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sabato 28 aprile 2012

Le parole del Patriarca all'assemblea parrocchiale

Dopo la Santa Messa, il Patriarca Francesco si è soffermato ancora per un'ora tra la nostra gente nell'assemblea parrocchiale che ha concluso la giornata. L'assemblea è stata aperta dalle parole del parroco don Giuseppe, che ha fatto dono al Patriarca, a nome di tutta la comunità parrocchiale, del libro di recente uscita "Caorle Sacra", consegnato a mons. Moraglia direttamente da Renata Candiago, co-autrice dell'opera insieme a Paolo Francesco Gusso. Don Giuseppe ha poi illustrato la situazione della parrocchia, parlando delle iniziative di preghiera, dei gruppi di ascolto e di catechesi, dei movimenti ed anche dell'attività del sito parrocchiale. Dopo degli ulteriori interventi da parte di due parrocchiane, il patriarca ha rivolto ai fedeli presenti le seguenti parole a braccio.

Il parroco ha delineato la vita di una comunità; noi dobbiamo prima di tutto avere la consapevolezza che non siamo una comunità perfetta, ma che siamo una comunità che desidera voler bene al Signore. Perché la cosa più importante che noi dobbiamo avere in mente è proprio questo: Gesù, prima di lasciare la sua Chiesa a un uomo che si chiamava Pietro non gli ha chiesto se sapeva il latino o il greco, o se aveva studiato filosofia ad Atene, o se aveva frequentato le biblioteche di Alessandria d'Egitto. Gli ha chiesto per tre volte una sola cosa: "Mi vuoi bene più degli altri?". Allora ognuno di noi deve lasciarsi interrogare da questa domanda. Non saremo mai una comunità perfetta, perché siamo uomini e siamo donne, quindi abbiamo le fragilità: però abbiamo anche il desiderio di essere la comunità del Risorto; la prima lettura di oggi, ma anche i Vangeli pasquali e le letture pasquali, ce lo dicono in continuazione.
Vi faccio una piccola confidenza: anche per me non è stato facile venire a Venezia; ci sono venuto volentieri, ma è stato un taglio notevole. A un certo punto una persona m'ha detto: "Se ti hanno mandato lì, là troverai il Signore". E questa è stata una delle tante cose che, unita ad altre, di dire che, se il Vangelo è preso sul serio la nostra vita cambia. Ma il problema è prenderlo sul serio, cioè crederci!
Tra le tante cose che ho fatto ho anche insegnato teologia per 29 anni, e ringrazio il Signore; però vi dico che quello che mi è servito di più spiritualmente è la preghiera del mattino: iniziare una giornata dedicando un'ora o due alla preghiera. Mi ha dato molto di più che tante ore di studio quotidiane.
Ecco, allora, che c'è una dimensione prima che è il rapporto col Signore, che deve appartenere alla comunità e a chi costituisce questa comunità. Questo lo dico perché la scelta dell'Eucarestia, la scelta dell'Adorazione, è fondamentale: perché l'ascolto della Parola di Dio è l'ascolto del Signore, perché la catechesi è andare oltre e costruire quella Parola nelle situazioni differenti, complicate, complesse della mia vita. Per esempio la Dottrina sociale della Chiesa è fondamentale se vogliamo essere all'altezza del nostro tempo, se vogliamo essere in grado di dare delle risposte; quindi, io direi, sarebbe importante che gli adulti credessero nella catechesi magari scegliendo alcuni argomenti che ci permettano anche di poter leggere la situazione attuale in cui noi viviamo, il nostro Paese vive, a partire da dei valori veri. Per esempio, li enuncio: i principi della Dottrina sociale della Chiesa sono la Persona, l'intangibilità della vita, il matrimonio, l'educazione, la libertà nell'educazione, il bene comune, la solidarietà, la sussidiarietà, la destinazione universale dei beni. Ecco, io vorrei che un laicato cattolico maturo, se non sempre, se non tutti i giorni, ma la domenica, per esempio, intendesse che vivere il giorno del Signore è anche leggere il quotidiano cattolico. Dico una volta alla settimana, non è sufficiente, ma è già importante.
Fate caso, molte volte noi sappiamo quello che dice il Papa dal telegiornale; nei nostri telegiornali di mezz'ora, venti minuti sono di cronaca giudiziaria - passiamo da un'aula all'altra di giustizia - oppure, a seconda dei periodi, omicidi insoluti su cui poi i giornalisti speculano e fanno ricami; più che inutile, perché siamo italiani e sappiamo quello che è successo ad Avetrana, o a Roma in via Poma. Poi adesso, se notate, ci sono dieci minuti di frivolezze, perché stanno anche indettandoci certe culture. Io sono amico degli animali, ma percepiscono quando mi vogliono mandare dei messaggi in cui, a un certo punto, tra l'animale e l'uomo non c'è più differenza e dico: qui non va bene. Non perché non vogliamo bene agli animali; vogliamo bene agli animali, ma nello stesso tempo vogliamo bene all'uomo, dobbiamo anche riuscire ad avere una scala di valori.
Quindi penso che la catechesi sia importante in ogni stagione della vita; noi molte volte la limitiamo alla prima Comunione e alla Confermazione, ma fate un po' questo esempio: quante cose noi abbiamo imparato dopo i dodici anni? Un film, un libro, un teatro, un viaggio... quante cose abbiamo imparato della vita, siamo cresciuti! E invece, sulle cose della Fede, noi siamo rimasti, molte volte, a dodici anni, l'età della Confermazione, non tenendo conto che la catechista faceva i salti mortali per parlare a dei bambini che avevano dai sette ai dodici anni, e in più aveva magari una classe che non stava in ordine, per cui non poteva nemmeno concentrarsi su quello che diceva. Siamo cresciuti su tutto, ma siamo rimasti rachitici sulla Fede. Adesso noi abbiamo davanti l'Anno della Fede, e in diocesi dobbiamo cercare di fare qualcosa, stiamo partendo, proprio perché molte volte il cattolico ha dei complessi di inferiorità. Vi faccio un esempio: se uno dice a quattordici anni "Io non credo" gli si risponde "E' uno che si pone i problemi; se uno a quattordici anni dice "Io credo" gli si risponde "Credulone!". Certe volte noi perdiamo di vista dei fondamentali che bisogna recuperare, cercare di fare il possibile per recuperare.
Quindi Eucarestia, Parola di Dio, catechesi, giovani: io ho segnato solo quello che diceva il parroco. Vengo ora al secondo intervento (*). Non è che il prete possa decidere quello che ha deciso Gesù Cristo; il Papa, un vescovo, un prete, un catechista, riceve qualcosa che gli è stato dato. Se noi non avessimo niente nei Vangeli sull'indissolubilità del matrimonio potremmo anche dire... Ma nei Vangeli viene posta a Gesù la domanda proprio sul divorzio (Mt 19, 3 / Mc 10, 2). E Gesù risponde in un determinato modo, molto chiaro, tanto che i suoi Apostoli Gli dicono: "Ma se questa è la condizione dell'uomo non conviene sposarsi" (Mt 19, 10). Detto questo, noi dobbiamo pensare che ci possono essere delle situazioni in cui una persona non meritava quello che gli è accaduto matrimonialmente; allora il discorso non è dare le colpe, non è quello di giudicare negativamente; ma neanche di giudicare in altro senso.
Esiste un'appartenenza alla Chiesa, che è quella, diciamo, della Comunione totale, che arriva ai Sacramenti. Poi le spiego un attimo perché l'Eucarestia è preclusa a chi ha in qualche modo infranto il vincolo matrimoniale, perché poi ci sono anche dei gradi di affermazione che noi dobbiamo conoscere. La persona che ha subito il divorzio, se si mantiene fedele a quel legame, può continuare ad accostarsi alla Comunione e testimonia ad oltranza in modo massimo l'indissolubilità del matrimonio. Pensi ad un coniuge che ha subito una situazione matrimoniale di frattura e, nonostante questo, rimane fedele.
Ci può essere il caso di chi ha contratto il matrimonio non avendo coscienza, consapevolezza, di quello che faceva. Il matrimonio è un atto umano: gli atti umani richiedono consapevolezza e libertà. "Non sapevo quello che facevo", ho escluso qualcosa di costitutivo del matrimonio. Ci può essere anche un matrimonio che va male e che si verifica che è nullo. Ma potrebbero esserci, ed è la maggioranza, forse, di matrimoni che vanno male e che non sono nulli. Allora, dal punto di vista pastorale, dobbiamo anche consigliare le persone in questo modo.
Mettiamo però il caso in cui un matrimonio si è frantumato e le due persone hanno fatto delle scelte matrimoniali di altro tipo. Allora, nel caso di queste persone: che cos'è il matrimonio? Il matrimonio è, lo dice San Paolo nella Lettera agli Efesini, al capitolo quinto: l'unione uomo-donna è un mistero, dice San Paolo, cioè un sacramento, un segno efficace di un'altra unione, Cristo-Chiesa (Ef 5, 32). Quindi
se si viene meno in questa fedeltà non si può celebrare l'Eucarestia, che è l'incontro di due fedeltà: l'uomo e Cristo. Allora, proprio perché c'è una opposizione a quella che è la sostanza del matrimonio, dobbiamo fare degli esami di coscienza nel preparare bene, soprattutto le nuove generazioni, al matrimonio. Allora io sono d'accordo quando un parroco si pone il problema se una persona è pronta a ricevere un sacramento; sia per quello che riguarda la prima Comunione, sia per quello che riguarda la Cresima, sia per quello che riguarda il Matrimonio. Perché certi matrimoni possono nascere sbagliati in quanto non c'è la maturità sufficiente in due persone, perché il matrimonio è una scelta coinvolgente, una scelta pesante. Allora noi dobbiamo anche far capire che il matrimonio va preparato; certi fallimenti matrimoniali non ci vuole un'esperienza di trent'anni di prete per prevederli. [...] Certi matrimoni spaccati sono già spaccati prima di nascere, bisogna capire che è un passo che va soppesato. Noi, molte volte, incominciando anche dal Sacramento della Confermazione o dal Sacramento della prima Comunione, dobbiamo riflettere non per spaventare o per far credere alle persone che le cose siano impossibili, ma preparare con consapevolezza.
Però ritorniamo al discorso in cui c'è il matrimonio rotto e con una scelta incompatibile con quello che è il Vangelo, perché io ci tengo a dire: è il Vangelo, è Gesù Cristo! E' lecito o no separarsi dalla propria moglie (perché al tempo di Gesù era inconcepibile che la donna si separasse dall'uomo)? Gesù dice che non è possibile, e loro gli rispondono: "Ma Mosè lo ha concesso". E Lui ha detto: "Per la durezza del vostro cuore, ma all'inizio non era così" (Mt 19, 8). Quindi non è che ci sia la scelta di un parroco, di un papa o di un vescovo, c'è la scelta di Gesù Cristo; questo deve essere chiaro, perché quello che lei pone è un problema gravissimo: io vado da un prete e mi sento dire "Fai la Comunione", vai da un altro prete e mi sento dire "No, non la puoi fare"; leggo un libro che mi dice che non si può fare la Comunione e ne leggo un altro che mi dice che si può fare la Comunione.
