da parte gli eccessi (acuiti dal carnevale) e a pregare, nel tempo che ci conduce verso la Passione che Nostro Signore ha sofferto per amor nostro.
Le Sante Messe con l'imposizione delle Ceneri saranno celebrate domani in Duomo alle ore 8:30 e 18:30, quest'ultima in forma solenne; è inoltre previsto un momento di preghiera con la lettura della Parola di Dio alle ore 17:00 per i bambini e i ragazzi della catechesi, durante il quale saranno loro imposte le Ceneri, ma non vi sarà la celebrazione della Santa Messa.
Una particolare devozione che in Quaresima ci unisce in modo particolare alle sofferenze di Cristo sulla Croce è la Via Crucis, che anche quest'anno celebreremo in due momenti ogni venerdì di Quaresima: il primo alle ore 15:00 in Santuario per giovani ed adulti, il secondo alle ore 17:00 in Duomo per i bambini e i ragazzi della catechesi. Quest'anno, durante la via Crucis in Santuario, e con approfondimenti su questo blog, mediteremo le stazioni del Calvario con le rivelazioni private della beata Anna Caterina Emmerich, religiosa tedesca beatificata da papa Giovanni Paolo II nel 2004, che ebbe tra gli altri il privilegio di rivedere in visione la Passione del Signore, che ha raccontato nei suoi diari affinché tutti i fedeli potessero accostarsi all'immenso dolore che Gesù Cristo ha portato sul suo Corpo per redimere l'umanità.
Non dimentichiamo che la Quaresima è anche il tempo della carità: essa si esprime in maniera speciale col digiuno, l'astinenza e l'elemosina. Il digiuno (prescritto dalla Chiesa nei giorni di mercoledì delle Ceneri e del Venerdì Santo) e l'astinenza dalle carni (ogni venerdì di Quaresima) ci aiutano ad offrire anche col nostro intero corpo una preghiera a Dio attraverso il sacrificio ed il dominio di sé. Digiuno ed astinenza partono con il cibo ma possono essere applicati anche ad altri aspetti della nostra vita: ad esempio, soprattutto per i giovani e i ragazzi, può voler significare astenersi dal computer, dai telefonini o dai videogiochi, per dedicare quel tempo alla preghiera; oppure, alla stessa maniera, spegnere la televisione o rinunciare allo spritz hour, per rimanere nel concreto. Questo prima di tutto ha una dimensione personale, di penitenza; assume poi una dimensione anche pubblica, tramite l'elemosina, ad esempio devolvendo l'equivalente del proprio digiuno, ma non solo, ai poveri ed alle opere di bene. Il nostro patriarcato, anche quest'anno, promuove l'iniziativa "Un pane per amor di Dio", con una cassettina da tenere a casa e da restituire, possibilmente con qualche soldo dentro, nei giorni della Settimana Santa, destinando quindi un aiuto concreto alle opere di carità; la Chiesa, in questo caso, diventa un tramite, affinché questo piccolo sacrificio da parte nostra si indirizzi nell'aiuto dei poveri e dei più bisognosi.
Iniziamo dunque il cammino della Quaresima con questo spirito, di pentimento e di rinnovamento della propria vita, per giungere ad essere risollevati tramite la Risurrezione di Cristo.

sabato 18 febbraio 2012

Concistoro per la creazione di nuovi cardinali

Questa mattina, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI ha presieduto il Concistoro ordinario pubblico con la creazione di 22 nuovi cardinali. Questa l'allocuzione pronunciata dal papa, a commento del Vangelo.

«Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam»

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con queste parole il canto d’ingresso ci ha introdotto nel solenne e suggestivo rito del Concistoro ordinario pubblico per la creazione dei nuovi Cardinali, l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del titolo. Sono le parole efficaci con le quali Gesù ha costituito Pietro quale saldo fondamento della Chiesa. Di tale fondamento la fede rappresenta il fattore qualificativo: infatti Simone diventa Pietro – roccia – in quanto ha professato la sua fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. Nell’annuncio di Cristo la Chiesa viene legata a Pietro e Pietro viene posto nella Chiesa come roccia; ma colui che edifica la Chiesa è Cristo stesso, Pietro deve essere un elemento particolare della costruzione. Deve esserlo mediante la fedeltà alla sua confessione fatta presso Cesarea di Filippo, in forza dell’affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Le parole rivolte da Gesù a Pietro mettono bene in risalto il carattere ecclesiale dell’odierno evento. I nuovi Cardinali, infatti, tramite l’assegnazione del titolo di una chiesa di questa Città o di una Diocesi suburbicaria, vengono inseriti a tutti gli effetti nella Chiesa di Roma guidata dal Successore di Pietro, per cooperare strettamente con lui nel governo della Chiesa universale. Questi cari Confratelli, che fra poco entreranno a far parte del Collegio Cardinalizio, si uniranno con nuovi e più forti legami non solo al Romano Pontefice ma anche all’intera comunità dei fedeli sparsa in tutto il mondo. Nello svolgimento del loro particolare servizio a sostegno del ministero petrino, i neo-porporati saranno infatti chiamati a considerare e valutare le vicende, i problemi e i criteri pastorali che toccano la missione di tutta la Chiesa. In questo delicato compito sarà loro di esempio e di aiuto la testimonianza di fede resa con la vita e con la morte dal Principe degli Apostoli, il quale, per amore di Cristo, ha donato tutto se stesso fino all’estremo sacrificio.

