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sabato 31 dicembre 2011

Auguri di Buon Anno

«Fiat misericordia tua, Domine, super nos,
quemadmodum speravimus in Te.

In Te, Domine, speravi:
non confundar in aeternum.
»

Con le parole dell'inno Te Deum, l'inno di ringraziamento che ogni anno tradizionalmente la Chiesa canta l'ultimo giorno dell'anno, auguriamo a tutti i parrocchiani ed ai lettori del blog e del sito parrocchiale un felice anno 2012, affinché il Signore ci conceda pace e serenità e ci dia la forza di sopportare i momenti più difficili.



«Te Deum laudamus:*
Te Dominum confitemur.

Te aeternum Patrem,*
omnis terra veneratur.

Tibi omnes angeli,*
tibi caeli et universae potestates,

tibi cherubim et seraphim*
incessabili voce proclamant:

Sanctus,* Sanctus,*
Sanctus Dominus Deus Sabaoth.

Pleni sunt caeli et terra*
maiestatis gloriae tuae.

Te gloriosus*
apostolorum chorus,

Te prophetarum*
laudabilis numerus,

Te martyrum candidatus*
laudat exercitus.

Te per orbem terrarum*
sancta confitetur Ecclesia,

Patrem*
immensae maiestatis;

Venerandum tuum verum*
et unicum Filium;

Sanctum quoque*
Paraclitum Spiritum.

Tu Rex *
gloriae Christe.

Tu Patris*
sempiternus es Filius.

Tu, ad liberandum suscepturus hominem,*
non horruisti Virginis uterum.

Tu devicto mortis aculeo,*
aperuisti credentibus regna caelorum.

Tu ad dexteram Dei sedes,*
in gloria Patris.

Iudex crederis*
esse venturus.

Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni,*
quos pretioso sanguine redemisti.

Aeterna fac cum sanctis tuis*
in gloria numerari.

Salvum fac populum tuum, Domine,*
et benedic hereditati tuae.

Et rege eos,*
et extolle illos usque in aeternum.

Per singulos dies*
benedicimus Te;

et laudamus nomen tuum in saeculum,*
et in saeculum saeculi.

Dignare, Domine, die isto*
sine peccato nos custodire.

Miserere nostri, Domine,*
miserere nostri.

Fiat misericordia tua, Domine, super nos,*
quemadmodum speravimus in Te.

In Te, Domine, speravi:*
non confundar in aeternum.»
«Noi ti lodiamo, Dio,
Ti proclamiamo, Signore.

O eterno Padre,
tutta la terra Ti adora.

A Te tutti gli angeli
e tutte le potenze dei cieli,

a Te i cherubini e i serafini
proclamano con voce incessante:

Santo, Santo,
Santo il Signore Dio dell'universo.

I cieli e la terra sono pieni
della tua maestà e gloria.

Te loda il glorioso
coro degli apostoli,

Te loda dei profeti
il gran numero,

Te loda dei candidi martiri
l'esercito.

Per tutta la terra
la Santa Chiesa proclama Te,

Padre
d'immensa maestà;

e l'augusto tuo vero
e unico Figlio;

e il Santo
Spirito Paraclito.

Tu, Re della gloria
o Cristo,

Tu sei Figlio
del Padre sempiterno.

Tu, generato per liberare
l'uomo,
non disdegnasti il grembo della Vergine.

Tu vinto il pungiglione della morte,
apristi ai credenti i Regni dei cieli,

Tu siedi alla destra di Dio,
nella gloria del Padre.

Giudice che sei creduto
ritornare.

A Te, dunque, chiediamo, vieni in aiuto dei tuoi servi,
che hai redenti col tuo sangue prezioso.

Fa' che siano annoverati nella gloria
insieme ai tuoi santi.

Salva il tuo popolo, Signore,
e benedici la tua eredità.

E guidali,
e sorreggili in eterno.

Ogni giorno
Ti benediciamo;

e lodiamo il tuo nome nei secoli
e nei secoli dei secoli.

Degnati, o Signore, in questo giorno
di custodirci senza peccato.

Abbi pietà di noi, Signore,
abbi pietà di noi.

Sia, o Signore, la tua misericordia sopra di noi,
come noi abbiamo sperato in Te.

In Te, Signore, ho sperato
che non sia confuso in eterno.
»

giovedì 29 dicembre 2011

Musica e Concilio: riflessioni di don Finotti

Cito un articolo della scorsa estate apparso sulla rivista formativa liturgica Liturgia Culmen et Fons a firma di don Enrico Finotti, parroco della chiesa di Santa Maria del Carmine in Rovereto. In particolare vorrei sottoporre all'attenzione dei lettori la chiosa dell'articolo (sottolineature mie): «Alla luce di queste parole il canto gregoriano allora non è soltanto un corpus prezioso di canti accanto ad altri generi di musica sacra, ma, secondo la mente della Chiesa latina, ne è il referente e la base interiore che deve costituire l’anima per ogni musica autenticamente sacra e liturgica. Dobbiamo convenire che oggi nella realtà quotidiana delle nostre parrocchie non è facile impostare questo ragionamento. Tuttavia se si vuole una vera ed efficace verifica nel campo della musica liturgica si deve serenamente affrontare quello che in realtà è il pensiero ufficiale della Chiesa e il tenore dei suoi documenti».

La musica sacra e il canto liturgico nel Vaticano II
Di don Enrico Finotti

Oggi occorre ritornare alle sorgenti autentiche della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II. Si devono però superare molti pregiudizi, invalsi negli anni postconciliari e oggi ancora persistenti, che hanno oscurato i principi basilari sui quali l’edificio liturgico rinnovato doveva poggiare.

Su interpretazioni riduttive si è sviluppata una pastorale liturgica mancante e difforme da ciò che il Vaticano II intendeva promuovere. Anche il settore della musica sacra è certamente segnato dai danni di una scorretta e parziale applicazione dei principi ispiratori. Per questo è necessario ritornare a rileggere le inequivocabili indicazioni della Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium:

n. 116: La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli sia riservato il posto principale.
Gli altri generi di Musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini Uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica, a norma dell’art. 30.
n. 117: Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X. Conviene inoltre che si prepari una edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese minori.
n. 118: Si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme e i precetti delle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.

Nell’arco degli anni post-concilari possiamo osservare che, nel campo della musica e del canto sacro, si sono delineati due fenomeni ben definiti:

- I -

E' stato fatto e continua ancora uno sforzo notevole di creazione di canti in lingua parlata per l’uso liturgico. I vari repertori ne sono eloquente testimonianza. Tuttavia, dopo un primo inizio di fedele applicazione secondo i criteri liturgici e in comunione con la Chiesa, si è intrapresa la via di una creatività continua, talvolta eccessiva, senza più considerazione dei principi liturgici e della necessaria verifica e approvazione dell’autorità della Chiesa. In tal modo sembra che oggi chiunque possa comporre musica e testi per la liturgia e ogni comunità e gruppo esegue un ventaglio incontrollabile di canti, che, sia per la palese inabilità del testo o della musica o della loro funzione rituale, sia per la mancanza di un esplicito riconoscimento e assunzione da parte dell’autorità della Chiesa, non possono dirsi propriamente liturgici. Così le celebrazioni subiscono una larga invasione quasi ovunque di testi e musiche di composizione privata, che non godono perciò della grazia specifica della liturgia e non possono quindi mirare pienamente al fine della Musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli(SC 112).
Mentre l’eucologia, il lezionario e le sequenze rituali sono ancora fissate dalla Chiesa, i canti sono per lo più alla mercé di compositori, maestri di coro, gruppi o singoli fedeli committenti. In tal modo il settore del canto non soggiace più al controllo della Chiesa, né può dirsi espressione della sua preghiera, essendo ormai diventato appannaggio di un comunità o di una spiritualità sociologicamente più o meno estesa. In questo stato di cose i fedeli rischiano di non riconoscere più quali siano i canti liturgici, propri della Chiesa, ed essere, in questo settore, travolti dai gusti e dai contenuti di alcuni, di quelli cioè che volta a volta gestiscono le liturgie. Si deve pure constatare che è prevalsa la tendenza a ‘cantare nella liturgia’ anziché ‘cantare la liturgia’. Questa scelta, infatti, offre maggior libertà creativa. E' evidente che a queste condizioni non può affermarsi e aver stabilità una raccolta valida di canti liturgici, comune al popolo di Dio nella sua globalità, né possono risuonare le voci dei fedeli (SC 118). Anche il repertorio nazionale diluisce nella concessione di poter ricorrere agli altri repertori, regionali, diocesani, parrocchiali, ecc.
Su questa strada si può arrivare alla situazione dell’antica gnosi, quando si fece la scelta radicale di eliminare dalla liturgia ogni composizione umana, inficiata di concetti gnostici, e di usare soltanto il salterio, quale testo sicuro per il canto liturgico. Tale situazione dopo una ulteriore riduzione di sequenze e tropi in eccesso all’epoca del Concilio Tridentino è giunta fino al Vaticano II.