Quello che noi dobbiamo dire è questo: esiste una appartenenza alla Chiesa per gradi concentrici; la Comunione è l'espressione massima del legame. Le persone che hanno una situazione matrimoniale, diciamo, in contrasto, non è che siano delle persone che non possono entrare in chiesa, non è che sono persone che sono indicate a dito, come dire "Guarda, quello è un pubblico peccatore". No, qui veramente non bisogna giudicare, e bisogna trovare dei percorsi di accoglienza e di partecipazione nella vita ecclesiale che però non pretendano di annullare il significato dell'Eucarestia che è proprio espressione di un amore totale, di un dono totale.
Ci possono essere anche delle situazioni di frattura di matrimonio in cui la responsabilità è attenuata, la responsabilità è ridotta; non tutti hanno la stessa resistenza, capacità, perché rimanere soli da giovani è difficile, poi molti di noi possono avere dei parenti, dei figli, dei conoscenti che sono in questa situazione. Non è che si tratta di giudicare e non si tratta neanche di emarginare: hanno cittadinanza nella Chiesa. Si dice semplicemente: fintanto che c'è questa situazione non si può accedere alla comunione; però puoi pregare, puoi venire a Messa, puoi partecipare alla catechesi, puoi fare vita di carità.
C'è un livello in cui il prete non può decidere cose che sono state decise da Gesù Cristo. I confratelli che ragionano in un certo modo mettono in difficoltà gli altri, perché "quello è bravo, quello ha capito", "l'altro è duro". Molte volte, io ho conosciuto dei sacerdoti molto buoni, molto sacerdotali, più di altri che erano in polemica con tutti, col Papa innanzitutto, e con altri, come il vescovo, che però indicano la strada più facile. Quando mi vedrete dare le Cresime capirete che ho fatto una scelta: durante le Cresime voglio dire le cose importanti, che reputo importanti, per i genitori, per i ragazzi, per i catechisti e per la comunità; quindi non dire delle cose originali. Ai ragazzi molte volte dico: "Che cos'è la libertà?". Noi, purtroppo, siamo in un contesto in cui la libertà è "fai quel che vuoi". Ma dobbiamo anche avere la capacità, ad uno che dice "faccio quello che voglio", di dire "sei capriccioso". La libertà non è fare quello che si vuole; se io, a un certo punto, voglio andare contromano, perché è più breve la strada per arrivare a casa ed ho fretta, non sei libero. Allora chi fa quel che vuole è un capriccioso; e ai ragazzi dico: papà e mamma si alzano al mattino perché ne hanno voglia o perché hanno un progetto di vita? Si alzano al mattino perché hanno un progetto di vita, che magari siete voi, il loro progetto di vita ha il vostro nome o dei vostri fratelli; ma mettersi la sveglia alle sei lo fanno perché sanno che è bene farlo, perché devono pensare alla loro famiglia, perché devono crescere i loro figli. Se vostro papà e vostra mamma avessero l'idea di dire "la libertà è faccio quello che voglio" chiuderebbero la sveglia e dormirebbero fino alle dieci.
Allora la libertà è avere un progetto e realizzarlo; soprattutto, io sono libero quando realizzo un progetto faticoso: ecco la vera libertà. Noi i nostri ragazzi li lasciamo in balìa di questi messaggi; per cui molte volte nelle Cresime mi sentirete dire: "molte volte, per fortuna, la strada più facile è anche quella vera e giusta, ma non è sempre così". Il criterio non è la strada più comoda o più facile, ma è la strada più vera, la strada più giusta; forse noi manchiamo di una formazione catechistica, spirituale, affettiva dei nostri ragazzi, viviamo nella società dell'effimero. [...] Pensate un po': quarant'anni fa uno che doveva scrivere un messaggio doveva prendere carta e penna, scrivere, piegare la lettera, metterci il francobollo, spedirla e aspettare due giorni che arrivasse... Prima di parlare si pensava! Adesso con un messaggio non è più così, e i nostri ragazzi si abituano a questo, a un mondo virtuale. Io non dico che non bisogna giocare con i videogames, si può giocare; ma voi sapete che c'è anche una dipendenza e si crea un mondo virtuale, per cui, a un certo punto, se ho diciotto-vent'anni esco in macchina e non ho la percezione della strada.
Ecco, affettivamente è lo stesso, quando una persona arriva al matrimonio ed ha passato venti ragazze, o venti ragazzi. Io sorrido, ma rimango molto perplesso quando una mamma va a prendere il bambino all'asilo e dice: "Mio figlio ha la fidanzatina"; a tre anni la fidanzatina? Non è che ci veda niente di male, ma è una diseducazione. Perché un'altra cosa importante da dire e che ai nostri ragazzi noi rubiamo le stagioni della vita. Ora io non so se era l'ottimo, ma quando io ero bambino si andava a letto a Carosello; c'erano delle cose che erano delle conquiste. Adesso io ho provato a vedere delle scene di bambini ripresi lasciati soli alla televisione che imitano fisicamente le scene che vedono [...].
Allora capite bene che possono esserci le fratture dei matrimoni, e sono anche un fatto fisiologico, tante volte non colpevole: allora è lì che Dio giudicherà. Perché è anche differente la situazione di chi ha fatto il possibile per mantenere il proprio matrimonio da chi ha fatto l'impossibile per romperlo; e lì sarà Dio che giudicherà. A noi, come Chiesa, spetta accoglierli, farli sentire a proprio agio: per esempio, invece di dire "puoi fare la Comunione", si può dire "guarda che esiste la Comunione spirituale", e la Comunione spirituale non è da sottovalutare; esiste un mondo di vita cristiana in comunità.
Vi faccio una piccola confidenza: a me farebbe piacere più che dare le Cresime - ma capisco bene che essendo vescovo le devo dare - dare le prime Comunioni, perché le poche volte che, da vescovo, cadeva, o nella visita pastorale o altro, di dare le prime Comunioni, potevo spiegare ai bambini come si riceve l'Eucarestia, dire, ai genitori e alla comunità, valutiamo e riscopriamo i momenti di silenzio. Io ho provato all'anno sacerdotale, con il Papa e quindicimila preti in Piazza San Pietro, a fare mezz'ora di adorazione: guardate che una comunità in ginocchio e in silenzio è una catechesi. Pensate se una persona che non ha la Fede cattolica dovesse credere e capire qualcosa dell'Eucarestia entrando in una nostra assemblea: arriverebbe a pensare che lì c'è il Signore? Ecco, allora, che noi dobbiamo riscoprire tutto questo, non giudicare nessuno, accogliere tutti.
Nella Chiesa antica, il ritorno a Dio dopo un peccato grave era una cosa laboriosa che impegnava anni; si entrava nell'ordo penitentium: si andava dal vescovo, si diceva il peccato - ma non pubblicamente -, il vescovo lo ascoltava e, se era un peccato grave dava un cammino di penitenza, di conversione. Poteva durare tre, quattro, cinque anni; certe mancanze di certi preti potevano comportare il fatto di non poter più esercitare il sacerdozio. Mancanze serie chiedevano, per esempio, due o tre anni di avvicinamento, lasciato il peccato: un cammino di penitenza e di conversione. Allora, per esempio, c'erano i cristiani che erano cristiani, erano battezzati, ma avevano rotto la Comunione con dei peccati gravi, che potevano essere il furto, l'omicidio... Queste persone non potevano accedere alla Comunione anche quando chiedevano perdono, e iniziavano un cammino, che poteva durare anni, di avvicinamento. Era bello vedere che nella comunità alcuni, per esempio, non potevano entrare in chiesa, stavano fuori mentre si celebrava l'Eucarestia, e chiedevano, a coloro che potevano partecipare all'Eucarestia, di pregare per loro, di ricordarli all'altare. Ma loro non erano in polemica, avevano iniziato un cammino; poi alla tappa successiva entravano in chiesa e ci stavano fino all'offertorio, e quando l'Eucarestia diventava più sacra, il momento culminante, loro si accomiatavano, uscivano. Poi c'era un'altra tappa: partecipavano a tutta l'Eucarestia ma non facevano la Comunione. Poi a Roma il giovedì santo, in genere, e in Spagna il venerdì santo, dopo due anni o tre anni di cammino, se il peccato era molto grave, venivano assolti e allora potevano partecipare a tutta l'Eucarestia. Allora capite che l'Eucarestia aveva un valore: se io metto insieme l'Eucarestia in qualunque condizione sono, cosa vuol dire? Che non do nessun valore a quel gesto!
Concludo; sento dire, molte volte, che Gesù ha detto: "Prendetene tutti". E' vero: "Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo" (Mt 26, 26-29), è vero che l'ha detto. Ma chi fa queste esegesi frettolose, affrettate, si dimentica che Gesù prima ha fatto la lavanda dei piedi; e a chi gli diceva "Non lavarmi i piedi", diceva: "Non avrai parte con me" (Gv 13, 8). Ricordate Pietro: "Allora, Signore, lavami tutto" (Gv 13, 9). Allora stiamo attenti: l'Eucarestia è per tutti, ma ci vogliono delle condizioni, che ci permettono anche di cogliere il valore dell'Eucarestia. Il non poter partecipare all'Eucarestia, il rimettere la situazione di una persona nelle mani del Signore, che è l'unico Giudice, questo ci dà la sicurezza di non fare delle differenze o dei giudizi, di abbracciare tutti nella vita ecclesiale: puoi fare la carità, puoi partecipare all'Eucarestia, senza ricevere la Comunione ma puoi partecipare, puoi avere una vita di preghiera, puoi fare catechesi, puoi incontrare gli altri. Perché dobbiamo violentare l'Eucarestia?
Ecco, io mi limito a dire questo perché anch'io son stato prete, anch'io ho dovuto ascoltare confessioni di persone che mi facevano presenti anche situazioni molto difficili - una volta sola uno mi ha risposto male -; tutte le altre volte mi hanno detto: "Ma se è così sono contento di iniziare". Certo, poi noi preti dovremmo avere più carità, più pazienza, più ascolto; certo non si può dare l'Assoluzione però si può fare direzione spirituale a questa gente: non ti posso dare l'Assoluzione però ti accompagno spiritualmente. Forse, in questo momento e in questo cammino, poi si fa chiarezza nella mente della persona.
Ora, ci potrebbe essere anche il caso in cui delle persone sono sposate, è passato il tempo e vivono tra di loro in modo casto; si può anche fare un cammino in cui il direttore spirituale può aiutare. Questo è rischioso, lo capisco, ma si può fare: se c'è un vero proponimento e la cosa è portata avanti (non, per dire, faccio la Comunione e poi torno indietro). Ecco, se si rimuove la possibilità di scandalo, perché realmente queste persone vivono in modo casto, e ci sono dopo una certa età questi tragitti, lì è possibile fare la Comunione; però che sia rimosso lo scandalo e che veramente queste persone vivano castamente.
Io dico: la Misericordia di Dio è grande; a noi cercare di metterci a disposizione di questo cammino, di questa disponibilità, e sono convinto che uno trovi anche la serenità e trovi anche una sua collocazione nella Chiesa.