E’ con questo significato che è da intendere anche l’imposizione della berretta rossa. Ai nuovi Cardinali è affidato il servizio dell’amore: amore per Dio, amore per la sua Chiesa, amore per i fratelli con una dedizione assoluta e incondizionata, fino all’effusione del sangue, se necessario, come recita la formula di imposizione della berretta e come indica il colore rosso degli abiti indossati. A loro, inoltre, è chiesto di servire la Chiesa con amore e vigore, con la limpidezza e la sapienza dei maestri, con l’energia e la fortezza dei pastori, con la fedeltà e il coraggio dei martiri. Si tratta di essere eminenti servitori della Chiesa che trova in Pietro il visibile fondamento dell’unità.

Nel brano evangelico poc’anzi proclamato, Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38). L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.

Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri… Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).

Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne. Spiega infatti: «Anche il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (v. 45). Queste parole illuminano con singolare intensità l’odierno Concistoro pubblico. Esse risuonano nel profondo dell’anima e rappresentano un invito e un richiamo, una consegna e un incoraggiamento specialmente per voi, cari e venerati Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio.

Secondo la tradizione biblica, il Figlio dell’uomo è colui che riceve il potere e il dominio da Dio (cfr Dn 7,13s). Gesù interpreta la sua missione sulla terra sovrapponendo alla figura del Figlio dell’uomo quella del Servo sofferente, descritto da Isaia (cfr Is 53,1-12). Egli riceve il potere e la gloria solo in quanto «servo»; ma è servo in quanto accoglie su di sé il destino di dolore e di peccato di tutta l’umanità. Il suo servizio si attua nella fedeltà totale e nella responsabilità piena verso gli uomini. Per questo la libera accettazione della sua morte violenta diventa il prezzo di liberazione per molti, diventa l’inizio e il fondamento della redenzione di ciascun uomo e dell’intero genere umano.

Cari Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio! Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore. Sull’anello che tra poco vi consegnerò, sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, con al centro una stella che evoca la Madonna. Portando questo anello, voi siete richiamati quotidianamente a ricordare la testimonianza che i due Apostoli hanno dato a Cristo fino alla morte per martirio qui a Roma, fecondando così la Chiesa con il loro sangue. Mentre il richiamo alla Vergine Maria, sarà sempre per voi un invito a seguire colei che fu salda nella fede e umile serva del Signore.

Concludendo questa breve riflessione, vorrei rivolgere il mio cordiale saluto e ringraziamento a tutti voi presenti, in particolare alle Delegazioni ufficiali di vari Paesi e alle Rappresentanze di numerose Diocesi. I nuovi Cardinali, nel loro servizio, sono chiamati a rimanere sempre fedeli a Cristo, lasciandosi guidare unicamente dal suo Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate perché in essi possa rispecchiarsi al vivo il nostro unico Pastore e Maestro, il Signore Gesù, fonte di ogni sapienza, che indica la strada a tutti. E pregate anche per me, affinché possa sempre offrire al Popolo di Dio la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite fermezza il timone della santa Chiesa. Amen!


Fonte: vatican.va.

venerdì 17 febbraio 2012

L'arrivo del patriarca - Comunicazioni ufficiali

Il grande appuntamento è fissato per il 24 e 25 marzo. Due giornate, ricche di incontri, segneranno infatti l’ingresso ufficiale nella diocesi veneziana del Patriarca eletto mons. Francesco Moraglia: è quanto emerge dalla prima tornata di lavori dell’apposito Comitato di accoglienza, costituito subito dopo l’annuncio della nomina e che ora - in specifiche e più allargate commissioni - sta verificando tempi e orari, modalità e dettagli di ogni singolo momento. Alcuni punti fermi si stanno, comunque, già consolidando.

Sabato pomeriggio: l’arrivo a Mira e il passaggio in Riviera e a Marghera. Mons. Francesco Moraglia arriverà con mezzi privati al confine occidentale della diocesi, cioè a Mira, nel primo pomeriggio di sabato 24 marzo (intorno alle ore 15.00) e qui, nel piazzale della chiesa di Mira Taglio, riceverà il primo saluto della sua “nuova” comunità ecclesiale e cittadina attraverso gli interventi del vicario foraneo e del sindaco di Mira. Proseguirà lungo la strada del naviglio del Brenta salutando “in corsa” chi incontrerà lungo la Riviera e poi anche a S. Antonio di Marghera. Sosterà quindi (verso le 16.15) nella chiesa parrocchiale di Gesù Lavoratore, in via Fratelli Bandiera a Marghera, dove incontrerà un gruppo di rappresentanti del mondo del lavoro.