- II -

Vi è poi un secondo versante. Nella ‘pastorale’ liturgica postconciliare si è operata di fatto una scelta di parte: si è considerato solo il canto popolare religioso (SC 118) tacendo quasi totalmente sul canto gregoriano e sulla polifonia classica (SC 116). Anche la pubblicazione del Graduale simplex, ad uso delle chiese minori (SC 117) “allo scopo di ottenere più efficacemente una partecipazione attiva di tutto il popolo nelle sacre azioni celebrate in canto” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677), - libro liturgico di nuova creazione - non ha sortito nessun significativo e stabile ricorso all’uso del canto gregoriano nelle normali assemblee parrocchiali.
Il silenzio sul gregoriano e la polifonia classica ha privato i riti di un patrimonio liturgico, artistico e spirituale gran-dioso, ha ristretto negli effimeri confini del presente e ha tagliato le radici con la tradizione dei secoli. Le nuove generazioni si sono così trovate a realizzare il prodotto recente delle ultime ‘trovate’ e il loro orizzonte è costretto all’asfissia dell’istante momentaneo e del locale. La loro stessa creatività, priva dell’ossigeno della Tradizione secolare e universale della Chiesa, ne è rattrappita e si chiude davanti a loro la possibilità di un esercizio musicale a servizio della liturgia di alto profilo artistico e di profonda spiritualità. Non può essere normale, né onorevole per la Chiesa che i giovani scoprano il gregoriano e la grande musica polifonica in ambienti profani, come in scuole e concerti, mentre il grembo originale che ha generato tale esperienza offre un livello ormai basso e sterile. La Chiesa Madre e Maestra avrebbe così perduto la sua capacita di educatrice e di guida verso le alte vette dello spirito?
Occorre ritornare al Concilio vero e integrale. Una normale corale di parrocchia non può assolvere il suo servizio riducendo le sue prestazioni musicali all’esecuzione della solo musica d’uso in una estenuante girandola di continue variazioni. Essa deve essere capace di proporre all’assemblea cristiana il canto gregoriano nelle sue principali espressioni, sia quello sillabico della cantillatio e dei salmi, sia quello melismatico degli inni e degli altri testi liturgici. Il novus Ordo Missae è stato riformato in totale continuità con l’Ordo precedente. Infatti rimangono inalterati nel testo e nella loro posizione rituale i canti classici dell’ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi quindi possono e devono poter essere riproposti secondo le modalità gregoriane e polifoniche di sempre. Nessuna parte del rito precedente è stata tolta, ma tutto coincide e questo perché nella mente della Chiesa non si doveva in nulla sacrificare il patrimonio musicale dei secoli codificato nel Graduale Romano, che deve essere tenuto “in sommo onore nella Chiesa per le sue meravigliose espressioni d’arte e di pietà” e deve conservare “integro il suo valore” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677). Il Graduale simplex poi offre possibilità più semplici - adatte ai vari tempi liturgici e alle principali solennità e feste e ai comuni dei Santi - per i canti del proprio: ingresso, salmo responsoriale, presentazione delle offerte, comunione. Non è necessario allora ricorrere alla forma precedente del Messale per ricuperare il canto sacro classico, ma esso è in piena conformità col Messale riformato dal Vaticano II. Questo fatto, nonostante i continui richiami del Magistero della Chiesa, è stato disatteso per decenni e ancor oggi con grande sospetto ci si apre a questa prospettiva.

In questo più vasto orizzonte le Messe gregoriane e quelle polifoniche potranno debitamente continuare a impreziosire la celebrazione liturgica e, da loro formati, i nostri contemporanei potranno procedere ad una autentica creatività, che, fondata sui principi perenni della musica sacra - la santità, la bontà delle forme e l’universalità (Pio X, Motu proprio sulla musica sacra, n. 2) - potrà ancora produrre splendidi frutti e geniali espressioni religiose. La composizione equilibrata tra antico e moderno, dunque, deve ispirare la ricerca e la prassi liturgica, senza elidere alcuno dei due termini.
Che nella Commemorazione di Tutti Fedeli Defunti (2 nov.) si esegua la Messa da requiem gregoriana nella sua completezza, oppure che in talune feste della Madonna si esegua la Missa cum jubilo e in altre occasioni la Missa de Angelis e in altre ancora si ricorra ad una valida Messa polifonica, non può costituire motivo di meraviglia e di contesa nella comunità cristiana. Se questo succede è perché l’interpretazione distorta del Concilio è diventata mentalità comune. Per le grandi composizioni polifoniche si dovrà tuttavia tener sempre presente il principio: “è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella” (Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, n. 23). Occorre perciò che il solenne principio conciliare - “La Musica sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera o favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri” (SC 112) - sia debitamente osservato. Ma siccome il testo liturgico (soprattutto nelle lingue volgari) potrebbe essere rivestito con una musica inadatta e anche banale, giustificata non in base alla sua qualità musicale, ma soltanto per il fatto che rispetta e assume in modo integro il testo previsto dalla liturgia, ecco che l’indicazione di S. Pio X ritorna sempre attuale: “Il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”(Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, II n. 3).

Alla luce di queste parole il canto gregoriano allora non è soltanto un corpus prezioso di canti accanto ad altri generi di musica sacra, ma, secondo la mente della Chiesa latina, ne è il referente e la base interiore che deve costituire l’anima per ogni musica autenticamente sacra e liturgica. Dobbiamo convenire che oggi nella realtà quotidiana delle nostre parrocchie non è facile impostare questo ragionamento. Tuttavia se si vuole una vera ed efficace verifica nel campo della musica liturgica si deve serenamente affrontare quello che in realtà è il pensiero ufficiale della Chiesa e il tenore dei suoi documenti.

Fonte: www.liturgiaculmenetfons.it.

domenica 25 dicembre 2011

Messaggio Urbi et Orbi del Papa

Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.

Così lo invoca un’antica antifona liturgica: “O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio”. Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Cari fratelli e sorelle, questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cfr Sal 40,3).

Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa “Salvatore” (cfr Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cfr Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: “Veni ad salvandum nos! - Vieni a salvarci!”.

Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati (cfr Est [greco] 10,3f). Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.

Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cfr Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.

Perciò, cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, in questo Natale 2011, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: “Vieni a salvarci!”. Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.

Insieme invochiamo il divino soccorso per le popolazioni del Corno d’Africa, che soffrono a causa della fame e delle carestie, talvolta aggravate da un persistente stato di insicurezza. La Comunità internazionale non faccia mancare il suo aiuto ai numerosi profughi provenienti da tale Regione, duramente provati nella loro dignità.

Il Signore doni conforto alle popolazioni del Sud-Est asiatico, particolarmente della Thailandia e delle Filippine, che sono ancora in gravi situazioni di disagio a causa delle recenti inondazioni.

Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo, incoraggiando la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. Faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato. Favorisca la piena riconciliazione e la stabilità in Iraq ed in Afghanistan. Doni un rinnovato vigore nell’edificazione del bene comune a tutte le componenti della società nei Paesi nord africani e mediorientali.

La nascita del Salvatore sostenga le prospettive di dialogo e di collaborazione in Myanmar, nella ricerca di soluzioni condivise. Il Natale del Redentore garantisca stabilità politica ai Paesi della Regione africana dei Grandi Laghi ed assista l’impegno degli abitanti del Sud Sudan per la tutela dei diritti di tutti i cittadini.

Cari fratelli e sorelle, rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: “Veni ad salvandum nos!”.

Buon Natale

«Oggi,
nella città di Davide,
è nato per voi un Salvatore,
che è Cristo Signore.
Questo per voi il segno:
troverete un bambino
avvolto in fasce,
adagiato in una mangiatoia
».


A tutti i lettori del blog
e del sito web della Parrocchia
Santo Stefano Protomartire del
Duomo di Caorle i più sinceri e
calorosi auguri di un sereno e
santo Natale.


sabato 24 dicembre 2011

Il patriarca Marco Cè sul Natale

Riporto la prima parte dell'intervista al patriarca emerito cardinale Marco Cè sul Natale, andata in onda ieri sera alle 18:50 sull'emittente televisiva delle diocesi del Triveneto Telechiara.

Natale di crisi e di speranza
Intervista di Cristina Pagnin e Giorgio Malavasi

È Natale, ma per moltissime persone questo è un Natale difficile; stiamo vivendo, Eminenza, una crisi pesante, una crisi dolorosa, guardando a quello che sta succedendo nel nostro paese e in Europa. Sentiamo ogni giorno notizie difficili dai telegiornali e dalle radio, ma cominciamo anche ad avvertire dai discorsi delle persone che ci stanno vicine e dai nostri parenti la difficoltà di questo momento. Allora è difficile non sentirci un po' scossi e spaventati da queste difficoltà: la crisi, infatti è economica ma non solo economica.
Su questa crisi quale luce può gettare il Natale?


Un Natale tribolato, una situazione tribolata e credo anche di grande sofferenza, da noi in Italia per la crisi e nel mondo per le guerre, per le ingiustizie e per la fame. Però il Natale ci porta una grande verità: che Dio è presente in questo mondo; e che Dio è Padre, Lui ci ha fatti e noi siamo suoi. Dio è Padre e quindi prende in mano questa situazione, e certamente la apre alla speranza per tutti i cuori che cercano speranza, che si aprono a questo messaggio che il Natale ci porta. Perché il Natale ci dice non solo che Dio è presente, che Dio è Padre, ma che Dio ci ha mandato il Figlio, che si è fatto carne, dice Giovanni; carne vuol dire “uomo fragile”, “uomo debole”, uomo che è capace di soffrire, che conosce il soffrire. E Gesù è passato attraverso tutta la sofferenza umana, l'ha fatta propria; per dirci che cosa? Che il nostro soffrire non è estraneo a Dio, che Dio è presente, è vicino in queste situazioni, e porta con noi queste situazioni. E se Dio porta con noi queste situazioni non dobbiamo disperare.
Il Natale ci dice un'altra cosa: che il Figlio di Dio incarnandosi, facendosi uomo, si è in qualche modo misteriosamente ma realmente unito a tutti gli uomini, credenti e non credenti; e quindi Dio ci ha fatti fratelli, Dio ha creato una grande solidarietà fra tutti gli uomini: la solidarietà dei figli di Dio, della famiglia dei figli di Dio. E questo ci dice che a Natale, mentre dobbiamo guardare al Figlio di Dio che si fa uomo, dobbiamo guardarci anche fra di noi, vedendo nel volto dell'altro il fratello: in Cristo noi siamo diventati fratelli. Quindi dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri, come Dio, a Natale, si è preso cura di noi. Un messaggio, quindi, di speranza ma anche di solidarietà.

Eminenza, a questo proposito, il fatto che Dio si sia fatto prossimo a noi, familiare a noi, nell'incarnarsi, nel suo venire nella grotta di Betlemme, il fatto che in questo modo noi siamo familiari gli uni gli altri, fratelli gli uni gli altri, perché vale la pena di vivere concretamente, in prima persona, nella propria carne, questa esperienza di familiarità a Dio che si è fatto uomo e perché conviene questa esperienza di fratellanza con gli altri uomini?