(*) Il secondo intervento, posto da una parrocchiana, chiedeva delucidazioni in materia della Dottrina della Chiesa sulla Comunione alle persone che non si trovano in una posizione regolare per quanto riguarda il matrimonio.

venerdì 27 aprile 2012

Visita del Patriarca - L'omelia alla Messa

Sia lodato Gesù Cristo.

E' una gioia quella di poter incontrare una comunità numerosa, una comunità che esprime la gioia di trovarsi intorno all'altare col proprio vescovo. Questa è la vera forza della Chiesa: il vescovo con il suo popolo. Ed è bello che ci si trovi di fronte a un popolo che è fatto di bambini, che è fatto di adolescenti, che è fatto da papà e mamma, che è fatto da anziani; perché la prima caratteristica di una comunità deve essere quella della presenza di tutti. Se avessimo solo i bambini sarebbe una ricchezza, ma mancherebbero i genitori; se avessimo solo gli anziani - quanto sono preziosi gli anziani, pensiamo ai nonni: certe volte, in certi periodi, sono addirittura degli ammortizzatori sociali, altre volte no, altre volte gli anziani debbono essere accuditi - però, quello che voglio sottolineare è questo, è importante che nella comunità ci siano tutti. E' chiaro che i membri della comunità possono essere anche feriti; e siamo in un momento in cui tante cose, anche dal punto di vista religioso, della Fede, non ci vengono semplici, ci possono essere delle fratture; ma la Chiesa accoglie tutti, la Chiesa vuole che tutti si sentano accolti. Allora è importante che, nella comunità ecclesiale, ci sia accoglienza, ci sia spazio, ci sia la presenza di tutti. Vedete, molte volte noi, sbagliando, ci poniamo di fronte alle situazioni in questo modo: ma se vado, che cosa dico? Non so cosa dire! Ma se vado a questo incontro ho qualche ferita da nascondere! Guardate, la cosa più importante è vincere queste paure; la cosa più importante, in un incontro, non è quello che io dico, non è la bella figura che io faccio, ma è esserci: perché con la mia presenza, col mio silenzio, col mio sorriso, posso aiutare gli altri; qualche volta li posso aiutare con qualche parola.
Vi dico, siete la prima comunità parrocchiale che io incontro da Patriarca di Venezia in questi incontri infrasettimanali per conoscere la comunità; sì, qualche Cresima l'ho già data, sia a Venezia sia a Mestre, ma voi siete, la comunità di Caorle di Santo Stefano, la prima comunità che io incontro per fare amicizia, per non essere estranei, per poter iniziare confortati reciprocamente un cammino di Chiesa. E la prima cosa che vi voglio dire è proprio questo: guardate che bella chiesa che avete! Vedete, quando si hanno le belle cose ci si abitua e non si percepiscono più come belle. Voi sapete che io sono genovese; il seminario di Genova è sulle alture di Genova, si domina tutta la città; pensate che, addirittura, dall'ultimo piano, nelle giornate particolarmente terse, al mattino presto si vede la Corsica. Io, la prima volta che sono andato in seminario, perdevo tempo dalla finestra; gli ultimi anni di seminario non mi accorgevo neanche più del panorama stupendo che avevo. Voi avete una bella chiesa; voi siete anche una bella comunità, perché siete tanti, perché ci sono i bambini, dicevo, perché ci sono gli adulti, perché ci sono anche dei volti segnati da delle rughe, perché ci sono dei capelli bianchi: questa è la bellezza della comunità. In chiesa sono a casa mia; certo, c'è il parroco, che celebra l'Eucarestia, che è insostituibile, ma la chiesa è la mia casa. Ecco, io vorrei che i momenti importanti della vita ecclesiale - la preparazione alla prima Confessione, la preparazione alla Comunione, la preparazione alla Confermazione - siano proprio momenti in cui la comunità si riscopre. Che dei bambini si accostino per la prima volta alla Comunione è una cosa che tocca: sono i bambini della mia parrocchia, si stanno preparando. E lo stesso per la Confermazione, lo stesso per i Battesimi: ecco, io vorrei veramente una comunità che si lascia prendere, intrigare dalla vita parrocchiale. Perché, vedete, la cosa triste è che si ragioni così, e molte volte succede: finché non hai cose importanti da fare vai in chiesa, poi iniziano le cose importanti della vita e allora Dio non esiste più; se va bene c'è l'età della pensione. Allora in chiesa abbiamo i bambini e i vecchi: questo no, questo non lo dobbiamo accettare. Allora la prima cosa per cambiare, se ci fosse, questa tendenza è proprio esserci: non è importante quello che io dico, è importante che io ci sia, con la mia presenza; poi, ripeto, da cosa nasce cosa.
Ecco, io vi do un brevissimo pensiero sulla prima lettura e il Vangelo. Abbiamo ascoltato, nella prima lettura, che un diacono, Filippo, è mosso dallo Spirito Santo e va a incontrare un uomo, un etiope, un ministro della regina Candace, un uomo importante, che era curioso delle cose di Dio. Qui c'è l'immagine dell'evangelizzazione di sempre: un papà, una mamma, un sacerdote, un catechista che evangelizzano sono sempre dei mandati. Io non sono qui per caso: se ci crediamo, alla fine qui mi ha mandato il Signore. E il Signore suscita nel cuore di ogni uomo la curiosità; quell'etiope leggeva il libro di Isaia e non capiva, ma era curioso tanto che Filippo gli chiede: "Ma capisci?". "Ma come posso capire se non c'è nessuno che mi spiega". Ecco la comunità: noi siamo dei mandati; quando noi prendiamo le nostre iniziative di catechesi, di pastorale, quando una mamma insegna a un bambino i rudimenti della Chiesa, come fa? Lo porta in chiesa e gli dice: "Quello è il Crocifisso". E, per un po', il bambino ha altro per la testa; però, intanto, nel bambino c'è l'immagine della mamma che entra in chiesa e che gli fa vedere il Crocifisso. Quante volte mi è capitato, quando ero vice-parroco, vedere delle mamme che, prendendo il bambino all'asilo, lo portavano in chiesa e assistevo a delle scene ridicole, a degli accucciamenti che erano la genuflessione; però, vedete, si dà la Fede in questo modo. Quante volte, parlo a chi è un pochino più anziano, abbiamo imparato la preghiera del Rosario perché la nonna, o la mamma, la sera ci radunava; magari lo si diceva un po' in fretta, magari non lo si diceva benissimo, ma lo si diceva! Ecco, noi dobbiamo capire che siamo mandati agli altri; e che gli altri sono sostenuti da quella Grazia di Dio che è quella curiosità. Questo etiope: "Come potrei capire? Nessuno me lo spiega". Quante volte certe persone hanno quella curiosità di Gesù, del Signore, di Dio, ma non hanno una persona che spieghi: ecco, la nostra comunità deve sentirsi impegnata; se ci fossero anche tutti ma mancassi io c'è una nota stonata. "Ma io sono stanco, ma io non ne ho voglia, ma non questa domenica"... no, vacci! Da cosa nasce cosa, e certe volte degli incontri a cui non davamo importanza segnano e cambiano la nostra vita.
Allora noi accompagniamo la Comunità con la nostra presenza e, soprattutto, cogliamo le occasioni dei grandi avvenimenti liturgici e sacramentali della nostra comunità. Questa è la festa della Fede.

Sia lodato Gesù Cristo.