A Mestre (Sacro Cuore) per l’incontro con i giovani, l’adorazione eucaristica e poi alla mensa di Ca’ Letizia per servire la cena ai poveri della città. Di seguito si dirigerà a Mestre per un grande incontro con tutti i giovani del Patriarcato che si terrà, a partire dalle ore 17.00 circa, presso la chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Mestre: ci sarà un momento di preghiera e di adorazione eucaristica e, in questo speciale contesto, avverrà il primo saluto ed intervento che il neo Patriarca rivolgerà ai giovani veneziani intorno al tema “Eucaristia, Carità di Cristo e Chiesa”. Tale appuntamento sostituirà quello della Via Crucis (prevista il 31 marzo e, ora, annullata). E poiché dalla preghiera alla carità non solo il passo è breve ma profondamente intrecciato, subito dopo, mons. Moraglia - accompagnato da un piccolo gruppo di giovani e dai seminaristi della diocesi - si sposterà (verso le 18.30) in via Querini, nella mensa di Ca’ Letizia, per la cena offerta ai poveri della città e servita dal Patriarca stesso, insieme a giovani e volontari. Al termine si prevede anche - nel contiguo Centro pastorale Papa Luciani - un breve incontro con i seminaristi, i giovani e i volontari della San Vincenzo Mestrina prima di recarsi, in conclusione di giornata, al Centro pastorale card Urbani di Zelarino.

Domenica mattina: visita al Centro Nazaret di Zelarino, tappa a S. Lorenzo Giustiniani e poi in Piazza Ferretto e nel Duomo di Mestre. La mattina di domenica 25 marzo prevede, come primo appuntamento per mons. Moraglia, la visita al Centro Nazaret di Zelarino con una particolare attenzione ai preti ammalati lì presenti. Entrerà quindi a Mestre fermandosi brevemente (intorno alle 11.00) presso la parrocchia di S. Lorenzo Giustiniani, una scelta di spiccato valore simbolico in quanto è intitolata a colui che fu il primo Patriarca di Venezia. Attraversando Piazza Ferretto si recherà poi nel Duomo di Mestre per l’incontro pubblico con la comunità mestrina (ore 11.45); nella chiesa intitolata a S. Lorenzo riceverà il saluto dell’arciprete del Duomo e, di seguito, tornerà al centro pastorale di Zelarino per un veloce pranzo e già pronto a partire verso la città d’acqua.

Domenica pomeriggio: l’Infiorata davanti alla stazione S. Lucia, il corteo acqueo in Canal Grande, la tappa alla Salute, il saluto ufficiale al Molo e la messa nella cattedrale marciana. Alle 14.00 è fissato, infatti, il suo arrivo a Piazzale Roma; da qui il Patriarca percorrerà il ponte di Calatrava per arrivare davanti alla stazione ferroviaria di S. Lucia. E’ il giorno dell’Annunciazione e quindi, secondo una bella tradizione, del gesto e della preghiera dell’Infiorata: a questo momento sono particolarmente invitati i bambini veneziani con le loro famiglie. Da S. Lucia inizierà poi il corteo acqueo che porterà mons. Moraglia lungo il Canal Grande (durante il percorso le parrocchie vicine suoneranno le campane a festa) e fino alla basilica della Salute (orario previsto: 15.15) dove, dopo il saluto e l’accoglienza da parte del rettore, rivolgerà una preghiera alla Vergine Maria e saluterà chi (veneziano o turista) sarà presente in questa chiesa che potrà, poi, essere utilizzata da quanti non seguiranno le fasi della celebrazione a San Marco ma vorranno egualmente partecipare al momento culminante dell’ingresso attraverso il collegamento televisivo attivo, appunto, alla Salute. Il Patriarca risalirà allora in gondola per raggiungere il molo di San Marco dove intorno alle 15.45, tra le colonne di Marco e Todaro, sarà salutato dalle autorità (il sindaco di Venezia, in particolare, rappresenterà anche gli altri sindaci del territorio diocesano) e rivolgerà il primo saluto ufficiale alla città. Seguirà la processione verso la basilica marciana: mons. Moraglia sarà accompagnato all’interno da tutti i sacerdoti. La celebrazione eucaristica di insediamento avrà inizio, presumibilmente, alle ore 16.30 e in quel momento le chiese del Patriarcato suoneranno le campane a festa. L’ingresso a S. Marco, per evidenti motivi di capienza e sicurezza, sarà possibile solo su invito (i “pass” saranno distribuiti a parrocchie e realtà ecclesiali). Al termine della messa mons. Moraglia saluterà, infine, i fedeli in Piazzetta dei Leoncini prima di salire nel Palazzo Patriarcale.

Orari e dettagli più precisi di ciascuna tappa delle due giornate d’ingresso saranno definiti ed ufficializzati a breve, in occasione di una prossima riunione del Comitato d’accoglienza.