Non solo perché personalmente ci dà speranza e ci dà fiducia, ci apre gli orizzonti, ma perché ci dice che se vogliamo essere fedeli a questa solidarietà che il Natale crea in noi, solidarietà in Cristo, noi dobbiamo condividere questo dono con i nostri fratelli. Il Natale è un messaggio di amicizia con e di familiarità con Dio, ma è anche un grande messaggio di condivisione fra di noi. È un dono e una grazia che non va consumata ciascuno per sé, come un bambino viziato che mangia da solo la caramella che ha ricevuto, è un dono che noi fratelli dobbiamo condividere, dobbiamo spezzare con gli altri. Questa è un'urgenza che a Natale si fa presente: gli altri sono il volto di Cristo. Nel Vangelo è scritto: Avete dato un pane all'affamato, avete vestito l'ignudo, avete accolto l'estraneo... tutto quello che voi avete fatto al più piccolo l'avete fatto a me. Non dice a chi condivide la tua fede, ma al più piccolo, al più bisognoso dei miei fratelli. Il Natale è questo grande messaggio di fraternità e di condivisione; di impegno a prendersi cura gli uni degli altri.

Purtroppo, dicevamo Eminenza, la crisi non è più solo economica, ma è anche una crisi degli affetti e delle relazioni; lei che continua, per esempio, a guidare e a incontrare moltissime persone e moltissime famiglie, anche durante gli esercizi spirituali che tiene a Cavallino, può vedere, forse, e toccare con mano le difficoltà che moltissime famiglie, anche coppie, o fratelli e sorelle, hanno oggi nel ritrovarsi. C'è una crisi delle relazioni umane che forse è ancora più dolorosa della crisi economica e che la crisi economica a volte aggrava, perché la perdita del lavoro, per esempio, ma anche la difficoltà nel pagare un mutuo o l'affitto, rende le persone più dure, forse, più insensibili agli altri. Allora a queste persone, a un marito e a una moglie che stanno vivendo una difficoltà, a un fratello e a una sorella, a un genitore e a un figlio lei che cosa potrebbe dire oggi?

Oggi c'è tanta sofferenza nelle famiglie. C'è tanto bene, io facendo gli esercizi e accostando molte persone devo dire che trovo tante cose belle, direi veramente la santità cristiana è condivisa tra tante persone, una santità che non si vede ma che è reale, vera, autentica: la santità del quotidiano, del sacrificio quotidiano, dell'amore quotidiano e del prendersi cura quotidiano. Quindi c'è tanto bene nelle persone; ma c'è anche tanta sofferenza. Accostando le famiglie, accostando i genitori e accostando gli anziani io trovo tanta sofferenza, che è provocata dalla fragilità, oggi diffusa, degli affetti familiari, per cui le famiglie spesso si dividono; la sofferenza della perdita di lavoro o del fatto dei giovani che sono in casa e che non trovano lavoro e i genitori e i nonni soffrono. Ebbene, a queste persone che cosa puoi dire? Io, prete, posso farci poco; però vedo che le parole della fede scendono nel cuore e portano la pace. Questo Gesù, che un giorno ci ha detto, alla fine della vita, “voi mi lasciate solo, ma io non sono solo perché il Padre è con me” ci insegna che nelle nostre solitudini, anche affettive, che Lui ha condiviso – perché Gesù è passato attraverso la solitudine affettiva, attraverso il rifiuto: “Venne in mezzo ai suoi e i suoi non l'hanno accolto”, non dimentichiamo che il figlio di Dio a Betlemme non ha trovato un luogo conveniente per nascere, è nato in un luogo di animali, e sua Madre avvoltoLo in fasce lo ha deposto in una mangiatoia, cosa per noi impensabile, e che durante la sua passione e morte è stato solo – la parola della fede, la solidarietà di Gesù che è passato attraverso questa sofferenza, questa solitudine della persone, è un olio, un balsamo che apre alla speranza e consente alle persone non soltanto di durare, ma anche di continuare a cercare, di continuare a impegnarsi di trovare una soluzione a questa situazione.
Gesù ci dice una grande cosa: che il male non è ineluttabile, non è il senso ultimo della nostra vita, che la storia non va per le sue strade, la storia è nelle mani di Dio. Esemplare è la pagina del Natale: il Figlio di Dio, il Messia, secondo le profezie dell'Antico Testamento, deve nascere a Betlemme, la città di Davide, perché è un discendente di Davide – anche nell'Annunciazione il Figlio di Dio, dall'Angelo, viene presentato come discendente di Davide, per cui eredita la realtà e la regalità di Davide – ma la famigliola di Giuseppe e di Maria è a Nazareth; per spostare questa umilissima famiglia di carpentieri, questi due giovani umili e poveri, e far sì che il Bambino nasca a Betlemme interviene addirittura l'imperatore di Roma che indice un censimento per tutto il mondo. Quindi il filo della storia è nelle mani di Dio; nel rispetto delle libertà Dio sa muovere la storia perché vada verso quell'approdo di salvezza a cui lui la chiama e per la quale manda suo Figlio. Quindi la visione di un credente e la parola che il Natale offre a tutti, anche a un credente, è una parola di speranza, anche come sguardo sulla storia.

L'intera intervista è ascoltabile sul canale Youtube di Telechiara, compresa la seconda parte, qui non riportata:

giovedì 22 dicembre 2011

La liturgia del Natale secondo il Papa

Voglio riportare un articolo di Massimo Introvigne apparso ieri sul periodico telematico La Bussola Quotidiana a commento delle parole di Papa Benedetto XVI durante l'ultima udienza generale prima del Natale. Abbandonando per l'occasione il tema della preghiera, che aveva da qualche settimana contraddistinto le udienze generali, il pontefice si è soffermato sul senso della festività del Natale, e sui rischi sempre più concreti di una sua banalizzazione. «La verità del Natale», leggiamo nell'articolo di Introvigne, «si trova nella liturgia; con la liturgia natalizia la Chiesa ci introduce nel grande Mistero dell’Incarnazione». Ma il pericolo che vede anche il Santo Padre per i cattolici è quello di considerare le celebrazioni natalizie come un semplice anniversario della nascita di Gesù Cristo a Betlemme, la memoria di un evento accaduto più di duemila anni fa ed ora completamente terminato. Il Papa, invece, dice che celebrare il Natale «è celebrare un Mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo - Dio stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), si è fatto uno di noi -; un Mistero che interessa la nostra fede e la nostra esistenza; un Mistero che viviamo concretamente nelle celebrazioni liturgiche, in particolare nella Santa Messa». Non la celebrazione di un anniversario, quindi, ma di un oggi: celebrare la liturgia del Natale significa rivivere oggi, nel presente, l'Incarnazione del Verbo di Dio, così come accade nella liturgia. D'altra parte molte cose della liturgia di questi giorni e dei giorni a venire sottolineano questo carattere di contemporaneità: il Santo Padre poneva l'attenzione sul ritornello del salmo responsoriale della notte di Natale, Oggi è nato per noi il Salvatore; ma pensiamo anche all'antifona al Magnificat dei Secondi Vespri della solennità, dove per ben quattro volte si canta "Hodie" (oggi); e alle antifone in O, che in questo periodo stiamo cantando durante la Novena di Natale, dalle quali, alle soglie del Natale, si svela il messaggio nascosto "Sarò Domani". La liturgia, quindi, non ci fa contemplare un evento lontano e concluso, ma ci dice con insistenza che il Natale avviene oggi. Vi lascio, dunque, all'articolo di ieri de "La Bussola Quotidiana".

Il Papa: «La liturgia svela la verità del Natale»
Di Massimo Introvigne

A pochi giorni dal Natale, Benedetto XVI ha interrotto nell'udienza generale del 21 dicembre la sua «scuola della preghiera» per riflettere sul vero senso della festa della Natività e sui rischi di una sua banalizzazione. «Facciamo in modo che, anche nella società attuale, lo scambio degli auguri non perda il suo profondo valore religioso, e la festa non venga assorbita dagli aspetti esteriori, che toccano le corde del cuore. Certamente, i segni esterni sono belli e importanti, purché non ci distolgano, ma piuttosto ci aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, quello sacro e cristiano, in modo che anche la nostra gioia non sia superficiale, ma profonda».

La verità del Natale, ha detto il Papa, si trova nella liturgia. «Con la liturgia natalizia la Chiesa ci introduce nel grande Mistero dell’Incarnazione». Questo mistero, ha spiegato il Pontefice, riguarda il presente e non solo il passato. «Il Natale, infatti, non è un semplice anniversario della nascita di Gesù, è anche questo, ma è di più, è celebrare un Mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo - Dio stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), si è fatto uno di noi -; un Mistero che interessa la nostra fede e la nostra esistenza; un Mistero che viviamo concretamente nelle celebrazioni liturgiche, in particolare nella Santa Messa».

Naturalmente per considerare il Natale un fatto di oggi, e non un semplice anniversario, occorre la fede. «Qualcuno potrebbe chiedersi: come è possibile che io viva adesso questo evento così lontano nel tempo? Come posso prendere parte fruttuosamente alla nascita del Figlio di Dio avvenuta più di duemila anni fa?». La risposta si trova, ancora, nella liturgia. «Nella Santa Messa della Notte di Natale, ripeteremo come ritornello al Salmo Responsoriale queste parole: "Oggi è nato per noi il Salvatore"». È molto importante, ha sottolineato il Papa, riflettere sul fatto che «questo avverbio di tempo, "oggi", ricorre più volte in tutte le celebrazioni natalizie». Questa insistenza ha un significato preciso. «Nella Liturgia tale avvenimento oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo e diventa attuale, presente; il suo effetto perdura, pur nello scorrere dei giorni, degli anni e dei secoli».

Ricordandoci «che Gesù nasce "oggi", la Liturgia non usa una frase senza senso, ma sottolinea che questa Nascita investe e permea tutta la storia, rimane una realtà anche oggi alla quale possiamo arrivare proprio nella liturgia». Almeno per i credenti, «la celebrazione del Natale rinnova la certezza che Dio è realmente presente con noi, ancora "carne" e non solo lontano: pur essendo col Padre è vicino a noi. Dio, in quel Bambino nato a Betlemme, si è avvicinato all’uomo: noi Lo possiamo incontrare adesso, in un "oggi" che non ha tramonto».

Il Pontefice afferma di volere «insistere su questo punto, perché l’uomo contemporaneo, uomo del "sensibile", dello sperimentabile empiricamente, fa sempre più fatica ad aprire gli orizzonti ed entrare nel mondo di Dio». A quest'uomo contemporaneo va anzitutto ricordato che il Natale è un fatto, non una favola o un mito. «La redenzione dell’umanità avviene certo in un momento preciso e identificabile della storia: nell’evento di Gesù di Nazaret; ma Gesù è il Figlio di Dio, è Dio stesso, che non solo ha parlato all’uomo, gli ha mostrato segni mirabili, lo ha guidato lungo tutta una storia di salvezza, ma si è fatto uomo e rimane uomo. L’Eterno è entrato nei limiti del tempo e dello spazio, per rendere possibile "oggi" l’incontro con Lui».