mercoledì 25 aprile 2012

Festa di San Marco - Omelia del Patriarca

Celebrare la festa di san Marco evangelista significa riprendere in mano la nostra storia; San Marco, infatti, è stato, per circa mille anni patrono della Serenissima. Egli, così, richiama l’identità veneziana che si caratterizza, da sempre, come volontà d’incontro, di scambi culturali e commerciali, di viaggi; una ricchezza che non è solo economica ma umana, culturale, artistica, spirituale.
In tal modo, san Marco, ci ricollega all’Oriente - la Terra santa -, all’Egitto - la città di Alessandria - di cui l’evangelista secondo un’antica tradizione fu vescovo. Ssoprattutto, però, Marco ci riporta, attraverso il suo vangelo, al Signore Gesù che da lui viene presentato, fin dall’inizio, come il Figlio di Dio. In Marco, che ci unisce all’Oriente ma soprattutto alle origini del cristianesimo, c’è la profezia di quello che, nei secoli, sarebbe diventata la nostra città, la Regina dell’Adriatico, la Dominante, la Serenissima.
Per questo oggi, in un’epoca di difficoltosa transizione con la quale il nostro territorio e la nostra città devono fare i conti, i veneziani non possono guardare a San Marco chiedendogli solo una generica protezione ma devono più che mai domandargli il coraggio e l’intraprendenza per guardare al presente e al futuro con più forza e ottimismo.
I momenti di crisi, infatti, sono tempi in cui, a tutti, viene chiesto di dare di più, non di meno, d’essere più coraggiosi e meno timorosi. In particolare bisogna non cedere alla tentazione dell’individualismo, anzi impegnarsi a “far rete” e a guardare insieme alle scelte che riguardano l’interesse generale e che non parlano la lingua di una sola parte o, addirittura, di una parte contro l’altra ma, piuttosto, il linguaggio complesso e variegato del bene comune, con particolare attenzione al mondo del lavoro, della famiglia, dei giovani; soggetti che, in modi diversi, oggi sono messi a dura prova.
Come membri della comunità religiosa e civile siamo convinti che sia necessario fare appello a tutte le risorse morali e spirituali per guardare, con più serenità e determinazione, al presente e al futuro. Non si può cedere allo sconforto, non possiamo vivere il tempo che ci è stato dato, come una condanna. Al contrario, il tempo che ci è stato dato da vivere è qualcosa in cui dobbiamo abitare dando il meglio di noi stessi, per lasciare, a chi verrà dopo, i frutti della nostra fatica, del nostro coraggio, della nostra fantasia.
Il nostro protettore Marco, non fece parte della cerchia apostolica - ossia dei Dodici - ma, attraverso il legame con essi e in modo particolare con l’apostolo Pietro - fondamento degli Apostoli e di tutta la Chiesa - ci trasmette quello che viene considerato il secondo vangelo; in esso abbiamo la testimonianza ecclesiale di tutte le cose dette e fatte da Gesù per noi.
Nell’odierna, solenne, ricorrenza dell’evangelista che, come da calendario, cade in tempo pasquale, vogliamo soffermarci su un aspetto importante riguardante le apparizioni con cui il Signore risorto si manifesta ai suoi. In Marco, come d’altronde negli altri evangelisti, gli incontri col Signore risorto costituiscono e legittimano la Chiesa che appare come la comunità che nasce dalla sua morte/risurrezione e dal dono dello Spirito Santo.
Il Vangelo di Marco termina con una duplice conclusione; la seconda costituisce - come è noto - un’aggiunta successiva, pur essendo, a tutti gli effetti, ispirata e canonica.
In tal modo il vangelo che abbiamo appena ascoltato, proclamato dal diacono, vuol garantire che, una volta asceso al cielo, il Signore Gesù non è più visibilmente accessibile ai suoi. Allora, a Lui, subentreranno gli Undici, ossia, la Chiesa, che proprio da Lui, e tramite gli Undici, riceve il mandato missionario: “Apparendo agli Undici , Gesù disse loro: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.
Ma, dopo aver detto che, al posto di Gesù, vi è la santa Chiesa - ossia gli Undici mandati in missione dal Risorto -, il vangelo di Marco ne vuole proclamare l’indefettibilità, ossia, il suo “non venir meno” a causa del male, con cui, in ogni epoca, essa dovrà fare i conti, misurandosi con presenze che le si opporranno non solo dall’esterno ma, purtroppo, anche dall’interno.
Il prosieguo del brano evangelico odierno ci aiuta a comprendere tutto questo: “Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, e se berranno qualche veleno, non recherò loro danno; imporrano le mani ai malati e questi guariranno” (Mc16,17-18).
Queste affermazioni non vanno intese pensando che gli apostoli e i loro successori saranno dei super-uomini o persone dotate di poteri magici, una specie di prestigiatori da spettacolo. Non saranno niente di tutto questo.
Al contrario, il vangelo di Marco descrive, in estrema sintesi, quello che attraverso generi letterari fra loro differenti, occupa due interi libri del Nuovo Testamento: gli Atti degli Apostoli e, soprattutto, l’Apocalisse.
Infatti, i due versetti che chiudono il Vangelo di Marco ci dicono, servendosi di immagini: “Scacceranno i demoni… prenderanno in mano i serpenti… se berranno qualche veleno non recherà loro alcun danno…”.
Ciò significa che, alla fine, la salvezza ottenuta da Cristo sulla croce, e affidata alla sua Chiesa avrà - nonostante le tante sofferenze e persecuzioni - la meglio. Le porte degli inferi non prevarranno! Non a caso il libro degli Atti degli Apostoli s’interrompe proprio quando la salvezza raggiunge Roma che, all’epoca, era il centro e insieme il simbolo della totalità del mondo, mentre il libro dell’Apocalisse, dopo la narrazione di tante persecuzioni e sofferenze da parte delle Chiese e dei discepoli, termina con l’invocazione della Sposa - ossia la Chiesa - e dello Spirito che insieme dicono: vieni Signore Gesù!
Per noi, che ci rallegriamo della protezione dell’evangelista Marco, la lettura meditata del suo Vangelo, in questo tempo pasquale, diventi il modo in cui vogliamo entrare personalmente e comunitariamente, di più e meglio, nella sua protezione.
Ricordiamo, ancora, che cento anni fa, come oggi, s’inaugurava il ricostruito campanile di san Marco; infatti, proprio il 25 aprile 1912, alla città e ai veneziani, veniva restituito el paron de casa che, con le sue cinque campane ne ritmava e animava la vita; così, dopo dieci anni dal crollo del 14 luglio 1902, il
grande campanile, piantato al lato della Basilica, tornava a presidiare una delle più belle piazze del mondo, per noi veneziani, la più bella piazza del mondo.
Infine, oggi, è mio vivo desiderio anche a nome di tutta Chiesa veneziana, porgere gli auguri al carissimo patriarca Marco, la Vergine Nicopeia lo sostenga sempre con la sua tenerezza di Madre.


Fonte: patriarcatovenezia.it

Allarme: sondaggio sul Crocifisso in aula

Riprendo e diffondo volentieri questo appello apparso sul blog Cantuale Antonianum, invitando a mia volta tutti i lettori del blog a votare "Sì" e diffondere a loro volta.

Mi avvisa un utente che sul quotidiano trentino "L'Adige", è stato lanciato un sondaggio che chiede: "Il crocifisso nella aule scolastiche, va messo?". Nonostante ormai tutti sappiano che la risposta "legale" è "il crocifisso deve rimanere dov'è", è bene che ciascuno vada a cliccare sul "Sì", per ribadire anche in questi sondaggi online che la maggioranza cristiana esiste e vuol farsi sentire.
Quindi contribuite con il vostro click a far entrare in circolo l'idea che il crocifisso sta benissimo nelle aule scolastiche.
Qui il link a cui trovare il sondaggio: http://www.ladige.it/sondaggi/crocifisso-aule-scolastiche-va-messo.

Testo preso da: Allarme sondaggio: contribuite con i vostri voti a far appendere i crocifissi nella scuola http://www.cantualeantonianum.com/2012/04/allarme-sondaggio-contribuite-con-i.html#ixzz1t4mRzyYN
http://www.cantualeantonianum.com

martedì 24 aprile 2012

Il Patriarca in visita alla nostra parrocchia

Ad un mese dal giorno del suo ingresso e della solenne presa di possesso del Patriarcato, avvenuti lo scorso 25 marzo nella solennità dell'Annunciazione, Sua Eccellenza Reverendissima mons. Francesco Moraglia, Patriarca della nostra Chiesa di Venezia, giovedì 26 aprile verrà in visita nella nostra parrocchia del Duomo di Caorle: speriamo sia la prima di molte altre visite nel nostro territorio! Questo il programma di massima della visita: intorno alle 17:30 il Patriarca Francesco farà il suo arrivo in parrocchia e verrà accompagnato a fare un rapido giro del territorio parrocchiale fino ai suoi confini. Intorno alle 17:45 si tratterrà in colloquio con i sacerdoti della nostra parrocchia: il parroco mons. Giuseppe, don Antonio e il diacono don Francesco.
Gli appuntamenti pubblici, a cui tutti noi siamo invitati, cominceranno alle 18:30 con la Santa Messa in Duomo celebrata dal Patriarca, di certo il momento centrale di questa prima visita di mons. Moraglia. Malgrado il giorno infra-settimanale, invitiamo tutti i fedeli, soprattutto parrocchiani, ad assistere a questa Santa Messa, se non impediti da impegni lavorativi.
Alle 19:30, terminata la Messa, ci ritroveremo tutti insieme per un Buffet in patronato, durante il quale chi lo desidera potrà salutare e trattenersi per un breve tempo con il Patriarca in un momento conviviale.
Seguirà, intorno alle ore 20:00, l'assemblea parrocchiale in Duomo, aperta a tutti i parrocchiani e particolarmente raccomandata ai membri dei gruppi parrocchiali (come Gruppi di Ascolto, ragazzi e catechisti del Catechismo, membri del coro, gruppo Caritas e tutti coloro che svolgono particolari servizi); sarà questo il momento dove presentarci come parrocchia al nostro pastore e padre, senza volerci soffermare sulle difficoltà e sui problemi, che saranno oggetto delle prossime assemblee parrocchiali con il Patriarca.
Nell'attesa di questo momento, in trepidante attesa, preghiamo il Signore per la Chiesa intera, per il Papa ed anche per il Patriarca, perché doni loro forza e salute per sostenerli nei compiti che ha loro affidati; e poniamoci tutti sotto il manto della Madonna dell'Angelo, perché ci guardi con materna bontà, ci protegga da ogni male e doni serenità e pace alla nostra città e alla nostra diocesi di Venezia.

lunedì 23 aprile 2012

Non siamo cristiani tiepidi!

Voglio fare mie le parole di quest'omelia di Padre Juan Pablo Esquivel, che traggo dal blog Sursum Corda e che ci parla di alcuni comportamenti comuni nel mondo di oggi che puntano a screditare Gesù Cristo offendendo e calunniando la Sua Chiesa, spesso nella persona del Papa e spesso da parte di persone che si ritengono i più perfetti cristiani del mondo, i veri seguaci dei veri insegnamenti di Cristo. Le parole di questa omelia sono un po' dure, ma assolutamente necessarie per svegliare le nostre coscienze, alla stregua del rimprovero di un amorevole genitore nei confronti dei suoi figli. Ve ne raccomando la lettura (o l'ascolto), in particolare a coloro che sono giunti a questo post dai profili Facebook.