In allegato c’è, inoltre, il calendario con gli appuntamenti e gli incontri diocesani del Patriarca Francesco già fissati nelle sue prime settimane veneziane.

Documenti:


Fonte: patriarcatovenezia.it.

La bellezza dell'altare

Riporto un articolo apparso ieri sul blog cordialiter, a proposito dell'importanza della bellezza degli altari. Si tratta di alcuni stralci di una lettera scritta da don Eusebio Vismara S.D.B. (1880-1945) al direttore della rivista Liturgia pubblicata nel 1938.

Cose belle e cose meno belle
Di don Eusebio Vismara S.D.B.

Nei viaggi di cui le ho detto, celebrai a molti altari. E ne vidi degli altari belli, ben fatti e tenuti a dovere: ornati con sobrietà e con gusto, mantenuti con decoro e proprietà; soprattutto puliti e candidi. E ne ho gioito. [...] Gode l'anima e s'accresce la pietà. Sembra più viva la fede, e nella fede si ravviva l'amore. Un bell'altare sembra che renda più bella la Messa. [...] Per la ragion dei contrari – come dicono i filosofi – un brutto altare deve produrre un effetto tutto opposto. La ragione filosofica ha purtroppo tutto il suo avveramento psicologico. Un senso di pena, di disgusto, talora di vera ripugnanza si prova nell'accostarsi ad un altare che non sia qual deve essere e non sia tenuto come si deve. La fede deve ravvivarsi quasi per contrasto, e la pietà non può trionfare se non sopra un senso di stizza. Si sta male. Tutto diventa brutto. Si prova pena per Gesù stesso che vede così maltrattato il suo Sacrificio ed è costretto a discendere su quegli altari, che fanno proprio pensare alla stalla di Betlemme e alla croce del Calvario. Poveri e miseri altari. Ma non è sempre la povertà e la miseria che li rende brutti. E' l'incuria, è la mancanza di ogni riguardo; è soprattutto la mancanza di proprietà e pulizia. [...] Eh via! La stizza è stizza. Ma la stizza che si sente quando si vede maltrattato in tal guisa un'altare è una stizza santa. [...] Ecco pertanto, egregio Direttore, un secondo campo di battaglia per la rivista: l’altare del Signore. Campo in cui si possono combattere -molte sante battaglie, incominciando ad ingaggiarne una - non inorridisca - proprio contro le croci e i crocifissi. Nuovo iconoclasmo? Affatto. Proprio per amore e per l’onore della Croce e del Crocifisso indico la guerra alle croci ed ai crocifissi. Intendo i brutti ed orribili crocifissi, le brutte e indecenti croci, che all’altare non sono quali debbono essere; che non sono il trionfo ma l’umiliazione della Croce e del Crocifisso. Secondo la mente della Chiesa, la croce su ogni altare, ma soprattutto, all’altar maggiore, deve essere dominate [...]. E invece... Si vedono croci che quasi non si vedono; appena visibili al sacerdote che celebra, a stento percepibili ai fedeli che vi assistono. Il crocifisso deve rappresentare la figura adorabile del Salvatore. E invece talora sembra una goffa e mostruosa caricatura della persona divina di Gesù. Oh quante volte in cuor mio ho augurato il fallimento alle fabbriche ed alle ditte che allagano le chiese con simili sacrileghi prodotti. Nè mai mi sono chiamato in colpa di un si cordiale augurio. Nel cuore però ho avuto pure un senso di amara compassione pei sacerdoti che fanno tali acquisti per le loro chiese. Lasciamo la questione dell’arte e quella relativa degli artisti, che si indignano perchè in luogo dell’arte trionfa il commercio e l’affarismo nella casa di Dio, si pensa al soldo, a ciò che poco costa, e nulla più. Qui mi pongo unicamente dal punto di vista della pietà e della decenza. Son così belle le cose belle; e perchè cercare le cose meno belle? E proprio quando si tratta della persona del Salvatore? Povero Gesù! Fu già messo in croce una volta, e non basta! Fu venduto per trenta denari, e si baratta ancora per poche lire! Nè qui finisce ciò che riguarda l’altare. Dovrei dire ancora del tabernacolo e del conopeo, che non sono a dovere; delle carteglorie in cui è impossibile leggere una parola: e che ci stanno a fare? dei candelieri e delle candele; degli addobbi e dei fiori: di quelle cose belle, cioè, che sono proprio fatte per rendere più bello l’altare, e invece sono le meno belle e lo rendono sempre più brutto. Quando sarà il giorno in cui vedremo tutti gli altari belli nella casa di Dio? Al solito, io sogno! Sono e sarò un eterno sognatore. Ma sono pur belli i sogni belli.