Nello stesso tempo l'evento del Natale, senza nulla perdere della sua storicità, diventa parte integrante del tempo presente nella vita spirituale e nella liturgia. «I testi liturgici natalizi ci aiutano a capire che gli eventi della salvezza operata da Cristo sono sempre attuali, interessano ogni uomo e tutti gli uomini. Quando ascoltiamo o pronunciamo, nelle celebrazioni liturgiche, questo "oggi è nato per noi il Salvatore", non stiamo utilizzando una vuota espressione convenzionale, ma intendiamo che Dio ci offre "oggi", adesso, a me, ad ognuno di noi la possibilità di riconoscerlo e di accoglierlo, come fecero i pastori a Betlemme, perché Egli nasca anche nella nostra vita e la rinnovi, la illumini, la trasformi con la sua Grazia, con la sua Presenza». Così il Natale, rimanendo un fatto storico preciso, diventa «evento efficace per noi».

Se ci lasciamo guidare dalla liturgia, scopriamo anche un secondo aspetto essenziale del Natale: il suo legame con la Pasqua. La liturgia ci ripete che «l’evento di Betlemme deve essere considerato alla luce del Mistero Pasquale: l’uno e l’altro sono parte dell’unica opera redentrice di Cristo. L’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione. La Pasqua la celebra come vittoria sul peccato e sulla morte: segna il momento finale, quando la gloria dell’Uomo-Dio splende come la luce del giorno; il Natale la celebra come l’entrare di Dio nella storia facendosi uomo per riportare l’uomo a Dio: segna, per così dire, il momento iniziale, quando si intravede il chiarore dell’alba».

Perfino le stagioni aiutano a capire la liturgia. «Anche i due periodi dell’anno, in cui sono collocate le due grandi feste, almeno in alcune aree del mondo, possono aiutare a comprendere questo aspetto. Infatti, mentre la Pasqua cade all’inizio della primavera, quando il sole vince le dense e fredde nebbie e rinnova la faccia della terra, il Natale cade proprio all’inizio dell’inverno, quando la luce e il calore del sole non riescono a risvegliare la natura, avvolta dal freddo, sotto la cui coltre, però, pulsa la vita e comincia di nuovo la vittoria del sole e del calore».

Né si tratta solo di teologia e di simboli. «Nel Natale noi incontriamo la tenerezza e l’amore di Dio che si china sui nostri limiti, sulle nostre debolezze, sui nostri peccati e si abbassa fino a noi». Questa è la verità, storica e liturgica, della «grotta di Betlemme: Dio si abbassa fino ad essere adagiato in una mangiatoia, che è già preludio dell’abbassamento nell’ora della sua passione. Il culmine della storia di amore tra Dio è l’uomo passa attraverso la mangiatoia di Betlemme e il sepolcro di Gerusalemme».

A Natale, ha concluso il Papa, i buoni cattolici vanno a Messa, e sanno che l'essenziale della festa è «la celebrazione dell’Eucaristia, centro del Santo Natale; lì si rende presente in modo reale Gesù, vero Pane disceso dal cielo, vero Agnello sacrificato per la nostra salvezza». Solo ricordando che il suo centro è la Messa vivremo «un Natale veramente cristiano, in modo che anche gli scambi di auguri in quel giorno siano espressione della gioia di sapere che Dio ci è vicino e vuole percorrere con noi il cammino della vita».

Fonte: labussolaquotidiana.it

Completo l'articolo con l'antifona gregoriana dei Secondi Vespri di Natale, Hodie Christus Natus est, e con una sua versione polifonica del compositore olandese Jan Pieterszoon Sweelinck.



martedì 20 dicembre 2011

Omelia sull'Ave di padre Konrad Zu Loewenstein

Riporto la predica di padre Konrad Zu Loewenstein FSSP, cappellano per i fedeli che seguono il rito antico del patriarcato di Venezia, pronunciata domenica scorsa, quarta di Avvento, nella chiesa di San Simeon Piccolo di Venezia.

Predica della Quarta Domenica di Avvento
Di Padre Konrad Zu Loewenstein FSSP

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
In questo sacro Tempo di Avvento, carissimi fedeli, un tema costante nella Santa Messa come oggi dell'Offertorio, è quello della Salutazione Angelica, l'Ave Maria, perciò volgiamo oggi, in quest'ultima domenica prima di Natale un breve sguardo su questo tema, ossia, sulla sola parola "Ave".
Ave significa pace e gioia, pace non solo per infondere la pace nell'anima della Madonna, ma innanzi tutto perché l'Annunciazione è una ambasciata di pace mediante cui Dio e l'uomo saranno riconciliati, una ambasciata di pace mediante cui Dio si unirà all'uomo per vincere il suo nemico, per riparare i danni fatti dall'uomo e per soggiogare il mondo intero al Regno pacifico ed eterno di Colui che è il Principe della Pace.
Pace e gioia, la gioia che viene dai beni elargiti da Dio sulla Santissima Madre di Dio, nelle parole di san Bernardo: l'estinzione della concupiscenza, il dominio e il primato di tutto l'Universo, la pienezza di tutte le grazie, di tutte le virtù, di tutti i doni, di tutte le beatitudini, di tutti i frutti dello Spirito, di tutte le scienze, della interpretazione dei sermoni, degli spiriti della profezia, dei discernimenti degli spiriti, delle operazioni delle virtù, la fecondità della verginità, la maternità del Figlio di Dio, l'essere Stella del mare, la Porta del Cielo e soprattutto la Regina della Misericordia.

Se era grande la gioia della Madonna che derivò dal possesso di tutti questi beni, infinitamente più grande era la gioia che derivò dal possesso di quel bene che è il Suo Bene, Dio stesso, perché con l'Incarnazione la Santissima Vergine Maria ha preso possesso in modo perfetto, in quanto era possibile ad un essere umano, di Dio stesso, la Seconda Persona della Santissima Trinità fatta Uomo, ha preso possesso di Lui in modo perfetto sia fisicamente, sia spiritualmente. Fisicamente in quanto l'ha contenuto nel Suo corpo stesso, nel paradiso terrestre del Suo grembo immacolato, secondo la parola di Geremia: "la donna cingerà l'uomo", e l'ha posseduto in modo perfetto spiritualmente in quanto la Sua anima, per questo scopo, fu fornita di tutte le grazie, le virtù e di tutti i doni di cui abbiamo già parlato.
Ma siccome l'Arcangelo san Gabriele annuncia la pace non solo alla Madonna, ma anche a tutto il genere umano, così anche la gioia, perché con la nascita del Suo Figlio, come recitiamo nel Prefazio della Madonna: "versò sul mondo la luce eterna" sul mondo e in cielo, quella Luce eterna che è Gesù, che nelle parole dell'inno "è l'allegria dei cuori, la gioia delle valli, e il dolce premio della vita", e questa gioia celeste siamo capaci di possederla anche noi come un oggetto, non come un oggetto qualsiasi, ma come la Madonna stessa, anche se in grado inferiore, possederla in noi, perché il Signore stesso ha detto: "affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena", la possediamo in noi nella inabitazione sostanziale della Santissima Trinità, quando siamo nello stato di grazia, e nella Santa Comunione.

Ma c'è un altro significato della parola Ave che è "viva", che si riferisce ad Eva madre dei viventi. Chiamando la Madonna "viva" l'Arcangelo dunque, la dichiara "vera Madre dei viventi", vera madre dei viventi perché vera Madre della vera Vita che è Dio stesso, e perché vera Madre della Vita, la vera vita degli uomini che è la vita della Grazia, la Vita Eterna. E se la Madonna è la vera Madre della Vita, Eva non è la vera madre della vita, bensì la madre della Morte, perché la vita terrestre è la Morte in confronto alla Vita di Grazia e perché lei è la causa della nostra morte fisica, di tutti i suoi discendenti, tranne la Madonna, e della morte spirituale, dell'Inferno.
Questo contrasto tra la Madonna ed Eva la Chiesa lo vede espresso nel fatto che la parola Ave è l'inversione della parola Eva, come cantiamo nell'Inno Ave Maris Stella:
Sumens illud ave (...) Mutans Evae nomen/ Accogliendo quell'"Ave" (...) il nome mutante di Eva...
e la Chiesa considera che come Ave è l'inversione di Eva, la Madonna converte in benedizione tutte le maledizioni di Eva.
Questo contrasto tra la Madonna ed Eva, la Patristica lo espone come contrasto tra una vergine sciocca ed una vergine prudente, una donna superba ed una donna umile, la prima che fa assaporare dell'albero della morte, la seconda che fa assaporare dell'albero della vita, la prima l'amarezza di un cibo velenoso, la seconda la dolcezza di un Frutto Eterno.
Ora, la dolcezza di questo Frutto Eterno è il Frutto del Seno della Santissima Vergine Maria, e che desideriamo gustare a Natale, che desideriamo gustare e guardare con i propri occhi dopo questo nostro esilio, mostratoCi dalla Sua tenerissima Madre, Lui che è l'allegria dei cuori, il gaudio delle lacrime, il dolce premio della vita.
Amen.

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
Sia lodato Gesù Cristo +

Fonte: sansimeonpiccolo.blogspot.com.