Io, sacerdote, scandalizzato
Di Padre Juan Pablo Esquivel

Io che per voi sono sacerdote, ma con voi sono cristiano, qualche volta mi scandalizzo. Poche volte… e non sono le debolezze umane a scandalizzarmi, piuttosto l'arroganza ridicola e assurda di chi pretende di essere qualcuno o qualcuno importante. Questo mi scandalizza. Di chi pretende di sapere più di coloro che sanno davvero e questo è il segno della più patetica di tutte le ignoranze. E questo mi scandalizza. Dirsi cristiano o cristiana e poi infischiarsene olimpicamente di quanto la Chiesa, nella voce dei legittimi pastori professa, difende e insegna. Questo mi scandalizza. Parla duro, oggi, il Signore nel Vangelo e, scusatemi, per oggi parlerà duro anche questo Suo sacerdote.
Mi scandalizza l'atteggiamento, balordo e maleducato, di chi, dicendosi cristiano o cristiana non sa trattare con un minimo di rispetto e considerazione il Papa, i Vescovi, i ministri di Dio. Mi scandalizza l'incoerenza brutale di troppi cattolici che nella vita pubblica e nel modo di trattare gli altri disdicono con patetica sfrontatezza tutto quanto poi vengono a "professare", tra virgolette, in chiesa. Mi scandalizza la madornale stupidità di chi usa internet per rinnegare la propria appartenenza alla Chiesa, affrettandosi ad appoggiare il primo scemo che abbia qualcosa da dire contro la Chiesa. "Il Papa venda il suo anello per sfamare gli affamati del Congo". Andiamo a mettere in vendita, all'asta, la Pietà, così sfamiamo la gente di chissà dove… e andando non solo a sottoscrivere, ma anche a condividere pornografia, bestemmi e scelleratezze ed esserne fiero. Questo mi scandalizza. Così facendo non sono né freddi né caldi, né cristiani né atei… sono tiepidi. Ebbene, col Libro dell'Apocalisse io vi ricordo che "i tiepidi saranno vomitati dalla bocca di Dio." E dico tutto questo non nascosto dietro la sicurezza vigliacca di un computer, nel soggiorno della propria casa, ma dalla cattedra più sacra che ci sia in questo Paese, dalla cattedra della Parola di Dio. Mi scandalizza che ben lungi dal prendere decisioni coraggiose, anche radicali - il Signore parla oggi di tagliare una mano, un occhio, un piede - per il bene della propria salvezza eterna, preferisce tagliare e ritagliare il tempo della preghiera, della messa, della catechesi, dell'adorazione, della confessione e di tutto quanto mantiene effettivamente viva la propria fede. Il resto non si tocca. Ma in quanto alla fede si riferisce accomodatevi, siamo alla svendita totale. Mi scandalizzano i genitori che, anziché farsi aiutare dagli altri educatori, anche quelli dell'ambito della fede, tagliano ogni eventuale correzione o richiamo, generando così piccoli bulli e teppisti, totalmente impreparati per la vita e destinati con ogni probabilità al più strepitoso fallimento in tutti i campi della vita. Altro che genitori… Complici! I primi e inescusabili responsabili della vita sciupata dei figli, che pensano che il parroco debba essere un simpaticone disposto a fare tutti gli sconti immaginabili se vuole che il figlio o la figlia vengano alla catechesi. Ebbene, capitelo bene, una volta per tutte, il parroco non è qua per accontentare tutti, ma per insegnarvi l'ardua e impegnativa via della salvezza. Di tagli parla oggi il Signore. Bene! Io ve ne suggerisco la versione aggiornata. Si tagli la lingua chi la usa per diffamare, per spettegolare, per calunniare, per uccidere. Tagli la linea telefonica chi la usa per distruggere l'unità delle famiglie, delle comunità, delle persone. Tagli la connessione di internet chi la usa per rimanere "appoltronato" nella mediocrità di un mondo virtuale nel quale di impegno o apporto positivo non c'é proprio nulla, tranne che un patetico cyber-fannullare che fa perdere in modo penoso il senso della realtà, nonché dare una patetica visione dei propri squallidi interessi. Dia un taglio alla superficialità, alla banalità, alla vanità, alla superbia petulante chi vive chiuso nel proprio egocentrismo, incapace di scoprire quanta silenziosa sofferenza si aggira nel nostro mondo, nel nostro tempo. L'ultima frase del Vangelo odierno parla dell'Inferno, del quale io vi parlo sempre molto poco perché preferisco orientarvi in positivo, ed è una scelta che mantengo, evidentemente, ma più di una pecora insolente farà bene a ricordare oggi e ogni tanto, la drammatica possibilità che incombe sulla vita di ognuno di noi. Lo stesso Signore che insegna oggi che chi non è contro di noi è per noi, è quello che dice, senza contraddirsi, che chi non è per Lui è contro di Lui. E che chi non raccoglie con lui, disperde. Quel Signore che esige decisioni chiare ed effettive, non solo affettive, non solo chi dice "Signore, Signore" entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi compie veramente la volontà del Padre. Quel Signore che attende prese di posizione senza tentennamenti e senza ripensamenti. Nel professare adesso il Credo, io intendo rinnovare a Lui la mia fede assoluta e la mia disponibilità totale alla Sua volontà, fede che si deve dimostrare nell'obbedienza alla Sua Parola. Obbedienza… non è una parolaccia. Obbedienza alla Parola di Dio. Chi non è disposto all'obbedienza della fede… sì, perché la fede implica un'obbedienza, non può essere cristiano. Chi non è disposto all'obbedienza della fede, se ne torni a casa, perché viene in chiesa a perdere il tempo. Chi è disposto, ma non solo adesso, bensì per tutta la vita, a mostrare al Signore la disponibilità della Madonna, degli angeli che rimasero fedeli, dei santi di tutti i tempi, professi allora ad alta voce, con me, il Credo, ma non solo con le labbra, ve ne prego… con il cuore, anzi, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze, come ci insegna il primo comandamento. Amen.

giovedì 19 aprile 2012

Settimo anniversario dell'elezione del Papa

«Annuntio vobis gaudium magnum:
Habemus Papam!
Emintissimum ac Reverendissimum Dominum,
Dominum Josephum
Sanctae Romanae Ecclesiae
cardinalem Ratzinger,
qui sibi nomen imposuit
Benedicti XVI
».

Il 19 aprile 2005, dopo appena un giorno di conclave, veniva eletto al Soglio petrino il cardinale Joseph Ratzinger, che sceglieva il nome di Benedetto XVI. Oggi festeggiamo il settimo anniversario di quell'evento: nel porgere i nostri più fervidi auguri al Santo Padre, ringraziamo il Signore per averci donato papa Benedetto e preghiamoLo affinché ce lo conservi nella salute del corpo e dello spirito, e perché ci renda docili alla sua guida e disponibili ad accogliere tutti i suoi insegnamenti.

Riviviamo quei momenti attraverso i video di quell'avvenimento straordinario ed attraverso i testi delle omelie pronunciate da lui in quei giorni.



Elezione di Sua Santità, papa Benedetto XVI:

martedì 17 aprile 2012

Tanto per diffamare la Chiesa

Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad uno strano paradosso: in una società sempre più moderna e democratica come quella in cui ci dicono che viviamo, la libertà viene talmente portata agli estremi che finisce per diventare il pretesto per giustificare un regime quasi dittatoriale. D'altronde non è una teoria così assurda, se già il filosofo Platone ne parlava: egli asseriva che la tirannide nasce proprio dalla democrazia, allorquando "uno stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e troppo s'inebria di schietta libertà" (Platone, La Repubblica, Libro VIII). Se facciamo bene attenzione è proprio quello che accade nella nostra società odierna: la libertà di pensiero, di stampa e di espressione sono diventate così incontrollabili che si finisce per confonderli con una inesistente libertà all'insulto e alla diffamazione. Dal giornalista al blogger, dall'opinionista al semplice frequentatore di social network; è ormai diffusa la convinzione che libertà di stampa significhi che si può scrivere qualsiasi cosa, senza controllare se quanto si racconta corrisponda o meno a verità e senza citare le fonti delle proprie notizie: semmai qualcuno dovesse protestare, è proprio a quest'ultimo (molto spesso il diffamato) che spetta l'onere della prova, e non al suo accusatore, rovesciando così quella che dovrebbe essere una dinamica normale e garantista propria di uno stato civile e democratico. In ogni caso, qualora la notizia si dimostrasse palesemente falsa, il giornalista, l'opinionista o il navigatore di internet che l'ha divulgata non ha né responsabilità né l'obbligo di rettificare (quantomeno con enfasi simile); con il risultato che la falsa accusa ha quasi sempre il sopravvento rispetto alla difesa, e l'opinione pubblica, a volte senza averne colpa, si crea un'idea parziale e falsa della realtà.
Ultimamente i bersagli preferiti di certa stampa e dei social networks sono il Papa e la Chiesa cattolica; solo per citare alcuni esempi, per quanto riguarda la stampa andiamo dalla bufala dello IOR quale azionista principale di una fabbrica d'armi a quella del Papa che indossa le scarpe di Prada, per quanto riguarda i social networks c'è solo l'imbarazzo della scelta di foto e link che denigrano il Papa. Nessuno di questi accusatori si sente in dovere di verificare le proprie notizie e di cercarne le fonti: scoprirebbero, altrimenti, che la fabbrica d'armi in questione ha categoricamente smentito che lo IOR ne fosse azionista, che le scarpe del Papa sono confezionate da un calzolaio novarese che da parecchi anni si occupa di scarpe papali, che le offerte del Papa ai poveri sono molto più di quanto si possa immaginare (come riportato qui per l'anno 2010); addirittura c'è stato chi ha criticato il Papa per la grandezza della torta che gli hanno preparato per il compleanno, senza tra l'altro sapere che le immagini di torte uscite in questi giorni erano immagini di repertorio (e che in ogni caso nessuno si sognerebbe mai di accusare il festeggiato per la torta che gli è stata preparata). In alcuni casi nemmeno di fronte allo sbugiardamento più totale della falsa accusa si riescono ad ottenere le scuse del fiero accusatore, che continua invano a volere la ragione dalla sua parte.
Una delle bufale più odiose che si sono diffuse a mezzo stampa ed internet sulla Chiesa in queste ultime settimane è stata quella che riguardava la presunta Comunione negata ad un ragazzo disabile mentale in diocesi di Ferrara; ce ne parla Giorgio M. Carbone nel suo editoriale oggi apparso su La Bussola Quotidiana, che vi lascio per una attenta lettura.

Tanto per diffamare la Chiesa
Di Giorgio M. Carbone

A un disabile grave è stata rifiutata la prima comunione. Questa è la denuncia che circola su alcuni quotidiani e blog.
Veniamo anzitutto ai fatti. A febbraio i genitori del bambino disabile mentale chiedono a un parroco - dell’arcidiocesi di Ferrara Comacchio, parroco di un paese diverso da quello della loro residenza – che il loro figlio possa ricevere la prima comunione insieme ai suoi compagni di classe, e cioè nel corso del prossimo giovedì santo - lo scorso 5 aprile. Inizia così il percorso di preparazione catechistica, evidentemente personalizzato per il bambino, con gradualità egli viene accolto nella parrocchia per renderlo partecipe delle varie attività.
A Ferrara, nei primi giorni di aprile, il parroco incontra il bambino e i suoi genitori per un bilancio sulle settimane trascorse e offre al bambino una particola non consacrata. Ma il bambino la rifiuta. A questo punto il parroco con i genitori decide di posticipare la prima comunione del bambino. Il giovedì santo questi era seduto accanto ai suoi compagni, non ha ricevuto l’Eucaristia, ma è stato benedetto dal parroco in modo speciale. Questi i fatti.
Poi iniziano a circolare altre notizie. La mamma rivela alle agenzie di stampa: «Siamo amareggiati, non ce lo aspettavamo». Sempre la mamma da mandato a due avvocati di fare un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa». Ma queste notizie presto si rivelano delle autentiche e grossolane bufale. Ma intanto hanno diffamato il parroco, la diocesi di Ferrara e la Chiesa in generale.
Questa vicenda, ricostruita sopra con i pochi particolari certi a noi noti, ci dà lo spunto per riflettere su almeno due aspetti generali della patologia dell’informazione e due aspetti riguardanti il merito della vicenda.

