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venerdì 30 marzo 2012

La Passione di Cristo - La salita al Calvario

In questo sesto ed ultimo venerdì di Quaresima continuiamo la meditazione sulla Passione del Nostro Signore Gesù Cristo aiutati dalle rivelazioni private della Beata Anna Caterina Emmerich. Altri passaggi di questo nostro particolare cammino di preparazione verso la Pasqua li compiremo durante la Settimana Santa, a partire da domenica prossima.

Gesù porta la croce verso il Calvario

Ventotto farisei armati arrivarono a cavallo per scortare il corteo sul luogo del supplizio, tra questi vidi i sei sinedriti che avevano guidato la cattura di Gesù sul monte degli Ulivi. Nel momento in cui i carnefici condussero Gesù al centro del foro, parecchi schiavi entrarono dalla porta occidentale portando il legno della croce. Avvicinandosi ai Signore, essi lo gettarono ai suoi piedi con gran fracasso. Altri servi portavano gli angoli, i pezzi di legno destinati a sorreggere i piedi e il prolungamento su cui si doveva inchiodare la tabella. Il Signore s'inginocchiò accanto alla sua croce e l'abbracciò tre volte. Contemporaneamente lo udii supplicare il Padre suo per la redenzione del genere umano. Infine il Salvatore baciò la croce, divenuta altare del suo cruento sacrificio.
Impazienti, i carnefici sollevarono Gesù e gli caricarono sulla spalla destra il pesante fardello. Egli rimase curvo sotto il grave peso, non sarebbe mai riuscito a sostenerlo sulle spalle se gli angeli non l'avessero di nuovo soccorso. Mentre Gesù pregava, le mani dei due ladroni furono legate saldamente alle assi trasversali delle loro croci poste dietro la nuca. I tronchi verticali delle due croci erano portati dagli schiavi; una volta sul Golgota si sarebbe provveduto al montaggio. La tromba della cavalleria di Pilato squillò per dare il segnale della partenza. Uno dei farisei a cavallo si accostò a Gesù, inginocchiato sotto il peso della croce, e gli disse: «E' terminato per sempre il tempo dei bei discorsi. Avanti, avanti! Facciamola finita!». Allora i carnefici rialzarono il Signore con terribile violenza, facendogli sentire sulle spalle tutto il peso dell'intera croce. Così cominciò la marcia trionfale del Re dei re, tanto ignominiosa sulla terra quanto gloriosa in cielo.
Ai piedi del legno della croce erano state legate due corde, per mezzo delle quali due carnefici la tenevano sollevata. Altri quattro aguzzini tenevano delle funi attaccate alla catena che cingeva la cintura di Gesù. Il suo mantello era sollevato e trattenuto dalla cintura. Gesù mi ricordò Isacco, che portava il legno destinato alla propria immolazione. Lo stesso Pilato si era messo al comando del distaccamento di soldati per prevenire una sommossa popolare. Il procuratore romano indossava l'armatura e procedeva a cavallo, protetto dai suoi ufficiali e da una schiera di cavalieri, seguivano trecento fanti provenienti dal confine tra l'Italia e la Svizzera. Il drappello dei legionari romani si mise in marcia sulla strada principale della città, mentre il corteo con i condannati attraversò una viuzza laterale per non intralciare il popolo che si recava al tempio. Precedeva il triste corteo un trombettiere che proclamava a ogni crocevia la sentenza di morte. Qualche passo dietro a lui venivano i servi con le funi, i chiodi, i cunei e tutti gli accessori delle croci dei due ladroni. Seguivano poi i farisei a cavallo e un giovinetto che portava sul petto l'iscrizione della croce. Questo giovane non era del tutto perverso. Infine veniva Gesù, il Cristo, curvo e straziato sotto il carico della croce; era ferito in tutto il corpo e aveva i piedi nudi e sanguinanti. Non aveva preso cibo né bevanda dalla sera prima ed era oltremodo sfinito a causa delle perdite di sangue, della febbre e delle molteplici sofferenze.
Il Signore sosteneva la pesante croce sulla spalla aiutandosi con la mano destra, mentre con la sinistra tentava ripetutamente di sollevare la lunga veste che gli ostacolava il passo. Le sue mani erano ferite e gonfie a causa della brutalità con la quale erano state legate, il suo viso era gonfio e insanguinato, i capelli e la barba imbrattati di sangue raggrumato. La croce e le catene gli premevano sul corpo la veste di lana riaprendogli le piaghe con grande dolore. Quattro carnefici tenevano a distanza le estremità delle corde fissate alla sua cintura. Due lo tiravano in avanti e gli altri due da dietro, così che il suo passo era malfermo. Benché attorno a Gesù non ci fosse altro che derisione e crudeltà, il suo sguardo era pieno di compassione e le sue labbra si aprivano in preghiera al Padre. Dietro di lui seguivano i due ladroni trascinati con le funi. Alcuni farisei a cavallo chiudevano il corteo, mentre numerosi soldati romani ne proteggevano i lati in modo che la folla non potesse entrarvi. Nel percorrere quella stradina larga due passi, sporca e lunga, il Signore subì molte sofferenze. I carnefici gli si stringevano addosso, la plebaglia lo insultava dalle finestre, dalle terrazze, dalla strada e dalle vie laterali, molti gli gettavano addosso fango, immondizie e altre cose immonde; perfino i fanciulli, incitati dagli adulti, gli lanciavano pietre e lo coprivano di ingiurie. Erano gli stessi fanciulli che lui aveva benedetto e chiamato beati. La gente accorreva da tutte le parti. Presto una folla considerevole riempì la stradina e le vie laterali per veder passare la triste processione. Molti altri si erano già recati al Calvario. Al suo termine la stretta viuzza volge a sinistra e va un poco in salita; in quel punto passa una specie di acquedotto sotterraneo che proviene dal monte Sion. Ho udito il gorgoglìo dell'acqua.

