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giovedì 5 aprile 2012

L'omelia del Patriarca alla Messa crismale

Sia lodato Gesù Cristo.

Carissimi confratelli, innanzitutto esprimiamo il nostro grazie a Dio per il dono del sacerdozio ministeriale; la gratitudine è virtù a cui il Signore ha dato molta importanza come ci ricorda l’evangelista Luca narrando l’episodio dei dieci lebbrosi mondati: “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi discepoli per ringraziarlo: Era un samaritano. Ma Gesù osservò: non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (Lc 17, 15-18).
D’altra parte, la Vergine Maria - prima discepola - e madre di Gesù, eterno, sommo Sacerdote, ci mostra cosa è la riconoscenza, lo fa nella preghiera del Magnificat; il canto del Magnificat, infatti, parola dopo parola, narra in modo eloquente - attraverso la lode e il rendimento di grazie - che cosa è la riconoscenza.
La logica del Magnificat deve entrare sempre più nella nostra preghiera e vita di presbiteri.
Il giorno anniversario della istituzione del sacerdozio, per noi - ministri ordinati - è il giorno della lode, è il giorno del rendimento di grazie, soprattutto, è il giorno della riconoscenza: sì, il giorno della riconoscenza.
Il prete, in tal modo, prima d’ogni altra cosa, deve essere un uomo riconoscente, capace di riconoscenza, un uomo che con la vita esprime gratitudine a Dio e ai fratelli; ogni prete, infatti, è scelto, senza suo merito particolare, dalla divina misericordia, non perché sia migliore degli altri ma, perché Dio è buono; il prete, quindi, deve essere innanzitutto consapevole di ciò è, quindi, chiamato ad annunziare la bontà di Dio e ad essere dispensatore della misericordia di Dio.
La giornata del giovedì santo, ovviamente, anche per noi sacerdoti segna l’inizio del Triduo Sacro con la concelebrazione della messa nella cena del Signore; tale inizio ha un prologo nella messa crismale che costituisce il forte richiamo e ricordo a quel dono che ci ha costituiti un giorno, per sempre, nel sacerdozio di primo o di secondo grado.
In tal modo, oltre alla fondamentale identificazione di ogni fedele a Gesù Cristo - il battesimo è, infatti, immersione nella morte e risurrezione di Cristo - i ministri ordinati portano, in loro, una nuova, peculiare conformazione a Gesù-capo e sono a “servizio” del sacerdozio battesimale o comune. La distinzione - come sappiamo - non è solo di grado ma d’essenza fra la partecipazione battesimale/crismale e quella ministeriale al sacerdozio di Cristo, così come insegna la Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II (cfr. n.10).
Per noi sacerdoti ordinati, come per ogni battezzato, gli eventi della Settimana Santa, ci stanno dinanzi e chiedono d’essere fatti nostri, assunti nella nostra vita; però - lo ripeto - non può passare inosservato che la giornata del giovedì santo inizi proprio con la liturgia della messa crismale.
Ogni sacerdote ordinato vive, così, quel particolare legame col Signore Gesù, legame certo e sicuro che ha ricevuto al momento dell’ordinazione, in favore degli uomini; è quanto traspare dalle stesse parole di Gesù come è attestato nei vangeli.
“Chi accoglie voi - dice il Signore - accoglie me” (Mt 10,40; Lc 10,10-16; Gv 13, 20) e ancora: come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi (cfr. Gv 20, 21).
Tutto questo s’inserisce nella logica che caratterizza l’identità stessa di Gesù che si qualifica come relazione costitutiva col Padre e che riguarda la sua stessa persona; Gesù, infatti, nel più intimo di sé è relazione col Padre, per cui Egli può veramente dire in modo pieno totale e realissimo: “Il Figlio non può fare nulla da se stesso, se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19-30). E poi ancora agli apostoli dice: “Senza di me non potete fare nulla…”(Gv 15,5) .
Il giovedì santo, quindi, ci chiede d’elevare il nostro grazie a Dio per averci chiamati e mandati, proprio secondo questa logica sacramentale, ossia, la realtà intima del sacramento. Guardiamo, quindi, alla situazione di quel nostro essere “niente” o “nulla” che, sull’esempio di Cristo - puro riferimento al Padre -, ci domanda di vivere il ministero sacerdotale come rendimento di grazie che tutto compie e tutto fa partire da Gesù Cristo.
Quando in un sacerdote di primo grado (vescovo) o di secondo grado (presbitero) tale consapevolezza s’appanna o viene meno, e questi presume di sé, allora, o è già venuta meno o sta venendo meno la logica sacramentale.
Il sacramento si caratterizza per questa realtà e per questa logica che sono, ad un tempo, precise e inequivocabili, vale a dire: poter compiere qualcosa che, di per sé, con le sole forze umane, non si ha il potere di compiere, perché, nel sacramento, l’uomo, per grazia, diventa pura comunicazione di Dio.
Il cardinale Ratzinger annotava nel suo intervento al Sinodo del 1990 sulla “Formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali”: “Questo ministero, nel quale l’uomo fa e dà per comunicazione di Dio, ciò che non può mai dare e fare da sé, viene chiamato sacramento… Ricevendo il sacramento, viene inviato per dare ciò che non può dare con le proprie forze, per agire “in persona” di un Altro… Perciò nessun uomo può auto-dichiararsi sacerdote; perciò neppure la comunità può promuovere alcun uomo a questo ministero per sua decisione ” (Card. Joseph Ratzinger, Relazione Sinodo 1990).