Fonte: cordialiter.blogspot.com

martedì 14 febbraio 2012

Prossimi appuntamenti con il patriarca

Dal comitato diocesano di accoglienza del nuovo patriarca, mons. Francesco Moraglia, apprendiamo alcune date e notizie importanti circa il suo arrivo nel patriarcato. E' ormai ufficiale la data della presa di possesso canonica del patriarcato, che si svolgerà nel pomeriggio di domenica 25 marzo, V di Quaresima con una Santa Messa nella Basilica Cattedrale di San Marco. La scelta del 25 marzo è molto significativa: infatti proprio in questa data Venezia ricorda il suo natale, il 25 marzo 421, quando, secondo la tradizione, i Veneti provenienti dalla terraferma, per scampare alle invasioni dei Goti e degli Unni, si rifugiarono in laguna e costruirono i primi insediamenti. Tuttavia il patriarca farà il suo ingresso nel territorio del patriarcato già sabato 24, visitando i territori del confine sud della diocesi: visiterà infatti il Vicariato di Gambarare, la città di Mira ed altri territori circostanti.
Viene anche comunicato che mons. Moraglia ha espresso il desiderio di visitare subito tutti i Vicariati del patriarcato; poiché dopo la data della presa di possesso vi sono la Settimana Santa (il 1° aprile è la Domenica delle Palme) e l'Ottava di Pasqua, le visite cominceranno nella settimana successiva. Ed è molto probabile che il nuovo patriarca voglia visitare allora il confine più a nord del patriarcato, ossia il nostro Vicariato di Caorle. I dettagli della visita del nuovo patriarca nel nostro Vicariato saranno resi noti in seguito, ma ci è fatto sapere che essa potrebbe svolgersi in un giorno feriale, con una Santa Messa celebrata in Duomo la sera.
Continuiamo, nel frattempo, a pregare per il patriarca eletto Francesco nelle nostre preghiere quotidiane, affinché il Signore lo aiuti a pascere questa porzione del suo gregge che è la nostra Chiesa di Venezia.

lunedì 13 febbraio 2012

Tesori d'arte sacra: l'altare di San Rocco

Per l'appuntamento mensile con i tesori d'arte sacra conservati nel Duomo di Caorle parliamo oggi dell'altare di San Rocco, che si trova nella cappella ricavata nella parete sinistra proprio vicino alla porta d'ingresso della navata laterale. Fin dall'inizio del secolo XX, con la demolizione della chiesa delle Grazie, costruita davanti al Duomo, questa cappella laterale fu dedicata alla custodia del Battistero cinquecentesco, poi spostato nell'absidicola laterale destra nel 1975. La motivazione del posizionare il Battistero in questo luogo si trova nel fatto che il Battesimo è il primo sacramento dell'iniziazione cristiana, nonché la purificazione dell'uomo dal peccato originale, cosa che rende degni di partecipare alla Santa Messa. Proprio in memoria del proprio Battesimo, infatti, il cristiano che entra in chiesa si bagna con l'acqua santa facendosi il segno di Croce.
La collocazione dell'attuale altare è quindi relativamente recente. L'altare, di fattura barocca, era l'Altar maggiore del Santuario della Madonna dell'Angelo (vedi foto in fondo all'articolo): nella grande nicchia, coperta da una lastra di vetro, era posto il simulacro della Santa Vergine, mentre nella parte superiore della nicchia erano posti due Angeli in marmo che reggevano una corona in legno dorato, probabilmente la corona dell'Incoronazione del Simulacro, avvenuta nel 1874, per le mani del patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato. Con la traslazione di quell'altare nel Duomo, fu trasportato in Santuario l'altare settecentesco che custodiva il Santissimo Sacramento proprio in Cattedrale, al quale furono aggiunti i due angeli di marmo.
La statua di San Rocco, compatrono di Caorle, proviene invece dall'antico oratorio di San Rocco, costruito a destra del Duomo, dove oggi sorge un piccolo chiostro in corrispondenza del quale sono ancora visibili resti di affreschi di quella piccola costruzione. La statua ritrae l'immagine del Santo di Montpellier nella sua iconografia tradizionale: il bastone del pellegrino in mano, l'emblema di San Rocco sul bracciale mentre indica con la mano destra la piaga che ha sulla gamba sinistra e con il cane randagio che gli porge il tozzo di pane. Egli, infatti, partì dalla Francia per recarsi a Roma, a pregare sulle tombe degli apostoli, fermandosi a curare negli ospizi i malati di peste; tuttavia fu contagiato dal morbo e, per non essere di peso o portar via cure ai suoi tanto amati ammalati, si rifugiò eremita in una grotta per morire da solo, dove un cane randagio gli portava il cibo necessario alla sua sopravvivenza. Ma Dio lo guarì miracolosamente: per questo è rappresentato nell'atto di mostrare la piaga della peste, ossia per testimoniare l'amore e la potenza di Dio che lo ha guarito.
Fin dal XIV secolo egli fu invocato come protettore dai mali inguaribili, tanto che Caorle lo annoverò tra i suoi patroni; nel XVII secolo, quando fu costruito l'oratorio, ne fu chiesta anche una reliquia alla Scuola Grande di Venezia, tutt'ora conservata nel museo liturgico parrocchiale ed esposta alla venerazione dei fedeli il giorno della sua festa, il 16 agosto. Un tempo anche la statua del Santo era esposta il 16 agosto, e dopo le solenni celebrazioni in Duomo, veniva portata in processione per le vie del paese, in quella che per tutti i caorlotti era la festa patronale per eccellenza (cadendo la festa del suo patrono principale, Santo Stefano, in corrispondenza delle feste natalizie).