Prima caduta di Gesù sotto la croce

Davanti alla salita vi è un avvallamento nel quale si accumula acqua piovana e fango. Per facilitare il passaggio, vi era stata posta una grossa pietra, come se ne vedono in molte vie di Gerusalemme. Arrivato a quella pietra, con il grave peso sulle spalle, Gesù non riusciva a proseguire. Tirato dai suoi carnefici, cadde e la croce rovinò accanto a lui. I carnefici lo colmarono di ingiurie e lo colpirono con calci e pugni. Il corteo si fermò e ci fu un grande tumulto. Invano il Signore tese la mano in cerca d'aiuto; allora esclamò: «Sarà presto la fine!». I farisei urlavano: «Rialzatelo, altrimenti morirà prima della crocifissione!». Ai lati della strada vidi alcune donne e fanciulli atterriti da quello scempio. Quando Gesù riuscì a riprendersi, quegli uomini abominevoli, invece di alleviare le sue sofferenze, gli rimisero intorno alla testa la corona di spine. Lo fecero alzare a forza di maltrattamenti e gli misero la croce sul dorso. Egli fu costretto a inclinare da un lato il capo straziato dalle spine. E Gesù, con questo nuovo supplizio, riprese il doloroso cammino per la ripida strada.

Seconda caduta di Gesù sotto la croce. Gesù incontra sua Madre

Dopo la sentenza pronunciata da Pilato, l'Addolorata si fece condurre nei luoghi santificati dalle ultime sofferenze del suo adorato Figlio. Ella voleva coprire con le sue calde lacrime il sangue di Gesù. Con profonda devozione, Giovanni e le pie donne accompagnarono la Vergine nel suo sacrificio mistico. Con questa consacrazione, la santa Vergine divenne lei stessa Chiesa vivente, Madre comune di tutti i cristiani. Mentre visitava le stazioni della sofferenza di suo Figlio, la Vergine udì il suono agghiacciante delle trombe che annunziavano la partenza del triste corteo diretto al Calvario. Allora, non potendo più trattenere il desiderio di rivedere il santo Figlio, pregò Giovanni di condurla in uno dei luoghi presso i quali doveva passare Gesù. Scesero dal quartiere di Sion e raggiunsero la piazza dalla quale era partito il corteo con Gesù, e continuarono per le viuzze laterali passando attraverso porte di solito chiuse ma che in quel giorno erano aperte per consentire il transito della folla. Poi Giovanni, la Vergine Maria, Susanna, Giovanna Cusa e Salomè di Gerusalemme entrarono in un grande palazzo; mi sembra che questa costruzione comunicasse, attraverso viali e cortili, con il palazzo di Pilato, oppure con la dimora di Caifa. Giovanni ottenne dal benevolo portiere il permesso di attraversare il palazzo e uscire dal lato opposto. Costui li fece entrare e si prestò ad aprire la porta orientale dell'edificio. Nel vedere la Madre di Gesù pallida come una morta, con gli occhi arrossati dal pianto, tremante e sfinita, avvolta in un mantello azzurro, mi sentii morire per il dolore. Sempre più chiari si avvertivano il clamore e gli squilli di tromba che annunciavano i condannati condotti alla crocifissione. Appena il portiere aprì la porta orientale il clamore si fece ancora più distinto. L'Addolorata chiuse gli occhi, pregò e poi chiese a Giovanni: «Devo assistere a questo doloroso scempio oppure allontanarmi? Come potrò