Carissimi confratelli, siamo partiti dalla preziosa e non sempre comune virtù della gratitudine; poi la nostra comune riflessione ha considerato come tale virtù sia necessaria per il sacerdote che nella sua persona è umanamente insufficiente ma che - proprio attraverso il sacramento - diventa (deve diventare) vera benedizione per coloro che lo incontreranno.
Nel senso e secondo la logica di queste parole, troviamo il pensiero di Giovanni Maria Vianney, il protettore dei parroci di tutto il mondo; il santo curato d’Ars aveva un ben misero concetto di sé, tanto da esclamare: “Se ci conoscessimo a fondo come egli (Dio) ci conosce, non potremmo vivere”(B. Nodet, Il pensiero e l’anima del santo curato d’Ars, pag. 245). Ma - nello stesso tempo - parlando del sacerdozio, si esprime in modo opposto e giunge a dire: “Se il sacerdote fosse ben compenetrato della grandezza del suo ministero, stenterebbe a vivere” (B. Nodet, Il pensiero e l’anima del santo curato d’Ars, pag.128).
Carissimi confratelli, oggi - come tradizione -, si rinnovano le promesse sacerdotali, vi invito a compiere questo gesto secondo quanto è stato appena detto, vale a dire, a partire dalla virtù cristiana dell’umiltà/riconoscenza.
Quindi non partendo dalla considerazione dell’obbligatorietà, che pure le caratterizza e accompagna, infatti le promesse sono impegni vincolanti, liberamente assunti, dopo anni di preghiera, di preparazione spirituale e di discernimento, in seminario.
Dio - come è ovvio - opera sempre a Suo modo, quindi come Colui che suscita tutto dal nulla; diventa, così, essenziale che colui che Egli sceglie come collaboratore, sappia / voglia / decida di essere creta molle nelle mani del Vasaio.
Fuori di metafora, più che mai, coloro che sono costituiti nel sacerdozio di primo e secondo grado, ovvero i vescovi e i presbiteri, non devono, come prima cosa, confidare in se stessi ma, piuttosto, nell’onnipotenza chi li ha scelti e mandati; l’esperienza dice che un presbitero o un vescovo fondato sulla consapevolezza di sé, che ha grande considerazione delle proprie doti umane, che conta molto sulla sua cultura, alla fine, alla prova dei fatti, non sarà mai al servizio di Dio.
E’ chiaro che ciò che vale per il sacerdozio di secondo grado - i presbiteri - vale a maggior ragione per quello di primo grado - i vescovi - che, proprio in forza della pienezza del sacerdozio, devono calarsi ancor più nel loro servizio a Dio e all’uomo.
Tutto ciò, ovviamente, vale ancor più nei confronti del Papa che, prima di tutto, è il nostro padre comune, il padre di tutti di fronte al quale tutti nella Chiesa sono figli.
Guardiamo, allora, al principio spirituale che secondo modalità specifiche essenzialmente differenti - come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II, al n. 10 della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa - chiede d’essere tradotto nella propria vita da parte di chi è rivestito del sacerdozio battesimale e ministeriale.
Il principio spirituale è: quanto più ci abbandoniamo a Dio, non contando su se stessi, tanto più Dio opera in noi e attraverso di noi; l’umiltà, quindi, è la virtù che lascia operare Dio in noi e soltanto la fede rende possibile l’esprimersi dell’umiltà.
A tutti voi carissimi presbiteri, circondati oggi dalla comunità dei fedeli, esprimo la gioia di poter celebrare insieme, per la prima volta, il giovedì santo.
La celebrazione crismale unisce tutto il presbiterio diocesano intorno al vescovo che è - pur nella sua indegnità - capo, sommo sacerdote e grande liturgo della sua Chiesa; si tratta, in tal modo, di una celebrazione di tutta la Chiesa, non solo di una sua parte, di una corporazione, ma di tutta la Chiesa; la connotazione di questa assemblea è pienamente e compiutamente ecclesiale nel suo riferirsi a Cristo e ciò viene ribadito al momento delle promesse sacerdotali che sono rinnovate - dinanzi alla Chiesa e al mondo - nelle mani del Vescovo e, per suo tramite, in quelle di Dio.
Rivolgo una preghiera e un ricordo particolare per quanti, anche da tempo, hanno lasciato l’esercizio del ministero sacerdotale.
In questo primo giovedì santo che trascorro con voi, chiedo al Signore di poter servire questa Chiesa amandola come fa un vero Padre; aiutatemi affinché questo avvenga.
Desidero porre tutti i miei preti, ma soprattutto quelli anziani, malati o moralmente e spiritualmente affaticati, i nostri carissimi seminaristi, nelle mani materne di Colei che ai piedi della croce c’è stata data come madre, affinché tutti benedica come Ella sola sa fare. Ringrazio tutti i presenti d’essere venuti a questa importante celebrazione e, a tutti, auguro un giovedì santo che permetta di ravvivare il dono che ci è stato dato per l’imposizione delle mani.

Sia lodato Gesù Cristo.

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