LA QUOTIDIANA DIFFAMAZIONE CONTRO LA CHIESA CATTOLICA

È sufficiente un abbozzo di notizia per montare un caso mediatico. Poi, non importa controllare le fonti, fare interviste, muoversi di persona per raccogliere testimonianze e informazioni. Il giornalista elabora di fantasia i pochi dati forniti dalle agenzie di stampa e confeziona la bufala davanti al video del suo pc. Non importa che quanto scrive sia vero, l’importante è che sia verosimile e soprattutto che sia una denuncia contro la Chiesa cattolica e i suoi sacerdoti. È decisivo mettere in piazza la loro ipocrisia: predicano anche cose buone, ma razzolano molto male. Insegnano pure che l’essere umano debole o malato va sempre accolto e amato, ma poi quando si passa ai fatti, a quelli che contano, gli negano un sacramento, l’Eucaristia.

UNA SCOPERTA SOPRENDENTE

Certo questo è un fatto che conta: l’Eucaristia. Anche giornalisti atei dichiarati e ferocemente anticlericali si sono manifestati apertamente, hanno scritto che negare l’Eucaristia è una grave violazione. Scopriamo così che anche loro indirettamente credono quello che anche noi crediamo e cioè che l’Eucaristia, in ragione del fatto che è in modo reale e non simbolico il Corpo di Gesù Cristo, è il più eccellente dei sacramenti ed è il più grande tesoro della Chiesa.
Paradossalmente, la vicenda mediatica li conduce a un approdo che mai avrebbero immaginato. Come nella vicenda degli uomini di età embrionale morti a causa dello scongelamento nell’Ospedale San Filippo di Roma: perché scaldarsi tanto e sprecare fiumi di parole e inchiostro se l’embrione è un grumo di cellule. E in modo analogo, se l’Eucaristia è semplice pane simbolico, perché tutta questa indignazione.
Queste due vicende mediatiche indirettamente segnalano l’umanità degli embrioni congelati e la radicale importanza dell’Eucaristia nella vita umana, anche disabile.
Ma, vendendo al merito della vicenda, emergono almeno alcune questioni - diciamo - singolari.

IL RITARDO E LA FRETTA

Posto che il bambino disabile mentale abbia iniziato il percorso di catechesi personalizzato a febbraio, mentre i suoi coetanei, compagni di classe, da alcuni anni, perché ammetterlo alla comunione solo dopo soli due mesi? Dopo una “iscrizione” a catechismo in ritardo perché tanta fretta? O va preparato in modo graduale e proporzionato alle sue capacità. Oppure percorrerà l’iter insieme a tutti gli altri.

LA GRAZIA DI CRISTO E LA CAPACITÀ DI COMPRENSIONE

Ma il problema più delicato - e le notizie fornite sono troppo scarne - riguarda la sua reale capacità di comprensione. Il fatto che all’inizio di aprile ha rifiutato la particola non consacrata come va interpretato? Ha rifiutato perché non riesce a deglutire? Perché in una situazione di forte disagio psichico? Perché semplicemente non capisce? Perché disprezza? Non conoscendo molti particolari, possiamo fare queste ipotesi.
Data la decisione del parroco, concordata con i genitori, di rinviare la sua prima comunione, dobbiamo supporre che il bambino dia buone speranze di completare la sua formazione, di crescere nell’intelligenza della sua fede in modo proporzionato all’età e alla sua disabilità psichica. È la speranza nella sua crescita e l’attenzione premurosa verso di lui che fondano il posticipare la prima comunione. Altro che discriminazione o violazione della libertà religiosa.
Certamente, se il bambino non desse queste speranze, non avrebbe senso rinviare la prima comunione. Cioè se la disabilità psichica fosse così grave da rendere la persona incapace di intendere e di volere e se questa persona ha ricevuto il battesimo, non c’è alcun serio motivo per negarle la comunione eucaristica. È stata battezzata nella fede della Chiesa e dei genitori, è stata battezzata nella sua condizione di disabilità che fa supporre l’inesistenza di ostacoli o rifiuti da parte sua, perciò in queste stesse condizioni (disabilità psichica che fa supporre a noi la non-esistenza di ostacoli o rifiuti volontari) può ricevere l’Eucaristia. Può riceverla, ma non è necessario per la sua salvezza. Può riceverla ed è bene che la riceva: ricevendo anche la cresima, completa i sacramenti dell’iniziazione a Cristo Signore. Ma non è strettamente necessario per la sua salvezza eterna: ricevendo il battesimo è stata introdotta nella vita divina, è stata assimilata a Cristo e, non essendo capace di intendere e di volere, non può rifiutare con un atto peccaminoso la vita divina e l’unione con Cristo (cosa che invece noi – che supponiamo essere capaci di intendere e di volere – di fatto facciamo quando pecchiamo gravemente, cioè mortalmente. In verità, nel rifiutare la nostra sincera assimilazione a Gesù Cristo diamo prova della nostra stupidità).
Se poi la persona disabile avesse problemi di deglutizione, va ricordato che di fatto è possibile dare la comunione, non solo con il Corpo di Cristo, ma anche solo con il Sangue di Cristo. Sono sufficienti poche gocce, o anche una sola, del Sangue di Cristo per comunicare la realtà della sua presenza e della sua grazia. Il grande Tommaso d’Aquino scriveva nell’inno Adoro te devote «Me immundum munda tuo sanguine, cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere» «Monda me immondo con il tuo sangue, una sola goccia del quale può salvare tutto il mondo da ogni peccato». Il Messale Romano, le norme liturgiche e la virtù dell’epicheia prevedono questo.
Tutto ciò rende possibile realizzare quanto Benedetto XVI insegna con l’Esortazione Postsinodale Sacramentum Caritatis del 2007, n. 58: trattando dell’attiva partecipazione degli infermi all’Eucaristia e dei disabili in generale, scrive «venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna».


Fonte: labussolaquotidiana.it.

lunedì 16 aprile 2012

Tanti auguri, Santo Padre

E' questo un momento molto particolare per la Santa Chiesa: il successore di Pietro, dolce Vicario di Cristo in terra, papa Benedetto XVI, compie oggi 85 anni. Joseph Ratzinger nasce il 16 aprile 1927 in una piccola cittadina al confine con l'Austria, a circa 50 chilometri da Salisburgo, Marktl an Inn, in diocesi di Passau. Il padre Joseph, gendarme, e la madre Maria, cuoca, gli instillano un profondo senso religioso. Come il fratello Georg, segue la vocazione alla vita sacerdotale; sono ordinati insieme preti il 29 giugno 1951. Fu quindi insegnante universitario presso le università di Frisinga e Ratisbona. Il 24 marzo 1977 è nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da Papa Paolo VI, che ebbe modo di definirlo "insigne maestro di teologia"; fu creato cardinale dallo stesso Papa Montini il successivo 27 giugno. Il beato Papa Giovanni Paolo II lo chiamò a Roma il 25 novembre 1981, nominandolo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ruolo nel quale fu più volte riconfermato da Papa Wojtila (a causa delle dimissioni che ciascun vescovo deve rassegnare al raggiungimento del settantacinquesimo anno di età) fino al giorno della morte del Papa polacco, il 2 aprile 2005. Il successivo conclave lo elegge Sommo Pontefice, e prende il nome di Benedetto XVI.
Da allora Papa Benedetto si è prodigato con zelo e grande impegno nella guida della Chiesa di Dio; malgrado l'età e gli scandali che si è trovato a dover affrontare sotto il suo pontificato (tutti affrontati con grande prontezza, tatto, onestà e decisione, come il terribile scandalo della pedofilia), ha sempre mostrato esemplari umiltà e mansuetudine. Malgrado la trasparenza che in più ambiti sta cercando di imporre nella guida delle cose della Chiesa, purtroppo non mancano al suo indirizzo gli insulti, le insinuazioni, le false accuse senza verifica e le offese gratuite, che in un mondo sempre più cristiano-fobico (nel quale i cristiani non hanno quasi più libertà di pensiero ed espressione) finiscono per creare attorno alla figura di un così adorabile pontefice un'aura di ingiusto pregiudizio.
Per questo noi cristiani preghiamo per il Papa, specialmente in questi giorni in cui ricorrono, in rapida successione, il suo compleanno e l'anniversario della sua elezione al Soglio di Pietro (il prossimo 19 aprile). Che il Signore doni forza e salute al Papa per svolgere il gravoso compito che gli ha affidato, e doni al Suo popolo lo spirito di umiltà e mansuetudine, perché non manchi mai al pastore la vicinanza e la docilità del suo gregge.
In tale fausta occasione, la Parrocchia, a nome di tutti i fedeli, ha inviato direttamente al Santo Padre una lettera di auguri, che riportiamo di seguito.



Caorle, 14 aprile 2012

Vostra Santità

La comunità di Santo Stefano che è in Caorle desidera porVi i suoi più fervidi ed affettuosi auguri in occasione del Vostro ottantacinquesimo compleanno e del settimo anniversario della Vostra elezione a Sommo Pontefice.
Vi ringraziamo di tutto cuore per la sollecitudine e la dedizione che con esemplare mansuetudine dimostrate verso tutto il popolo di Dio. Incessanti si alzano le nostre preghiere per Vostra Santità, affinché il Signore Vi confermi e custodisca, ed ogni giorno Vi dono forza e salute per guidare la Sua santa Chiesa.
Affidiamo Vostra Santità alla materna protezione della Beata Vergine Maria, venerata da noi con il titolo di Madonna dell'Angelo, e alla custodia del Suo castissimo sposo San Giuseppe, Vostro patrono.
Ad multos annos, Santo Padre!