Un piccolo contributo musicale: l'Ave Maris Stella in gregoriano e nella versione di Guillaume Dufay:



sabato 17 dicembre 2011

Le antifone in O

Inizia oggi la seconda parte del Tempo di Avvento, quella che ci orienta a celebrare la prima venuta del Nostro Signore Gesù Cristo nel Natale. Questo periodo liturgico particolare è contraddistinto dalla preghiera della Novena di Natale, con il Canto delle profezie, e da una serie di sette antifone, da cantare come antifone al Magnificat dei vespri di questi giorni, che ci accompagneranno da oggi fino all'antivigilia di Natale. Si tratta di invocazioni al nostro Redentore che sta per venire: hanno la particolarità di cominciare tutti con l'interiezione "O", per questo sono conosciute anche come "antifone in O", seguite da un titolo del Salvatore: Sapientia, Adonai (che significa Signore), Radix Jesse (Radice di Iesse), Clavis David (Chiave di Davide), Oriens (Sole che sorge), Rex gentium (Re delle genti) e Emmanuel (Dio con noi). Componendo le iniziali di questi titoli in ordine inverso, dall'ultimo al primo, si forma l'acrostico "Ero cras", che vuole essere la risposta di Gesù Cristo alle insistenti invocazioni novendiali; significa infatti "Sarò domani".
Ho già dedicato l'anno scorso un articolo per ognuna delle sette antifone in O, che vi ripropongo di seguito; quest'anno, prendendo spunto dal blog Cantuale Antonianum, vorrei offrire una versione polifonica di queste antifone, di Marc-Antoine Charpentier (1643-1704). Nel primo dei video sottostanti trovate le prime tre antifone (in realtà cominciano dal minuto 2:36, poiché "O Salutaris Hostia" non fa parte delle antifone maggiori della Novena di Natale), mentre nel secondo vi sono le rimanenti quattro.





17 dic. O Sapientia,
quae ex ore Altissimi prodisti,
attingens ad finem usque ad finem
fortifer,
suaviter disponensque omnia:
veni ad docendum nos
viam prudentiae.
O Sapienza,
che esci dalla bocca dell'Altissimo,
ed arrivi ai confini della terra
con forza,
e tutto disponi con dolcezza:
vieni ad insegnarci
la via della prudenza.
18 dic. O Adonai,
et dux domus Israël,
qui Moysi in igne flammae rubi
apparuisti,
et ei in Sina
legem dedisti:
veni ad redimendum nos
in brachio extento.
O Adonai
e guida della casa d’Israele,
che a Mosè nel fuoco del roveto
sei apparso,
e sul monte Sinai
gli hai dato la legge:
vieni a liberarci
con braccio potente.
19 dic. O Radix Jesse,
qui stas in
signum populorum,
super quem continebunt reges os suum,
quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos,
jam noli tardare.
O radice di Iesse,
che ti innalzi come
segno per i popoli,
tacciono davanti a te i re della terra,
e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci,
non tardare.
20 dic. O Clavis David,
et sceptrum domus Israël,
qui aperis, et nemo claudit,
claudis, et nemo aperuit:
veni, et educ vinctum
de domo carceris,
sedentem in tenebris,
et umbra mortis.
O Chiave di Davide,
scettro della casa d’Israele,
che apri, e nessuno può chiudere,
chiudi, e nessuno può aprire:
vieni, libera l’uomo
prigioniero,
che giace nelle tenebre
e nell’ombra di morte.
21 dic. O Oriens,
splendor lucis aeternae,
et sol justitiae:
veni, et illumina
sedentes in tenebris,
et umbra mortis.
O Oriente,
splendore della luce eterna,
sole di giustizia:
vieni, illumina
chi giace nelle tenebre
e nell’ombra di morte.
22 dic. O Rex gentium,
et desideratus earum,
lapisque angularis,
qui facis utraque unum:
veni, et salva hominem,
quem de limo formasti.
O Re delle genti,
atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare
che riunisci i popoli in uno,
vieni, e salva l’uomo
che hai formato dalla terra.
23 dic. O Emmanuel,
Rex et legifer noster,
expectatio gentium,
et Salvator earum:
veni ad salvandum nos,
Domine, Deus noster.
O Emmanuele,
nostro re e legislatore,
speranza dei popoli
e loro salvezza:
vieni a salvarci,
o Signore nostro Dio.

giovedì 15 dicembre 2011

Nuove prove a difesa di Pio XII

Continuano ad affiorare nuove prove a favore dell'impegno del venerabile papa Pio XII a beneficio anche degli ebrei di Roma durante le persecuzioni naziste degli anni '30 e '40. Subito dopo la sua morte papa Pacelli era acclamato come papa della speranza e defensor civitatis; il popolo dei fedeli lo amava. A partire dal 1963, con la rappresentazione del dramma teatrale del tedesco Rolf Hochhuth "Il Vicario", cominciò a dilagare una crescente disinformazione, diffusa non senza la regia del governo comunista sovietico; come si lesse su Repubblica del 29 marzo 2007, a firma di Marco Ansaldo: «La campagna di disinformazione, nome in codice “Posizione 12”, era stata approvata da Nikita Krusciov con l’intento di screditare moralmente il Papa, facendolo apparire come un gelido simpatizzante dei nazisti e un silenzioso testimone dell’Olocausto. L’apice dell’azione di propaganda sarebbe stata, secondo Pacepa, la rappresentazione nel 1963 della celebre opera teatrale “Il Vicario”, scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth, che demolì la figura di Pacelli, e da cui il regista Costa-Gavras avrebbe tratto nel 2002 il suo film “Amen”». Tale campagna diffamatoria poté diffondersi sfruttando anche alla grande discrezione di Pio XII, il quale agiva nel nascondimento, senza voler essere pubblicamente riconosciuto: in parte per salvaguardare le vite delle persone che aiutava e dei moltissimi vescovi, sacerdoti e suore che, sotto i suoi ordini, agivano contro la persecuzione; in parte per la sua grandissima umiltà e per imitazione di Nostro Signore, che agiva anch'Egli quasi di nascosto operando il bene. L'ultima prova a favore del pontefice romano viene dall'ebreo americano Gary Krupp, di cui ha parlato qualche giorno fa il sito uccronline.it; riporto di seguito l'articolo ivi comparso:

Continua la difesa di Pio XII da parte degli ebrei: trovato nuovo documento
Di Davide Galati su uccronline.it

Gary Krupp, un ebreo americano, è venuto in possesso della lettera di una donna ebrea la cui famiglia si salvo grazie all’intervento diretto del Vaticano. «E’ una lettera insolita, scritta da una donna che vive oggi nel nord dell’Italia e che dice che lei, con sua madre, suo zio e pochi altri parenti era a un’udienza con Pio XII nel 1947», ha dichiarato. Vicino al Papa, durante l’incontro c’era anche monsignor Giovanni Montini, il futuro Papa Paolo VI. Suo zio -ha spiegato Krupp- fissando il Papa disse: “Voi eravate vestito come un Francescano”, poi rivolgendosi a Montini: “e voi come un sacerdote. Mi avete portato fuori dal Ghetto fino in Vaticano”. Montini ha risposto subito: “Silenzio, non dite mai nulla di questa storia”.

Krupp ha parlato di questo documento riconoscendone l’autenticità, innanzitutto per la fonte e poi perché in linea con la personalità di Pio XII, il quale desiderava accertarsi delle cose con i propri occhi, infatti era solito girare in macchina per le zone bombardate di Roma. Secondo Krupp è quindi estremamente credibile che sia entrato nel ghetto per vedere di persona cosa vi accadeva. Gary Krupp e sua moglie Meredith, entrambi ebrei, hanno fondato nel 2002 la fondazione “Pave the Way” per “identificare ed eliminare gli ostacoli non teologici tra le religioni”. Nel 2006 iniziò a studiare la figura di Papa Pio XII e il suo atteggiamento durante la seconda guerra mondiale. «Noi siamo ebrei. Siamo cresciuti odiando il nome di Pio XII», dice. «Credevamo fosse un antisemita e un collaboratore dei Nazisti. Credevamo tutto quello che era stato affermato su di lui». Ma quando ha iniziato a studiare i documenti dell’epoca è rimasto estremamente sorpreso e «la sorpresa si tramutò in rabbia perchè mi era stato mentito», ha affermato.

Oggi Krupp, e come lui il rabbino David G. Dalin e tanti altri, concorda fermamente con le conclusioni di Pinchas Lapide, storico ebreo e diplomatico Israeliano che disse che le azioni dirette di Papa Pio XII e del Vaticano salvarono circa 897.000 ebrei durante la guerra. “Pave the Way” ha raccolto oltre 46.000 pagine di documenti storici che lo provano e sul proprio sito web pubblica numerose interviste di testimoni oculari e storici. «Credo che sia una responsabilità morale, questo non ha nulla a che vedere con la Chiesa Cattolica», ha dichiarato, «riguarda solo la responsabilità ebraica di riconoscere un uomo che ha agito per salvare un’enorme numero di ebrei in tutto il mondo mentre era circondato da forze ostili, spiate e sotto minaccia di morte». Krupp ha spiegato che Pio XII usò la rete globale di ambasciate della Santa Sede per aiutare gli ebrei a fuggire dall’Europa occupata. In un caso il Vaticano chiese, segretamente, alla repubblica Dominicana i visti (800 in una volta) per aiutare la fuga degli ebrei. Con questa sola iniziativa si stima che abbia salvato oltre 11.000 ebrei tra il 1939 e il 1945. Inoltre i conventi e i monasteri di Roma (territorio neutrale durante la Guerra) furono usati come nascondigli per gli ebrei.

Dopo la sua elezione al soglio pontificio nel 1939, A. W. Klieforth, il console generale americano a Colonia, inviò un telegramma segreto al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti illustrando i sentimenti di Papa Pio XII nei confronti del Nazismo in Germania. Krupp descrive la reputazione del Papa come luminosa e intatta fino a quando, nel 1963, lo scrittore tedesco Rolf Hochhuth scrisse la sua commedia “Il Vicario”. Egli ritrasse Papa Pio come un ipocrita che rimase in silenzio riguardo la persecuzione degli ebrei e da lì è nata la leggenda, ripresa da anticlericali e anticattolici. Il sito internet di “Pave the Way” porta la testimonianza di un ex ufficiale del KGB, Mihai Pacepa, che sostiene come quello di macchiare la reputazione del Papa fosse un piano sovietico. L’obiettivo dei comunisti sarebbe stato di «screditare il Papa dopo la sua morte, per distruggere la reputazione della Chiesa Cattolica e, più importante per noi, per isolare gli ebrei dai Cattolici. E sono riusciti bene nei loro intenti», ha sostenuto l’ebreo.