sopportarlo?». L'apostolo le rispose: «Se tu non rimanessi, ne avresti poi sempre il rammarico». Allora si fermarono sotto il portone e guardarono giù per la via. Un altro squillo di tromba, questa volta più vicino, trapassò il cuore della santa Vergine. La triste processione era adesso visibile, distava ormai un centinaio di passi dal portone. Il corteo non era preceduto dalla folla, ma questa stava soltanto ai lati e dietro. Dopo il trombettiere avanzavano gli schiavi con aria insolente e trionfante; essi portavano gli arnesi del supplizio. A quella vista la Madre di Gesù incominciò a tremare, a singhiozzare e a torcersi le mani. Uno di quegli insolenti, pieno d'arroganza, chiese agli altri: «Chi è quella donna che tanto si lamenta?». Gli fu subito risposto: «E la madre del Galileo». Subito gli scellerati la colmarono di beffe e la segnarono a dito; uno di essi presentò al suo sguardo addolorato i chiodi che dovevano servire alla crocifissione del Figlio. Vidi i farisei passare superbi sui loro cavalli, seguiti dal giovinetto che recava l'iscrizione. A pochi passi di distanza seguiva Gesù con l'orrenda corona di spine. Il Signore barcollava ed era sanguinante sotto la pesante croce. Gli occhi spenti e arrossati del Cristo sofferente gettarono sulla santa Madre uno sguardo compassionevole. Toccata da quello sguardo colmo di misericordioso amore, la santa Vergine giunse le mani e si appoggiò al portone per non cadere. Era pallida ed aveva le labbra livide. Il Signore inciampò e barcollò, poi cadde per la seconda volta sotto il peso della croce. La Madre di Gesù, accecata dal dolore, non vide più né i soldati né gli altri, ma solo il Figlio sanguinante torturato dagli aguzzini. Nell'impeto del suo amore, si precipitò in mezzo ai carnefici nel tentativo di abbracciano, così cadde in ginocchio vicino a lui e se lo strinse tra le braccia. Udii esclamare: «Figlio mio!...», «Madre mia!...», ma non sono certa se queste parole fossero state pronunciate realmente o solo nello spirito. Vidi i soldati commossi di fronte a quella Madre straziata dal dolore: essi avevano cercato di respingerla ma non ebbero il coraggio di farle del male. Vi fu un momento di confusione generale, in cui Giovanni e le pie donne ne approfittarono per rialzare Maria. Gli sgherri la ingiuriarono e uno le disse: «Donna, che vieni a fare qui? Se tu lo avessi educato meglio, ora non sarebbe ridotto in questo stato!». Circondata da Giovanni e dalle pie donne, l'Addolorata fu portata via e il corteo proseguì il suo triste cammino. Mentre stava per rientrare, e voltava ormai le spalle alla lugubre processione, la Madonna cadde in ginocchio contro la pietra angolare della porta. La pietra, sulla quale era caduta aveva venature di verde: le ginocchia della Vergine vi lasciarono dei buchi e le sue mani delle impronte nel punto dove le aveva appoggiate. La Madonna fu rialzata dalle due discepole e riportata nel palazzo, la cui porta fu subito chiusa. Frattanto la soldataglia aveva rialzato Gesù e gli aveva rimesso la croce sulle spalle. In mezzo alla masnada, che seguiva il corteo per ingiuriare il Signore, vidi alcune donne velate piangere in silenzio.