 Con riconoscenza e filiale devozione
il parroco, i sacerdoti e tutta la comunità
della parrocchia Santo Stefano Protomartire
del Duomo di Caorle

venerdì 13 aprile 2012

Tesori d'arte sacra: le opere in controfacciata

Dopo la pausa dello scorso mese riprendiamo l'appuntamento mensile con le opere d'arte conservate nel nostro Duomo, occupandoci delle opere custodite nella controfacciata della navata centrale. Tra tutte spicca l'imponente affresco cinquecentesco che raffigura San Cristoforo; il santo, secondo l'iconografia tradizionale, è rappresentato mentre sta attraversando un fiume, con in mano il bastone del viandante o del pellegrino e sulla spalla il Bambino Gesù che regge il mondo. Secondo la leggenda, Reprobus (questo il nome di San Cristoforo prima del suo Battesimo) era un uomo burbero e solitario, che viveva solo in un bosco. Un giorno incontrò un bambino che gli chiese di poter essere trasportato da una sponda all'altra di un fiume; così Reprobus se lo caricò sulle spalle e cominciò la traversata. Ma nonostante le sue dimensioni e la sua forza, il gigante si sentì sopraffatto dal peso di quell'esile bambino; arrivato ugualmente all'altra riva quel bambino si rivelò come Gesù Redentore, e gli disse che il suo enorme peso era dovuto al fatto che non aveva trasportato solo Lui ma anche il peso del mondo intero. Un particolare del nostro affresco mette in risalto un altro aspetto di questa interessante leggenda; il Bambino Gesù afferra una ciocca dei capelli del gigante con la mano sinistra: secondo il racconto, infatti, Egli disse al buon uomo, dopo la traversata, che fu proprio lui, possente e forzuto, ad essere trasportato dal Bambino e non viceversa. In seguito a questo fatto prodigioso, avvenuto secondo la leggenda in Licia, Reprobus si convertì e si fece battezzare, prendendo il nome di Cristoforo, che significa portatore di Cristo; dopo una breve testimonianza nella sua terra subì il martirio. Anche nell'agiografia orientale è contemplato san Cristoforo, come soldato che, convertitosi, fu denunciato dai suoi commilitoni e perì martire.
Nel tempo San Cristoforo fu invocato contro le calamità naturali, specialmente quelle che hanno a che fare con l'acqua (come le inondazioni, di cui Caorle ha sempre temuto l'avvento), ed anche come patrono di tutto ciò che ha a che fare con il trasporto, quindi viandanti, trasportatori e pellegrini.
Sopra l'affresco di San Cristoforo, ai lati del rosone centrale, si scorgono due stemmi affrescati di cui soltanto quello di destra è rimasto intelligibile; si tratta dello stemma della città di Caorle, l'Arcangelo San Michele che veglia sopra il castello, che rappresenta la città, mentre sotto lo stemma campeggia la scritta "Communitas Caprulana". Lo stemma di sinistra doveva essere lo stemma del vescovo dell'epoca.
Davanti alla struttura che sorregge le canne dell'organo è stata posta la statua di Santo Stefano Protomartire, patrono principale della città, risalente al XVIII secolo, che un tempo si trovava sopra l'altare maggiore della cattedrale, poi smembrato intorno agli anni '20. Esso comprendeva, oltre alla statua di Santo Stefano, anche le statue di due compatroni, San Gilberto e Santa Margherita, oggi conservate ai lati del coro del Santuario della Madonna dell'Angelo.
Infine, sulla sinistra, si trova una tela del martirio di San Sebastiano, opera moderna, recentemente restaurata.

lunedì 9 aprile 2012

Triduo Pasquale - Omelie del Patriarca

Messa del giorno di Pasqua

L’evangelista Giovanni, nella sua testimonianza sulla Pasqua, presenta una realtà che ci riporta al momento originario dell’evento pasquale, ai primi istanti della risurrezione di Cristo così come sono stati vissuti dai discepoli; in tal modo veniamo a conoscere come la buona notizia della risurrezione si è fatta strada nella comunità.
La redazione del vangelo di Giovanni - noto anche come quarto vangelo - è di molto successiva a quella di Matteo, di Marco e di Luca ma i contenuti dell’evento pasquale che qui Giovanni ci propone, appartengono al momento iniziale; ci riportano ad esso. Giovanni, infatti, narra proprio gli eventi imprevisti e imprevedibili che si sono verificati presso la tomba di Gesù, alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato.
Certamente qui cogliamo anche un contesto che rimanda alla liturgia che, fin dall’inizio, ha ritmato la vita della comunità primitiva; vi è infatti una menzione della domenica, la piccola Pasqua della settimana, indicata, appunto, come il giorno dopo il sabato.
Dal testo percepiamo che la risurrezione irrompe nella vita dei discepoli come notizia inattesa. Così è per i dodici - momentaneamente in undici, per la defezione di Giuda - e così è per il gruppo delle donne che seguivano Gesù tra le quali, in posizione di spicco, anche Maria di Magdala che di buon mattino s’era incamminata verso il sepolcro.
Ancora una volta, le donne mostrano più generosità, più dedizione, più attaccamento al Signore Gesù degli uomini. Ciò che ha segnato gli avvenimenti della passione caratterizza anche la risurrezione.
La risurrezione - secondo il nuovo Testamento - s’impone, ai discepoli, dall’esterno. In un certo senso, possiamo dire, “li costringe”.
Quante volte, e a ragione, diciamo che la vita cristiana consiste nel lasciarsi condurre, nel lasciarsi portare oltre i propri progetti; un vero e proprio lasciarsi innalzare, come ricorda la Scrittura, su “ali d’aquila” (Is. 40, 31).
Non di rado ci capita di perdere di vista tale fatto oppure non gli prestiamo la dovuta attenzione e le scuse sono tante e tante volte meschine… E, allora, altre cose prendono il sopravvento sulla nostra vita, dimentichiamo che la logica della risurrezione riguarda la nostra vita; è questo lasciarsi afferrare, lasciarsi condurre, dal Risorto che diventa poi progetto di vita spirituale.
Gli eventi narrati nel vangelo non lasciano spazio a equivoci. Maria di Magdala, che piange al di fuori del sepolcro, è invitata ad andare oltre le sue lacrime; Pietro e Giovanni devono, di corsa, precipitarsi al sepolcro e constatare quanto neppure avrebbero pensato; i due discepoli di Emmaus sono rimproverati dallo stesso Signore per la loro stoltezza di cuore e incapacità di credere alla risurrezione.
La risurrezione si presenta, in tal modo, come evento di grazia che irrompe nella storia e cambia degli uomini rozzi e delle donne spaventate; la risurrezione irrompe in loro e trasforma questi uomini e queste donne nella Chiesa, la comunità del Risorto.
Così il cristianesimo - attraverso l’evento della risurrezione e come fede nella risurrezione - non è l’esito di un “cammino umano” e neppure un’ ”invenzione” umana.
La rivelazione cristiana, piuttosto, ci ricorda che l’uomo è implicato nel cammino di fede con la totalità del suo essere e, in questo cammino, tutte le facoltà sono coinvolte, chiamate in causa, accompagnate dalla misericordia di Dio.
Dio non è una tesi filosofica, è il Padre della misericordia. Dio è colui che ricerca sempre l’uomo. A noi lasciarci trovare un po’ di più.
L’evangelo di oggi evidenzia proprio le implicanze che accompagnano l’atto di fede; il testo di Giovanni, infatti, indugia sulla costatazione degli oggetti (bende e sudario) presenti all’interno del sepolcro e la loro posizione: “Giunse anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma ripiegato in un luogo a parte ” (Gv 20, 6-7).
Il vangelo rimarca come l’esperienza, il rendersi conto, il vedere, il correre al sepolcro fa parte del credere.
L’adesione di fede, che riguarda ciò che “va oltre” la pura constatazione dei fatti, condurrà prima Giovanni e poi Pietro a cogliere, in quei fatti, i segni della risurrezione. Decisivo rimane il saperli leggere e la Scrittura è aiuto imprescindibile. “Non avevano ancora creduto alle Scritture”, il rimprovero di Gesù ai due discepoli di Emmaus farà dire loro, quando quel pellegrino si sarà dileguato: “Ma non ci ardeva il cuore quando ci spiegava le Scritture?”.
Il Risorto - è necessario ribadirlo - non è un prodotto della comunità che inventa, che esterna desideri o proietta, al di fuori di sé, immagini precedentemente introitate. L’evento della risurrezione è, piuttosto, l’intervento di Dio che continua la realtà e la logica dell’incarnazione, continuandone il mistero fino all’innalzamento in croce e - secondo la teologia di Giovanni - all’innalzamento nella risurrezione.
Come la salvezza del mondo non si dà attraverso un gesto espressione di potenza umana, ad esempio, un bel discorso colto (quanti ne sentiamo… e alla fine lasciano il tempo che c’era!) oppure una proposta etica universale o, ancora, un nuovo piano educativo... Niente di tutto questo: Gesù salva il mondo dalla croce.
Il male, alla fine, è qualcosa che colpisce l’uomo, nell’anima e nel corpo, e lo allontana da Dio ponendolo in una situazione di miseria e impotenza radicali da cui egli - con le sue sole forze umane, i bei discorsi, i programmai etici, i piani educativi… - non può sollevarsi.
La vicenda della Pasqua di morte e risurrezione di Gesù dice, in modo inequivocabile, che il male non è solamente errore o imperfezione ma qualcosa di ben altro che avviluppa e imprigiona l’uomo che - da solo - con i suoi discorsi, le sue proposte etiche o i progetti pedagogici non è in grado d’uscirne fuori.
Era necessario, quindi, che il Verbo di Dio percorresse - questo è il cuore della rivelazione cristiana - tutti gli strati dell’abisso del male e, nel dono totale della sua umanità, inaugurasse nella croce il mondo nuovo, l’umanità che appartiene totalmente a Dio e che solo Dio poteva rigenerare nella risurrezione.
Nella risurrezione, il Padre approva quel suo Figlio - il suo Unigenito - che l’umanità prigioniera del male e del peccato aveva rifiutato condannandolo all’ignominia e all’assurdità della croce. Sì, perché, alla fine, il male è ignominia e assurdità e la croce, nella sua ignominia e assurdità, dimostra l’ignominia e l’assurdità del male che hanno prodotto la croce.
La Pasqua cristiana è quindi il dono che Dio - in Cristo - fa attraverso la Chiesa ad ogni uomo, a ciascun uomo, a tutti gli uomini.
L’augurio semplice, ma essenziale, è riscoprire il mistero della Pasqua nella nostra vita. Auguri a tutti, buona Pasqua a tutti!