L'odierno altare di San Rocco impiegato come altar maggiore del Santuario della Madonna dell'Angelo in una foto degli anni '60

sabato 11 febbraio 2012

Giornata mondiale del Malato 2012

Quest'anno si celebra la ventesima Giornata Mondiale del Malato. L'istituzione di questa particolare ricorrenza annuale si deve al beato papa Giovanni Paolo II, su richiesta del Pontificio Consiglio della Pastorale degli operatori sanitari, nel 1992. Nella lettera d'indizione il papa auspicava che la celebrazione di questa giornata contribuisse a «sensibilizzare il Popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi; aiutare chi è ammalato a valorizzare, sul piano umano e soprattutto su quello soprannaturale, la sofferenza; a coinvolgere in maniera particolare le diocesi, le comunità cristiane, le Famiglie religiose nella pastorale sanitaria; a favorire l'impegno sempre più prezioso del volontariato; a richiamare l'importanza della formazione spirituale e morale degli operatori sanitari e, infine, a far meglio comprendere l'importanza dell'assistenza religiosa agli infermi da parte dei sacerdoti diocesani e regolari, nonché di quanti vivono ed operano accanto a chi soffre». La data scelta per questa ricorrenza, l'11 febbraio, ha la sua motivazione nella memoria liturgica che oggi celebriamo, la Beata Vergine Maria di Lourdes: le apparizioni della Madonna e la vita di Santa Bernadette ci fanno volgere lo sguardo all'Amore di Dio per gli ammalati e i sofferenti, ci indicano nella Fede la medicina efficace sia per il male fisico che, soprattutto, spirituale, ci aiutano a vivere la sofferenza proiettati verso la gioia non di questo mondo ma dell'altro.
Anche quest'anno, per dare maggiore importanza e solennità alla Giornata mondiale del Malato, la nostra parrocchia ha organizzato una serie di eventi per domenica 12 febbraio: innanzitutto invita tutti alla Santa Messa solenne delle 10:45, alla quale saranno presenti gli ospiti della Casa di Riposo don Moschetta; seguirà, per quanti nei giorni scorsi hanno aderito all'iniziativa, il pranzo comunitario presso il Centro Pastorale Parrocchiale "Beato Giovanni XXIII"; infine la consegna del Premio Bontà alle ore 16.
Qui di seguito pubblico il Messaggio del Santo Padre, papa Benedetto XVI, in occasione della XX Giornata mondiale del Malato.

«Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,19)

Cari fratelli e sorelle!

In occasione della Giornata Mondiale del Malato, che celebreremo il prossimo 11 febbraio 2012, memoria della Beata Vergine di Lourdes, desidero rinnovare la mia spirituale vicinanza a tutti i malati che si trovano nei luoghi di cura o sono accuditi nelle famiglie, esprimendo a ciascuno la sollecitudine e l'affetto di tutta la Chiesa. Nell'accoglienza generosa e amorevole di ogni vita umana, soprattutto di quella debole e malata, il cristiano esprime un aspetto importante della propria testimonianza evangelica, sull'esempio di Cristo, che si è chinato sulle sofferenze materiali e spirituali dell'uomo per guarirle.

1. In quest'anno, che costituisce la preparazione più prossima alla Solenne Giornata Mondiale del Malato che si celebrerà in Germania l'11 febbraio 2013 e che si soffermerà sull'emblematica figura evangelica del samaritano (cfr Lc 10,29-37), vorrei porre l'accento sui «Sacramenti di guarigione», cioè sul Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione, e su quello dell'Unzione degli Infermi, che hanno il loro naturale compimento nella Comunione Eucaristica.

L'incontro di Gesù con i dieci lebbrosi, narrato nel Vangelo di san Luca (cfr Lc 17,11-19), in particolare le parole che il Signore rivolge ad uno di questi: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!» (v. 19), aiutano a prendere coscienza dell'importanza della fede per coloro che, gravati dalla sofferenza e dalla malattia, si avvicinano al Signore. Nell'incontro con Lui possono sperimentare realmente che chi crede non è mai solo! Dio, infatti, nel suo Figlio, non ci abbandona alle nostre angosce e sofferenze, ma ci è vicino, ci aiuta a portarle e desidera guarire nel profondo il nostro cuore (cfr Mc 2 ,1-12).