Simone di Cirene. Terza caduta di Gesù
«Nell'uscire, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la croce con lui» (Matteo 27,32).

Proseguendo il suo triste cammino, il corteo passò sotto l'arco di un antico muro della città. Davanti a quell'arco vi è una piazza da cui si diramano tre vie trasversali. Vidi parecchie persone ben vestite allontanarsi alla vista di Gesù per il farisaico timore di contaminarsi. Costretto ancora una volta a passare su una grande pietra, Gesù barcollò e cadde a terra sotto la croce. Molta gente, che si recava al tempio, esclamò con compassione: «Ahimè, quel poveretto muore!». Siccome il Signore non riusciva più a sollevarsi, i farisei, che precedevano il corteo, dissero ai soldati: «Non arriverà alla crocifissione se non troveremo qualcuno disposto ad aiutarlo a portare la croce». Proprio in quel momento passava di là un pagano accompagnato dai suoi tre figli: si chiamava Simone ed era nativo di Cirene. Egli tornava dal suo lavoro e portava sottobraccio un fascio di ramoscelli. Costui era giardiniere e ogni anno nel tempo pasquale veniva a Gerusalemme a curare le siepi del muro orientale della città. Avendolo riconosciuto per un pagano dagli abiti che indossava, i soldati gli intimarono di aiutare il Galileo a portare la croce. In un primo momento il Cireneo respinse quell'ingiusta imposizione, ma vi fu ugualmente costretto; alcune conoscenti presero i suoi figli in lacrime. Simone provava una forte ripugnanza per lo stato miserabile in cui versava il Signore, e per la sua veste macchiata di fango e di sangue. Poiché Gesù piangeva e lo guardava con occhi pietosi, egli l'aiutò a rialzarsi. I carnefici legarono sulle spalle del pagano l'albero della croce e diedero a Gesù la trave trasversale. Il Cireneo seguiva il Redentore, alleggerito dell'enorme peso. Simone aveva circa quarant'anni ed era di costituzione robusta. Più tardi, i due figli maggiori, Rufo e Alessandro, si unirono ai discepoli del Signore, mentre il minore seguì santo Stefano. L'iniziale senso di ripugnanza, provato dal Cireneo nei confronti del Redentore, alla fine si mutò in un sentimento di dolorosa compassione.