Concludendo, ritiene comunque che oggi la diga stia cedendo e ci sia una fondamentale revisione dei fatti che riguardano Papa Pio XII durante il tempo di guerra. Paradossalmente, conclude, ha dichiarato di trovare più resistenza su Pacelli quando parla nelle parrocchie cattoliche piuttosto che nelle sinagoghe ebraiche.

mercoledì 14 dicembre 2011

Tesori d'arte sacra: l'affresco di Santa Lucia

Data la vicinanza con la memoria di Santa Lucia vergine e martire, celebrata proprio ieri, per l'appuntamento mensile con i tesori d'arte sacra del nostro Duomo abbandoniamo temporaneamente le opere d'arte della navata sinistra per spostarci all'affresco che raffigura la santa di Siracusa, sulla parete della navata destra, vicino alla porta che dà sulla sacrestia. Si tratta di un affresco Trecentesco, costituito da una parte centrale principale e da una cornice di dieci riquadri. La parte predominante è quella in cui è rappresentata Santa Lucia, secondo i criteri iconografici che la contraddistinguono tradizionalmente: regge con la mano sinistra il ramo di palma e porta sulla testa la corona, simboli del martirio che troviamo anche nel libro dell'Apocalisse. La corona può voler altresì indicare le nobili origini della santa, nata nel terzo secolo da una nobile famiglia, come conferma anche il suo vestimento. Con la mano sinistra, accostata alla palma, regge un piatto contenente gli occhi, altro elemento molto comune nelle raffigurazioni di questa santa, invocata come patrona dei non vedenti; tuttavia, al contrario di quanto si potrebbe credere, ciò non ha a che fare con le vicende della sua vita o del suo martirio: tale fama le deriva infatti dal suo nome, Lucia, che ha come radice la parola luce. L'intera figura della santa si staglia su uno sfondo molto particolare, nel quale è riconoscibile la città di Caorle, col suo caratteristico campanile cilindrico e quello quadrangolare della chiesa dell'Angelo, sul quale sta sorgendo il sole: l'affresco è realizzato, infatti, affinché l'osservatore guardi verso oriente (la prospettiva dalla quale è possibile vedere il panorama dipinto alle spalle di Santa Lucia è visibile soltanto guardando verso est), ed il cielo si sta progressivamente rischiarando, passando dal classico colore rosso dell'alba a quello ancora scuro del cielo mattutino. L'oriente è chiaramente il simbolo di Gesù Cristo, rappresentato già nel cantico di Zaccaria (Lc 1, 68-79) come Oriens ex alto (sole che sorge dall'alto), usato soprattutto nella costruzione delle chiese (un tempo tutte posizionate lungo l'asse ovest-est, con l'entrata principale ad ovest e l'altare maggiore ad est, come le chiese più antiche di Caorle), di modo che i fedeli ed il sacerdote potessero, durante la Messa e le altre funzioni, guardare ad Orientem, cioè simbolicamente verso Cristo. Il panorama caorlotto alle spalle di Santa Lucia, quindi, ha non solo la funzione di far sentire la santa più vicina ai suoi devoti, alludendo al fatto che ella protegge la città, ma ha anche quest'altro scopo, più nascosto, di voler indicare l'Oriente, tramite anche il colore del cielo; ed il fatto di aver contestualizzato la figura della santa nel paesaggio illuminato dal sole che sorge vuole indicare che la vita dei santi, nella fattispecie di Santa Lucia, è nascosta nella vita e nel martirio di Gesù Cristo. Non solo; il devoto, che guarda alla rappresentazione della santa, guarda contemporaneamente a Gesù Cristo, del quale la sua patrona ha ricalcato le orme. Ecco una risposta (datata 1300) agli ateisti e laicisti, detrattori del culto dei santi nella Chiesa cattolica: essi non sono come tanti "dei", ma piuttosto come degli esempi, che hanno saputo vivere come Gesù Cristo, e guardare a loro significa guardare a Lui. Non dimentichiamo, poi, che la prassi di dipingere le figure dei santi in panorami il più possibile riconducibili alla realtà osservabile è dovuta in particolare a Giotto, di poco precedente all'artista che ha realizzato questo affresco, il quale sostituì il fondo oro tipico tipico delle icone precedenti, che aveva la funzione di indicare la realtà ultraterrena del paradiso. In questo affresco, quindi, abbiamo forse uno dei primi esempi dell'utilizzo anche dello sfondo e della realtà terrena per comunicare dei messaggi teologici a chi osserva l'opera.
Veniamo ora ai dieci riquadri che incorniciano la parte centrale, e che rappresentano le scene della vita di Santa Lucia, così come le racconta la tradizione agiografica. Partendo dal riquadro in basso a sinistra e procedendo in senso orario, scorgiamo dapprima la scena della nascita di Lucia a Siracusa; è rimasta, in questo caso, anche traccia della didascalia, che in altri riquadri è purtroppo andata perduta. Subito sopra si passa alle vicende che hanno portato al martirio: vediamo la madre di Lucia adagiata sul letto, poiché colpita da una grave emorragia, e la figlia che la convince a far visita al corpo di sant'Agata, cui erano entrambe molto devote, custodito a Catania. Nella scena soprastante, infatti, le vediamo in cammino, come ci conferma la didascalia. Durante la Santa Messa a cui assistettero udirono il Vangelo della guarigione da parte di Gesù della donna emorroissa, e Lucia invitò la madre a sfiorare con fede la pietra del sepolcro, certa dell'intercessione della santa; lei stessa, invece, cadde in un sonno estatico, durante il quale le apparve sant'Agata, come mirabilmente rappresentato nel riquadro in alto a sinistra: la santa le preannuncia il martirio, come pochi anni prima era toccato anche a lei. Di questa vicenda Lucia rimase profondamente entusiasta, e confidò alla madre di voler consacrarsi totalmente al Signore, con la verginità del corpo e donando la cospicua parte di patrimonio paterno che le spettava ai poveri; la madre, dapprima riluttante all'idea di negare al promesso sposo di Lucia la ricca dote, si lasciò convincere, anche a motivo della guarigione ottenuta presso sant'Agata, e nel secondo riquadro in alto la vediamo mentre tenta di placare la veemenza del promesso sposo di Lucia, dicendogli che la dote è stata impegnata in un cospicuo investimento. Egli, però, esacerbato dai continui rinvii delle nozze, si rivolse al governatore Pascasio (terzo riquadro in alto), denunciando Lucia come cristiana. Lucia venne dunque arrestata e condotta dinnanzi al governatore, il quale, come si vede nel riquadro in alto a destra, tentò dapprima di corrompere il suo spirito con la divinazione; quindi, visto il rifiuto di Lucia ad abiurare la fede cristiana, per farla desistere dal proposito di mantenersi casta nel corpo e nello spirito, la costrinse ad andare in un lupanare; ma ella, pregando il Signore e certa del suo voto di castità, fu resa così pesante che nemmeno un carro trainato da innumerevoli buoi (il secondo riquadro in alto a destra) riuscì a smuoverla. Vista la fede incrollabile di Lucia, Pascasio la condannò a morte, bruciandola sul rogo (penultimo riquadro), dal quale ella, però, uscì miracolosamente illesa; nell'ultimo riquadro la vediamo con la gola trafitta da una spada, con la quale il governatore le procurò la morte; ma non la vediamo inerte, bensì viva mentre riceve la Santa Comunione dal sacerdote, in ginocchio e sulla lingua.
Questo affresco ci testimonia, dunque, come l'autentica arte sacra abbia sempre avuto nella Chiesa non solo un compito decorativo, ma anche pratico; attraverso di essa il popolo dei fedeli poteva conoscere la vita dei santi loro patroni, e procedere così confermati alla sequela di Cristo. C'è da augurarsi che sempre l'arte sacra conservi questo ruolo, o meglio lo recuperi, visti i recenti esempi ormai dilaganti di opere d'arte volte soprattutto a celebrarne l'autore piuttosto che in umile atteggiamento di servizio a Gesù Cristo.

domenica 11 dicembre 2011

Quando è nato Gesù Cristo?

Siamo giunti alla terza domenica di Avvento, nella quale la liturgia stessa ci invita ad alzare gli occhi, perché l'attesa del Salvatore sta per compiersi; e ricordiamo che il tempo di Avvento ha in sé una duplice valenza, quella dell'attesa dell'ultima venuta di Cristo nella gloria e quella dell'attesa della prima venuta del Signore, nella grotta di Betlemme più di 2000 anni fa. Vorrei in questo articolo soffermarmi sul Natale, a ormai sole due settimane di distanza; molti infatti oggi si interrogano se Gesù Cristo sia nato veramente il 25 dicembre oppure se questa data sia stata scelta dai primi cristiani dopo la Sua morte, per qualche motivo. Fino agli ultimi anni l'ipotesi più accreditata era proprio quest'ultima, e si adduceva come motivazione della scelta del 25 dicembre la prassi dei primi secoli di "cristianizzare" la vita dei popoli pagani che si convertivano anche sostituendo le ricorrenze pagane con quelle cristiane. Si hanno alcuni esempi di questa usanza, per esempio nello spostamento della festa di Tutti i Santi a ridosso dei riti per l'inizio dell'inverno in voga soprattutto tra le popolazioni germaniche (quelli che oggi conosciamo in parte sotto il nome di Halloween). Così, si pensava, il Natale a dicembre doveva essere usato per prendere il posto delle feste pagane per il solstizio d'inverno, la ricorrenza romana del "Sol invictus". Questa identificazione ha dato adito, senza motivo, ad assurde obiezioni da parte di ateisti e laicisti: secondo costoro la vicinanza del Natale alla festa del "Sol invictus" sarebbe la prova che la Nascita di Gesù Cristo sarebbe solo una storia raccontata e l'intera religione cristiana sarebbe quindi priva di fondamento. Ma a ben guardare questa eventuale coincidenza di date non costituisce la prova di alcunché, né è necessario, per la fede, conoscere con esattezza la data della Nascita di Cristo; basta sapere e credere che Gesù Cristo si è incarnato e ha fatto parte della storia dell'umanità, tra l'altro modificandola profondamente.
Tuttavia, poiché (al contrario di quanto affermano ateisti e laicisti) la Chiesa non è contraria alla ricerca storica e scientifica, e dato che l'ingresso di Nostro Signore nella storia dell'uomo è un fatto assolutamente importante per la religione cristiana cattolica, non si è mai voluto mettere un freno alle indagini sulla storicità della datazione del Natale il 25 dicembre. Queste ricerche hanno dato importantissimi risultati specie negli ultimi cinquant'anni, quando furono accidentalmente rinvenuti, in alcune grotte nei pressi del Mar Morto, dei rotoli di manoscritti biblici e di altri documenti della religione ebraica, datati tra il 150 a.C. e il 70 d.C.: essi sono noti come i rotoli di Qumran (o rotoli del Mar Morto).
Ma prima di parlare dell'importante contributo che questa scoperta ha apportato al nostro scopo, sfatiamo un altro mito: molti infatti vanno dicendo che nei Vangeli e nelle Scritture in genere non vi sarebbe alcun riferimento storico certo riguardo la nascita a Betlemme di Gesù. Questo è falso; abbiamo, invece, informazioni molto dettagliate; ma certo bisogna saperle trovare. L'inizio del Vangelo di San Luca ci dice infatti:

«Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta.
Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l'usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l'offerta dell'incenso.Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell'altare dell'incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l'angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni.
»
Lc 1, 5.8-9.11-13

E un'altra precisa indicazione temporale, che permette di risalire all'anno di nascita del Signore, ci è fornita più avanti:

«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.»
Lc 2, 1-2

San Luca, infatti, precisa che questo fu il primo censimento voluto da Cesare Augusto (ossia Ottaviano), e che Tertulliano attribuisce a Senzio Saturnino nel 3 a.C., ma si prolungò nell'anno successivo, il 2 a.C., quando effettivamente gli era succeduto Quirinio, come anche conferma una lapide rinvenuta dall'archeologo William Ramsey nel 1912.
Ma la prima citazione è quella più utile per risalire alla data di nascita: ci è infatti detto che Zaccaria, padre di San Giovanni Battista, apparteneva alla classe sacerdotale di Abia. Le ventiquattro classi sacerdotali ebraiche (come sappiamo da 1 Cr, 24, 1-19) si alternavano secondo un preciso calendario, officiando al tempo da sabato a sabato (da Giuseppe Flavio, Antiquitates, VII 365), e si sa che la classe di Abia era l'ottava nei turni di servizio; ma non si era mai riusciti a capire in quale periodo dell'anno officiasse. Il rinvenimento dei rotoli di Qumran ha permesso di ricostruire questi turni e, grazie all'impiego di un calendario solare di 364 giorni, di riportarli al nostro modo di scandire il tempo. Così si è capito che la classe di Abia officiava nel tempio due volte l'anno, la prima volta tra l'8 ed il 14 aprile e la seconda tra il 24 ed il 30 settembre. Si dà il caso che la tradizione cristiana orientale abbia fin dai tempi antichi celebrato tra il 23 ed il 25 di settembre la data dell'annuncio a Zaccaria, conformemente a quanto previsto da queste ricerche. Il Vangelo di San Luca, poi, ci dice con gran dovizia di particolari che l'Arcangelo Gabriele diede alla Beata Vergine Maria l'annuncio della nascita di Cristo sei mesi dopo questi eventi; tant'è che, come a voler dare conferma alla Madonna della veridicità delle sue parole, egli le dice che "è il sesto mese" di gravidanza per Elisabetta, che tutti dicevano sterile. Contando dunque sei mesi da settembre si arriva a marzo (il 25 marzo le tradizioni cristiane orientale ed occidentale pongono la solennità dell'Annunciazione), e dopo nove mesi si giunge a dicembre.
Ecco, dunque, che il 25 dicembre, come data per la Natività di Nostro Signore, non sembra essere stata scelta o inventata dagli uomini; tanto che la tradizione del Natale a dicembre proviene già dal I secolo, cioè dagli anni immediatamente successivi alla morte di Gesù Cristo. E non sembra verosimile, data la brevità del periodo a disposizione dei primi cristiani, che essi abbiano avuto il tempo di fare ragionamenti troppo complicati per scegliere una data al Natale.
Ma si potrebbe muovere un'altra obiezione: i Vangeli narrano che a Betlemme, quando Gesù Cristo nacque, i primi a renderGli omaggio furono dei pastori, ai quali apparvero gli angeli:

«C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l'angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
"Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama
"».
Lc 2, 8-14

Allora, per chi conosce qualcosa della prassi delle popolazioni dell'epoca, è facile obiettare che in dicembre, pieno inverno, il freddo (Betlemme è situata a 800 metri sul livello del mare) avrebbe impedito ai pastori di pascolare le pecore all'aperto; tanto più la notte. Dunque, per i detrattori della storicità della data del Natale, la conclusione è quella che il racconto evangelico sarebbe privo di fondamento, o solo simbolico, o ancor peggio inventato. Ma non basta conoscere le abitudini del popolo di allora così superficialmente: i giudei, infatti, distinguevano tre tipi di greggi, secondo criteri di purità (fondamentali in tutta la loro vita). Il primo è quello delle pecore bianche, considerate pure e quindi degne di rientrare all'ovile dentro la città, quando sopraggiunge la sera; il secondo è quello delle pecore un po' bianche ed un po' nere, considerate impure, quindi possono rientrare all'ovile dopo il pascolo, ma esso deve essere posto al di fuori della città. Infine il terzo è quello delle pecore nere, impure, le quali non possono nemmeno rientrare nell'ovile; pertanto sono costrette a pernottare all'aperto, mentre i loro pastori (considerati anch'essi gli ultimi nella società a motivo della loro occupazione) organizzano dei turni di veglia per il gregge. Si ritrova in ciò esattamente quanto afferma l'Evangelista Luca, quando dice: "vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge". Ed in sostanza anche questa obiezione si tramuta in una prova a favore della storicità del Natale e della sua datazione il 25 dicembre.
In conclusione, ancora una volta le ricerche delle fonti storiche sembrano confermare in maniera sicura non solo la vicenda storica del Signore Gesù Cristo fra gli uomini, ma anche che la data in cui noi celebriamo il Natale è del tutto attendibile.

Fonti:

giovedì 8 dicembre 2011

I papi e l'Immacolata

A parziale completamento del post che ho dedicato l'anno scorso a questa prima solennità mariana dell'anno liturgico, l'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, voglio citare questo articolo apparso nei giorni scorso sul blog San Simeon. In esso si parla della pratica, viva a tutt'oggi, dell'omaggio floreale che il pontefice regnante offre, l'8 dicembre, alla statua della Madonna a piazza di Spagna, in Roma, raccontandone le origini e la storia. Credo sia interessante anche per noi caorlotti, che abbiamo attinto a questa venerabile tradizione dal momento in cui il parroco mons. Felice Marchesan, di venerata memoria, volle erigere il capitello presso il porto piccolo della città con la statua della Madonna, al quale la comunità si reca processionalmente ogni 8 dicembre donando l'omaggio di una corona floreale.

I papi e l'Immacolata
Dal blog San Simeon

La stola bianca indossata dal Papa al posto di quella tradizionale rossa, a sottolineare la solennità mariana. Il coro spagnolo che accompagna il momento conclusivo della breve preghiera ai piedi della statua. La deposizione dell'omaggio floreale, la cui composizione è curata dagli addetti ai Giardini vaticani. Sono alcune caratteristiche del rito che avrà luogo in Piazza di Spagna l'8 dicembre, indicate dal maestro delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, monsignor Guido Marini, alla vigilia della visita di Benedetto XVI all'Immacolata.

Il monumento fu costruito per ricordare la definizione da parte di Pio IX, l'8 dicembre 1854, del dogma del concepimento sine macula della Vergine. Duecento vigili del fuoco pontifici collocarono la statua bronzea della Vergine sulla colonna marmorea - entrambe progettate da Luigi Poletti - poi offrirono una corona di fiori deposta sulla sommità. Lo stesso Papa Mastai Ferretti l'8 dicembre 1857 inaugurò il monumento da una tribuna posta davanti al Palazzo dell'Ambasciata di Spagna, avviando di fatto la tradizione dei pellegrinaggi.

Nel 1908 la vicina parrocchia di sant'Andrea delle Fratte cominciò a organizzare e a regolare il flusso dei fedeli romani e, a partire dal 1938, la Pontificia Accademia dell'Immacolata curò l'organizzazione dell'avvenimento, che assunse le caratteristiche odierne: ai pompieri, all'ambasciatore di Spagna, ai religiosi e chierici della città, ai rappresentanti di collegi, seminari, confraternite e al laicato cattolico, si uniron0 in forma ufficiale le autorità civili cittadine, provinciali e regionali, le associazioni dei lavoratori comunali e delle altre realtà produttive dell'Urbe.

Dopo la fine dello Stato Pontificio fu Pio XII - romano di nascita - il primo Papa a recarsi personalmente a compiere l'atto di omaggio all'Immacolata. L'occasione, l'8 dicembre del 1953, fu l'inizio dell'Anno Mariano. E Giovanni XXIII, a poco più di un mese dalla sua incoronazione, vi si recò per la prima volta, nel 1958 per poi tornarvi nel 1960 e nel 1961.
Dopo di lui il gesto divenne consuetudine con Paolo VI, che vi andò anche nel pomeriggio dell'8 dicembre 1965, dopo la solenne chiusura del concilio Vaticano II e che nel periodo della crisi petrolifera si recò in Piazza di Spagna con la carrozzella trainata da un cavallo.

Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno mantenuto viva la tradizione.

Vergine amabilissima, che sino ab eterno foste l'oggetto prediletto de' Divini Amori, ottenete anche a noi tutti di farvi sempre caro oggetto di nostra devozione.
Ave Maria...

Dio ti Salvi o Maria, nostra Madre Dolce e Pia, oh Maria nostra Avvocata o Concetta Immacolata.

Tota pulchra es Maria !
Et macula originalis non est in te!
Tu Gloria Jerusalem!
Tu Laetitia Israel!
Tu honorificentia populi nostri, tu advocata peccatorum!
Oh Maria! Oh Maria!
Virgo Prudentissima, Mater Clementissima!
Ora pro nobis, intercede pro nobis; ad Dominum Jesum Christum!

In Conceptione tua Virgo Immaculata fuisti.
Ora pro nobis Patrem cujus Filium peperisti.
Felix es, sacra Virgo Maria, et omni laude dignissima.
Quae serpentis caput virgineo pede contrivisti.