La fede di quell'unico lebbroso che, vedendosi sanato, pieno di stupore e di gioia, a differenza degli altri, ritorna subito da Gesù per manifestare la propria riconoscenza, lascia intravedere che la salute riacquistata è segno di qualcosa di più prezioso della semplice guarigione fisica, è segno della salvezza che Dio ci dona attraverso Cristo; essa trova espressione nelle parole di Gesù: la tua fede ti ha salvato. Chi, nella propria sofferenza e malattia, invoca il Signore è certo che il Suo amore non lo abbandona mai, e che anche l'amore della Chiesa, prolungamento nel tempo della sua opera salvifica, non viene mai meno. La guarigione fisica, espressione della salvezza più profonda, rivela così l'importanza che l'uomo, nella sua interezza di anima e di corpo, riveste per il Signore. Ogni Sacramento, del resto, esprime e attua la prossimità di Dio stesso, il Quale, in modo assolutamente gratuito, «ci tocca per mezzo di realtà materiali …, che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell'incontro tra noi e Lui stesso» (Omelia, S. Messa del Crisma, 1 aprile 2010). «L'unità tra creazione e redenzione si rende visibile. I Sacramenti sono espressione della corporeità della nostra fede che abbraccia corpo e anima, l'uomo intero» (Omelia, S. Messa del Crisma, 21 aprile 2011).

Il compito principale della Chiesa è certamente l'annuncio del Regno di Dio, «ma proprio questo stesso annuncio deve essere un processo di guarigione: "... fasciare le piaghe dei cuori spezzati" (Is 61,1)» (ibid.), secondo l'incarico affidato da Gesù ai suoi discepoli (cfr Lc 9,1-2; Mt 10,1.5-14; Mc 6,7-13). Il binomio tra salute fisica e rinnovamento dalle lacerazioni dell'anima ci aiuta quindi a comprendere meglio i «Sacramenti di guarigione».

2. Il Sacramento della Penitenza è stato spesso al centro della riflessione dei Pastori della Chiesa, proprio a motivo della grande importanza nel cammino della vita cristiana, dal momento che «tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1468). La Chiesa, continuando l'annuncio di perdono e di riconciliazione fatto risuonare da Gesù, non cessa di invitare l'umanità intera a convertirsi e a credere al Vangelo. Essa fa proprio l'appello dell'apostolo Paolo: «In nome di Cristo ... siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Gesù, nella sua vita, annuncia e rende presente la misericordia del Padre. Egli è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare, per dare speranza anche nel buio più profondo della sofferenza e del peccato, per donare la vita eterna; così nel Sacramento della Penitenza, nella «medicina della confessione», l'esperienza del peccato non degenera in disperazione, ma incontra l'Amore che perdona e trasforma (cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Reconciliatio et Paenitentia, 31).

Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola evangelica (cfr Lc 15,11-32), non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli, ma li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione imprigiona nell'isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione. Il momento della sofferenza, nel quale potrebbe sorgere la tentazione di abbandonarsi allo scoraggiamento e alla disperazione, può trasformarsi così in tempo di grazia per rientrare in se stessi e, come il figliol prodigo della parabola, ripensare alla propria vita, riconoscendone errori e fallimenti, sentire la nostalgia dell'abbraccio del Padre e ripercorrere il cammino verso la sua Casa. Egli, nel suo grande amore, sempre e comunque veglia sulla nostra esistenza e ci attende per offrire ad ogni figlio che torna da Lui, il dono della piena riconciliazione e della gioia.

3. Dalla lettura dei Vangeli, emerge chiaramente come Gesù abbia sempre mostrato una particolare attenzione verso gli infermi. Egli non solo ha inviato i suoi discepoli a curarne le ferite (cfr Mt 10,8; Lc 9,2; 10,9), ma ha anche istituito per loro un Sacramento specifico: l'Unzione degli Infermi. La Lettera di Giacomo attesta la presenza di questo gesto sacramentale già nella prima comunità cristiana (cfr 5,14-16): con l'Unzione degli Infermi, accompagnata dalla preghiera dei presbiteri, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché allevi le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spiritualmente alla passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del Popolo di Dio.

Tale Sacramento ci porta a contemplare il duplice mistero del Monte degli Ulivi, dove Gesù si è trovato drammaticamente davanti alla via indicatagli dal Padre, quella della Passione, del supremo atto di amore, e l'ha accolta. In quell'ora di prova, Egli è il mediatore, «trasportando in sé, assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo, trasformandola in grido verso Dio, portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio, e così portandola realmente al momento della Redenzione» (Lectio divina, Incontro con il Clero di Roma, 18 febbraio 2010). Ma «l'Orto degli Ulivi è ... anche il luogo dal quale Egli è asceso al Padre, è quindi il luogo della Redenzione ... Questo duplice mistero del Monte degli Ulivi è anche sempre "attivo" nell'olio sacramentale della Chiesa ... segno della bontà di Dio che ci tocca» (Omelia, S. Messa del Crisma, 1 aprile 2010). Nell'Unzione degli Infermi, la materia sacramentale dell'olio ci viene offerta, per così dire, «quale medicina di Dio ... che ora ci rende certi della sua bontà, ci deve rafforzare e consolare, ma che, allo stesso tempo, al di là del momento della malattia, rimanda alla guarigione definitiva, alla risurrezione (cfr Gc 5,14)» (ibid.).