Giovedì Santo - Messa in Coena Domini

La Chiesa con la celebrazione eucaristica vespertina del giovedì santo entra nel periodo più sacro dell’anno liturgico, i giorni che già sant’Agostino denominava, con un’espressione particolarmente felice, il “triduo del crocifisso, del sepolto e del risorto”.
Il triduo sacro inizia con la messa “nella cena del Signore”, in cui la comunità cristiana fa la memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio - il sacramento dell’ordine - e, insieme, rivive il comandamento della carità fraterna, così come ce ne dà testimonianza il vangelo di Giovanni.
L’azione eucaristica evidenzia il segno della cena; segno scelto da Gesù e col quale, una volta per sempre, ha voluto consegnare alla Chiesa il “rito-memoriale” della croce, il suo sacrificio per la salvezza del mondo; in tal modo si ricorda l’istituzione della Pasqua rituale e sacramentale - l’ultima cena - che ha preceduto la Pasqua storica del Signore, ossia il calvario, di cui l’eucaristia è, appunto, segno efficace.
Sulla linea del pane-spezzato e del vino-effuso “dati” in cibo e bevanda si pone il segno della lavanda dei piedi; “Gesù - annota l’evangelista Giovanni - si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita... e cominciò a lavare i piedi ai discepoli” (Gv 13,4-5).
Ed è proprio a partire da questi segni che, per i discepoli - e, quindi, anche per noi - si dà la possibilità di una vita “secondo Gesù”; una vita che sia un reale servizio d’amore e che va oltre la pura logica umana: “Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?” (Mt 5,46).
Quindi il comandamento nuovo dato da Gesù ai discepoli - amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati (cfr. Gv 13,34) - non va inteso come un richiamo ad una generica solidarietà. Il vangelo chiede, invece, qualcosa di diverso, qualcosa di più: amare come Gesù ha amato. Così si deve passare, tramite la conversione personale, anche alla “riconversione” evangelica delle strutture sociali e politiche. Solo a partire da Gesù, infatti, si dà condivisione cristiana e - senza croce ed eucaristia - tale fraternità risulta impossibile.
La Chiesa, il nuovo popolo di Dio, nasce proprio dalla carità di Cristo. Ciò significa che, sul piano del mistero, l’eucaristia fa la Chiesa mentre, su quello del sacramento - ossia del ministero - la Chiesa mostra la sua fedeltà al Signore e fa memoria di Lui e della sua Pasqua: “Fate questo in memoria di me”. Per i discepoli è essenziale celebrare il sacramento della croce e cibarsi del corpo e del sangue di Gesù, solo in tal modo si potrà amare come Lui ama.
Questa celebrazione liturgica del giovedì santo termina con la processione eucaristica, con cui il Santissimo Sacramento viene recato all’altare della reposizione, detto volgarmente - ma erroneamente - “sepolcro”. Infatti il senso di questo altare, opportunamente preparato, non è richiamare la sepoltura del Signore - la liturgia della Chiesa, tra l’altro, non ne ha ancora celebrato la passione - ma, piuttosto, conservare le sacre particole per la comunione del venerdì santo, giorno in cui la Chiesa, fin dalle origini, non celebra l’Eucaristia.
Il Santissimo Sacramento, inoltre, viene conservato all’altare della reposizione anche per un altro motivo: l’adorazione dei fedeli. Così, nel giorno in cui si fa memoria dell’istituzione dell’Eucaristia, il suo culto risulta pienamente affermato e, al di là del momento della celebrazione, si esprime, appunto, nell’adorazione del sacramento permanente.
L’adorazione dei fedeli così si protrae, in un primo momento, in modo solenne e poi può continuare in maniera più intima, dimessa, personale.
L’erroneo appellativo di “sepolcro”, dato all’altare della reposizione, può esser fatto risalire a differenti consuetudini. Una rimanda alla veglia di preghiera che si teneva presso la chiesa della risurrezione a Gerusalemme (Eteria, IV secolo), l’altra si collega ad un’usanza (Ireneo, il papa Vittore, II secolo) concernente un digiuno di quaranta ore, lo spazio di tempo in cui Gesù - secondo la tradizione - rimase nel sepolcro. Poi, in epoca medioevale, in taluni ambiti della cristianità è attestata la pia pratica del “santo sepolcro”: una devozione al crocifisso deposto nel sepolcro, ma anche - come attesta il beato Ulrico di Augusta (+ 973) - all’usanza di porre, nel sepolcro, il Santissimo Sacramento che veniva tolto la mattina di Pasqua e portato via processionalmente.
Ora, se tale pratica o devozione detta del “santo sepolcro” doveva protrarsi per quaranta ore, quelle che si ritenevano trascorse da Gesù nel sepolcro e tale computo era limitato dal canto del gloria della messa pasquale - il mezzogiorno del sabato santo -, tale devozione chiedeva d’essere anticipata la sera del giovedì santo; da qui il nome di “sepolcro” dato a quello che, in realtà, è l’altare della reposizione del Santissimo Sacramento e che costituisce il compimento naturale della liturgia della messa “nella cena del Signore”.
Oggi, comunque, è importante riscoprire il senso dell’adorazione eucaristica: la realtà del “sacramento permanente”, l’Eucaristia, termine della nostra adorazione personale e comunitaria.
Si tratta di tener vive le realtà della celebrazione e dell’adorazione. L’adorazione è prolungamento del momento celebrativo e preparazione ad esso e la celebrazione eucaristica è, come ci ricorda Benedetto XVI, il più grande atto di adorazione della Chiesa.
I genitori, i parroci e i catechisti aiutino soprattutto i bambini che in diocesi si stanno preparando a ricevere la prima santa Comunione a valorizzare il momento della comunione eucaristica. Quegli istanti che precedono e seguono l’incontro sacramentale con Gesù devono essere vissuti in spirito di vera adorazione, silenzio e raccoglimento interiore ed esteriore. Ricordiamo, infine, la perenne attualità del monito di sant’Agostino: “Nessuno mangia questa carne se prima non l’ha adorata” (Enarrationes in psalmos, 98,9).

Triduo Pasquale - Omelie del Papa

Veglia Pasquale

Cari fratelli e sorelle!

Pasqua è la festa della nuova creazione. Gesù è risorto e non muore più. Ha sfondato la porta verso una nuova vita che non conosce più né malattia né morte. Ha assunto l’uomo in Dio stesso. “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio”, aveva detto Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15,50). Lo scrittore ecclesiastico Tertulliano, nel secolo III, in riferimento alla risurrezione di Cristo e alla nostra risurrezione aveva l’audacia di scrivere: “Abbiate fiducia, carne e sangue, grazie a Cristo avete acquistato un posto nel Cielo e nel regno di Dio” (CCL II 994). Si è aperta una nuova dimensione per l’uomo. La creazione è diventata più grande e più vasta. La Pasqua è il giorno di una nuova creazione, ma proprio per questo la Chiesa comincia in tale giorno la liturgia con l’antica creazione, affinché impariamo a capire bene quella nuova. Perciò all’inizio della Liturgia della Parola nella Veglia pasquale c’è il racconto della creazione del mondo. In relazione a questo, due cose sono particolarmente importanti nel contesto della liturgia di questo giorno. In primo luogo, la creazione viene presentata come una totalità della quale fa parte il fenomeno del tempo. I sette giorni sono un’immagine di una totalità che si sviluppa nel tempo. Sono ordinati in vista del settimo giorno, il giorno della libertà di tutte le creature per Dio e delle une per le altre. La creazione è quindi orientata verso la comunione tra Dio e creatura; essa esiste affinché ci sia uno spazio di risposta alla grande gloria di Dio, un incontro di amore e di libertà. In secondo luogo, del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: «Sia la luce!» (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico, inizia con la creazione della luce. Il sole e la luna vengono creati solo nel quarto giorno. Il racconto della creazione li chiama fonti di luce, che Dio ha posto nel firmamento del cielo. Con ciò toglie consapevolmente ad esse il carattere divino che le grandi religioni avevano loro attribuito. No, non sono affatto dei. Sono corpi luminosi, creati dall’unico Dio. Sono però preceduti dalla luce, mediante la quale la gloria di Dio si riflette nella natura dell’essere che è creato.

Che cosa intende dire con ciò il racconto della creazione? La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste solo in virtù della negazione. È il “no”.

A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.

Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione.

Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.

Cari amici, vorrei aggiungere, infine, ancora un pensiero sulla luce e sull’illuminazione. Nella Veglia pasquale, la notte della nuova creazione, la Chiesa presenta il mistero della luce con un simbolo del tutto particolare e molto umile: con il cero pasquale. Questa è una luce che vive in virtù del sacrificio. La candela illumina consumando se stessa. Dà luce dando se stessa. Così rappresenta in modo meraviglioso il mistero pasquale di Cristo che dona se stesso e così dona la grande luce. Come seconda cosa possiamo riflettere sul fatto che la luce della candela è fuoco. Il fuoco è forza che plasma il mondo, potere che trasforma. E il fuoco dona calore. Anche qui si rende nuovamente visibile il mistero di Cristo. Cristo, la luce, è fuoco, è fiamma che brucia il male trasformando così il mondo e noi stessi. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”, suona una parola di Gesù trasmessa a noi da Origene. E questo fuoco è al tempo stesso calore, non una luce fredda, ma una luce in cui ci vengono incontro il calore e la bontà di Dio.

Il grande inno dell’Exsultet, che il diacono canta all’inizio della liturgia pasquale, ci fa notare in modo molto sommesso un altro aspetto ancora. Richiama alla memoria che questo prodotto, il cero, è dovuto in primo luogo al lavoro delle api. Così entra in gioco l’intera creazione. Nel cero, la creazione diventa portatrice di luce. Ma, secondo il pensiero dei Padri, c’è anche un implicito accenno alla Chiesa. La cooperazione della comunità viva dei fedeli nella Chiesa è quasi come l’operare delle api. Costruisce la comunità della luce. Possiamo così vedere nel cero anche un richiamo a noi stessi e alla nostra comunione nella comunità della Chiesa, che esiste affinché la luce di Cristo possa illuminare il mondo.

Preghiamo il Signore in quest’ora di farci sperimentare la gioia della sua luce, e preghiamoLo, affinché noi stessi diventiamo portatori della sua luce, affinché attraverso la Chiesa lo splendore del volto di Cristo entri nel mondo (cfr LG 1). Amen.

Giovedì Santo - Messa in Coena Domini

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.

Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità.

Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.

Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.

Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.

Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.

Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà. Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi. Amen.

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

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