Concludo con una citazione musicale: il Tota Pulchra di Lorenzo Perosi, che anche la nostra comunità parrocchiale canta ancora in questa solennità e durante tutta la sua novena.

martedì 6 dicembre 2011

Vescovi siano Defensores Ecclesiae et papae

In questo periodo del tutto particolare per la Chiesa di Venezia, ossia la vacanza della sede patriarcale, vaticanisti, opinionisti e giornali elencano i nomi di diversi prelati quali possibili candidati alla Cattedra di San Marco, trasformando l'attesa per la nomina del nuovo patriarca in una specie di "campagna elettorale", con tanto di giochi di potere fra ecclesiastici o movimenti carismatici. Dal nostro canto rimaniamo sobri e parchi, come ci vuole il tempo di Avvento, ed uniamoci piuttosto nella preghiera a Dio affinché ci mandi Lui, attraverso il Papa, vicario di Cristo in terra, un vescovo che sia docile alla Sua volontà. A questo proposito ritengo molto interessante l'intervista, apparsa sul numero del 18 novembre scorso di Avvenire, fatta dal giornalista Gianni Cardinale al Prefetto della Congregazione per i Vescovi, il card. Marc Ouellet; oltre a parlare in generale della sua attività quale consigliere del Pontefice per la scelta dei vescovi nella Chiesa cattolica, ci comunica quello che la figura del vescovo secondo lui deve incarnare: «Siano non solo teologicamente fedeli al Magistero e al Papa ma che siano anche capaci di esporre e, se è il caso, di difendere la fede pubblicamente».

Intervista al Card. Marc Ouellet
Di Gianni Cardinale, da Avvenire del 18.11.2011

​Il cardinale Marc Ouellet ha ormai superato la boa del primo anno da prefetto della Congregazione per i vescovi. Un incarico di estrema importanza e delicatezza quello affidatogli da Benedetto XVI. Perché è lui a guidare il dicastero che più da vicino collabora col Papa nella scelta della maggioranza dei vescovi della Chiesa cattolica, in pratica quasi tutti quelli d’Europa e delle Americhe, nonché quelli di Australia e Filippine. Il porporato canadese, teologo raffinato, allievo di Hans Urs von Balthasar, poliglotta, con un passato di attività accademica e pastorale in patria, in Colombia e a Roma (dove ha anche già avuto una breve esperienza curiale), ha accettato di fare con Avvenire un primo bilancio, ovviamente provvisorio, in questo nuovo "mestiere".

Eminenza, come è stato il passaggio da arcivescovo di Quebec a questo incarico?
La transizione è stata difficile, soprattutto nei primi mesi. Mi mancava il rapporto umano e affettivo con la gente che è costitutivo della missione di un vescovo diocesano.

Eppure lei era già stato in Curia come segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani...
Sì, ma quando sono andato a Quebec per me si trattava di un trasferimento definitivo... Mi sono tuffato in quella realtà. Non pensavo di tornare. Il Santo Padre ha deciso di chiamarmi qui e sono venuto con gioia. Tuttavia la transizione è stata soggettivamente difficile.

È così difficile il "mestiere" di prefetto della Congregazione per i vescovi?
Non è piccola cosa. Bisogna ascoltare molto. Bisogna conoscere bene le tante Chiese locali nei vari continenti. Bisogna studiare molti dossier. E, non avendo avuto esperienze precedenti nel dicastero, a volte potevano affiorare alcune insicurezze sulla prassi da seguire nelle varie situazioni. Grazie a Dio ho potuto consultare e appoggiarmi all’esperienza di chi lavorava qui da tempo. Adesso, comunque, mi sento sicuro nella comprensione dei meccanismi e quindi nel governo della Congregazione.

Immagino che gli incontri regolari, di solito ogni sabato, col Papa l’abbiano aiutata…
Questa possibilità di incontrarlo di frequente è stata la cosa per me più positiva, nel senso di confermarmi, di accogliere ciò che andavo proponendo, dopo tutti i meccanismi di consultazione, e l’ascolto delle opinioni dei diversi membri della Congregazione nel corso delle riunioni del giovedì. Insomma questo primo anno è stata una scuola. Un po’ dura e alquanto esigente.

È difficile trovare un vescovo per la Chiesa cattolica?
La Chiesa ha una prassi consolidata di consultazione per le nomine dei vescovi. Per fare questa scelta si ascoltano i pareri di una lista di persone che possono variare da situazione a situazione, ma che generalmente comprende una griglia abbastanza precisa di figure da sentire, più altre. Questa indagine fornisce abbastanza elementi per scartare alcuni candidati e accettare e proporre altri. In alcuni casi bisogna aspettare e svolgere indagini supplementari. Complessivamente si tratta di un processo serio, normalmente ben fatto. Talvolta però non tutto va in porto.

In che senso?
Può accadere che il candidato prescelto non accetti.

Quante volte è successo quest’anno?
È avvenuto un po’ più di quanto mi potessi aspettare.

Come mai, secondo lei?
In questi ultimi anni il ruolo del vescovo e delle autorità in generale, religiose e politiche, si è rivelato non facile. Anche in conseguenza degli scandali, delle campagne giornalistiche e delle denunce riguardanti la questione degli abusi sessuali su minori perpetrati da sacerdoti e religiosi. Si capisce che non tutti se la sentono di affrontare queste situazioni. Comunque, se qualcuno ha ragioni anche personali per non accettare, questa decisione viene rispettata.

Le è capitato di incrociare casi di carrierismo ecclesiastico?
Capita di vedere sacerdoti che aspirano a essere promossi. Può anche accadere che ci siano movimenti e pressioni per suggerire e insistere per questa promozione. Per questo è molto importante valutare non solo la maturità umana e affettiva, ma anche la maturità spirituale dei candidati all’episcopato. Un vescovo infatti deve sapere per Chi lavora, cioè per il Signore e per la Chiesa. E non per se stesso. Quando questo avviene si percepisce dal modo con cui la personalità si manifesta. In chi è carrierista è l’interesse proprio che domina o che tende a dominare.

Ma tutti possiamo subire la tentazione dell’ambizione…
In effetti piace essere apprezzati o promossi. E questo è legittimo. Ma essere vescovo di una diocesi - piccola, media o grande che sia, questo non importa, in tutte si serve ugualmente il Signore e la Sua Chiesa - è un’altra cosa. Ogni mattina ciascun vescovo deve ricominciare chiedendo a se stesso: per Chi lavoro? A Chi ho donato la mia vita? E deve rimanere autocritico verso le sue motivazioni, desideri e ambizioni personali.

Nella procedura per la scelta dei vescovi c’è qualcosa da perfezionare?
Attualmente, anche sulla scia del Vaticano II che ha sviluppato il senso della collegialità episcopale, per la scelta di nuovi successori degli apostoli vengono consultati coloro che sono già vescovi e altri ecclesiastici e laici dal giudizio sicuro e di riconosciuto sensus Ecclesiae. Il fine del meccanismo che porta alla scelta di un vescovo è quello di verificare l’idoneità di un ecclesiastico a questa missione. Ma le regole non sono assolute. Può accadere che il Papa, conoscendo molto bene una personalità e una situazione, possa avere chiaro come si debba soddisfare una provvista in una diocesi. In questo caso le consultazioni sono meno necessarie. Ma al di fuori di questo caso specifico, si cerca di rispettare le regole e le procedure vigenti che mi sembrano di per sé valide.

Anni fa un suo predecessore, il compianto cardinale Bernardin Gantin, auspicò, anche come antidoto al carrierismo, il ritorno alla vecchia disciplina della Chiesa che impediva il trasferimento da una diocesi ad un’altra. Cosa pensa a riguardo?
Non sento di avere ancora una esperienza sufficiente per rispondere adesso a questa domanda. Posso aggiungere, però, che quando un vescovo è nominato dovrebbe dire: ecco il mio posto che ricevo dal Signore al servizio della Sua Chiesa, che è Suo Corpo e Sua Sposa, e mi dono totalmente a questa Chiesa particolare. Ogni vescovo non dovrebbe avere personalmente altre preoccupazioni. Quando bisogna provvedere a qualche grande e importante arcidiocesi metropolitana è ragionevole però che si cerchi tra i vescovi che hanno dato già buona prova di sé e potrebbero essere chiamati a una responsabilità maggiore. Certamente questa prassi in sé ragionevole può ingenerare in qualcuno l’attesa di una qualche promozione. Ma in questo caso il problema non è il trasferimento da una sede all’altra ma la maturità spirituale del presule, il quale, se coltiva questo tipo di aspettative è bene che rimanga dove è.

Il Catholic News Service ha fatto notare come ormai le visite ad limina non siano più ogni cinque ma ogni sette anni e che i vescovi che vi partecipano non vengono più tutti ricevuti individualmente. Come mai?
Alla fine del pontificato di Giovanni Paolo II per ovvi motivi non si poteva più rispettare la tempistica di queste visite. Quindi si è creato, di fatto, questo slittamento. Rimane comunque la norma secondo cui le visite si svolgono ogni cinque anni. E stiamo però cercando di recuperare i tempi per ristabilire questa frequenza. Anche se è difficile perché i vescovi sono ormai cinquemila, il doppio di quelli partecipanti al Concilio Vaticano II.

E le udienze individuali?
È una questione che non riguarda la Congregazione ma direttamente il Palazzo Apostolico. Anche in questo caso la regola non è cambiata, ma la prassi sì, per varie cause. Comunque non ho ragione di dubitare che se un vescovo richieda motivatamente di poter essere ricevuto individualmente in udienza si farà di tutto per esaudire questa richiesta.

Fino a pochi anni fa ai vertici della Congregazione sedevano tre italiani, ora non ce ne è neanche uno. È solo un caso?
Non credo ci sia un disegno. Ma la nomina dei vescovi è una cosa che riguarda tutto il mondo. E forse si è cercato di ristabilire un equilibrio. Non era ideale che fossero tutti italiani. L’internazionalizzazione della Curia romana è stato un progresso positivo nella Chiesa. Ma nella Congregazione ci sono ancora molti italiani e questo ha un senso perché la Curia è a Roma e perché la maggioranza delle comunicazioni con i nunzi è in italiano.

Eminenza, ma come deve essere un vescovo cattolico?
Oggi nel contesto soprattutto delle nostre società secolarizzate abbiamo bisogno di vescovi che siano i primi evangelizzatori e non dei semplici amministratori di diocesi. Che siano capaci cioè di proclamare il Vangelo. Che siano non solo teologicamente fedeli al Magistero e al Papa ma che siano anche capaci di esporre e, se è il caso, di difendere la fede pubblicamente. Oltre a tutte le virtù che normalmente vengono richieste ai vescovi, questa capacità oggi è particolarmente necessaria.

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