Questo Sacramento merita oggi una maggiore considerazione, sia nella riflessione teologica, sia nell'azione pastorale presso i malati. Valorizzando i contenuti della preghiera liturgica che si adattano alle diverse situazioni umane legate alla malattia e non solo quando si è alla fine della vita (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1514), l'Unzione degli Infermi non deve essere ritenuta quasi «un sacramento minore» rispetto agli altri. L'attenzione e la cura pastorale verso gli infermi, se da un lato è segno della tenerezza di Dio per chi è nella sofferenza, dall'altro arreca vantaggio spirituale anche ai sacerdoti e a tutta la comunità cristiana, nella consapevolezza che quanto è fatto al più piccolo, è fatto a Gesù stesso (cfr Mt 25,40).

4. A proposito dei «Sacramenti di guarigione» S. Agostino afferma: «Dio guarisce tutte le tue infermità. Non temere dunque: tutte le tue infermità saranno guarite... Tu devi solo permettere che egli ti curi e non devi respingere le sue mani» (Esposizione sul Salmo 102, 5: PL 36, 1319-1320). Si tratta di mezzi preziosi della Grazia di Dio, che aiutano il malato a conformarsi sempre più pienamente al Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo. Assieme a questi due Sacramenti, vorrei sottolineare anche l'importanza dell'Eucaristia. Ricevuta nel momento della malattia contribuisce, in maniera singolare, ad operare tale trasformazione, associando colui che si nutre del Corpo e del Sangue di Gesù all'offerta che Egli ha fatto di Se stesso al Padre per la salvezza di tutti. L'intera comunità ecclesiale, e le comunità parrocchiali in particolare, prestino attenzione nell'assicurare la possibilità di accostarsi con frequenza alla Comunione sacramentale a coloro che, per motivi di salute o di età, non possono recarsi nei luoghi di culto. In tal modo, a questi fratelli e sorelle viene offerta la possibilità di rafforzare il rapporto con Cristo crocifisso e risorto, partecipando, con la loro vita offerta per amore di Cristo, alla missione stessa della Chiesa. In questa prospettiva, è importante che i sacerdoti che prestano la loro delicata opera negli ospedali, nelle case di cura e presso le abitazioni dei malati si sentano veri «"ministri degli infermi", segno e strumento della compassione di Cristo, che deve giungere ad ogni uomo segnato dalla sofferenza» (Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale del Malato, 22 novembre 2009).

La conformazione al Mistero Pasquale di Cristo, realizzata anche mediante la pratica della Comunione spirituale, assume un significato del tutto particolare quando l'Eucaristia è amministrata e accolta come viatico. In quel momento dell'esistenza risuonano in modo ancora più incisivo le parole del Signore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,54). L'Eucaristia, infatti, soprattutto come viatico è - secondo la definizione di sant'Ignazio d'Antiochia - «farmaco di immortalità, antidoto contro la morte» (Lettera agli Efesini, 20: PG 5, 661), sacramento del passaggio dalla morte alla vita, da questo mondo al Padre, che tutti attende nella Gerusalemme celeste.

5. Il tema di questo Messaggio per la XX Giornata Mondiale del Malato, «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!», guarda anche al prossimo «Anno della fede», che inizierà l'11 ottobre 2012, occasione propizia e preziosa per riscoprire la forza e la bellezza della fede, per approfondirne i contenuti e per testimoniarla nella vita di ogni giorno (cfr Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011). Desidero incoraggiare i malati e i sofferenti a trovare sempre un'ancora sicura nella fede, alimentata dall'ascolto della Parola di Dio, dalla preghiera personale e dai Sacramenti, mentre invito i Pastori ad essere sempre più disponibili alla loro celebrazione per gli infermi. Sull'esempio del Buon Pastore e come guide del gregge loro affidato, i sacerdoti siano pieni di gioia, premurosi verso i più deboli, i semplici, i peccatori, manifestando l'infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr S. Agostino, Lettera 95, 1: PL 33, 351-352).

A quanti operano nel mondo della salute, come pure alle famiglie che nei propri congiunti vedono il Volto sofferente del Signore Gesù, rinnovo il ringraziamento mio e della Chiesa, perché, nella competenza professionale e nel silenzio, spesso anche senza nominare il nome di Cristo, Lo manifestano concretamente (cfr Omelia, S. Messa del Crisma, 21 aprile 2011).

A Maria, Madre di Misericordia e Salute degli Infermi, eleviamo il nostro sguardo fiducioso e la nostra orazione; la sua materna compassione, vissuta accanto al Figlio morente sulla Croce, accompagni e sostenga la fede e la speranza di ogni persona ammalata e sofferente nel cammino di guarigione dalle ferite del corpo e dello spirito.

A tutti assicuro il mio ricordo nella preghiera, mentre imparto a ciascuno una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 20 novembre 2011, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell'Universo.

Benedictus PP XVI

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Fonte: vatican.va.
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