Santa Veronica con il sudario

Non avevano fatto nemmeno duecento passi da quando il Cireneo era venuto a portare la croce del Signore, allorché vidi una donna uscire da una casa e gettarsi davanti al corteo. Costei era alta e bella e conduceva per mano una giovinetta. La donna si chiamava Serafia ed era moglie di Sirach, un membro del consiglio del tempio. A seguito dell'avvenimento di questo giorno fu chiamata Veronica (da vera icon, vero ritratto). Serafia aveva preparato a casa un eccellente vino aromatico per confortare Gesù sul doloroso cammino. Impaziente di compiere la sua offerta, la pia donna era uscita più volte per andare incontro alla triste processione. Infatti l'avevo vista correre al fianco dei soldati tenendo per mano la sua figlia adottiva di circa nove anni. Poiché non le era stato possibile aprirsi un varco tra i soldati per raggiungere il Redentore, ella era rientrata a casa per attendere il passaggio del corteo. Giunto l'atteso momento, Serafia discese nella strada, velata e con un sudario di lino sulle spalle. La bimba, tenendosi stretta vicino a lei, manteneva nascosto sotto il grembiulino il vaso chiuso di vino aromatico. Questa volta Serafia attraversò d'impeto la folla venendo finalmente dinanzi a Gesù. Invano i soldati avevano cercato di trattenerla. Alla presenza del Figlio di Dio ella cadde in ginocchio: fuori di sé dalla compassione, dispiegò per uno dei lati il sudario e gli disse: «Oh, fammi degna di tergere il volto del mio Signore!». Gesù prese il velo con la mano sinistra e lo compresse sul suo volto insanguinato, indi muovendo la sinistra col sudario verso la destra che manteneva il capo della croce, strinse il lino con entrambe le mani e glielo rese. Serafia baciò la stoffa, se la mise sotto il manto e si rialzò. Ma quando la bambina tese timidamente il vaso di vino verso Gesù, i soldati non glielo permisero. Il popolo fu subito in tumulto di fronte all'ardire di quel pubblico omaggio reso al Salvatore. Il corteo si era arrestato, i farisei e i carnefici, assai irritati, si misero a colpire Gesù, mentre Veronica rientrò in fretta a casa sua. Appena fu rientrata, ella stese il panno insanguinato sul tavolo e perse i sensi; la bimba si inginocchiò piangendo vicino a lei. Più tardi, un conoscente le trovò svenute accanto al sudario sul quale era impressa l'immagine del volto di Gesù. L'uomo, colpito dal prodigio, le fece rinvenire e mostrò loro il volto del Signore sul sudario spiegato. Con profonda emozione, Veronica s'inginocchiò e disse: «Ora che il Signore mi ha onorata del suo ricordo, voglio abbandonare ogni cosa!». Il lino era tre volte più lungo che largo, abitualmente lo si portava attorno al collo; un'altra stoffa simile si portava pure sulle spalle. A quel tempo, vi era l'uso di andare con i sudari dalle persone malate, o in qualche modo afflitte, e di asciugare loro il viso in segno di amorevole compassione. Veronica appese il sudario al capezzale del suo letto e lo venerò per tutta la vita. Dopo la sua morte, questo fu passato dalle pie donne alla santa Vergine e poi alla Chiesa degli apostoli. Serafia era nata a Gerusalemme ed era cugina di Giovanni Battista. La pia donna aveva almeno cinque anni più della santa Vergine e aveva assistito al suo matrimonio con san Giuseppe. Aveva relazioni di parentela col santo vecchio Simeone e fu compagna dei suoi figli fin dalla giovinezza. Si sposò tardi; da principio suo marito era molto contrario a Gesù e lei ne soffrì molto, finché Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo indussero Sirach a migliori sentimenti. Durante l'infame giudizio del tribunale di Caifa, Sirach si dichiarò a favore di Gesù e prese posizione con Giuseppe e Nicodemo, e come loro si separò dal sinedrio. Malgrado i suoi cinquant'anni, Serafia era ancora una bella donna. La domenica delle Palme, per onorare l'entrata trionfale del Signore a Gerusalemme, si era tolta il velo e l'aveva steso sulla strada dove egli passava. Fu questo stesso velo che ella porse a Gesù per alleviare le sue sofferenze.
Il santo velo è tuttora oggetto di venerazione nella Chiesa di Cristo. Il terzo anno dopo l'ascensione di Cristo, l'imperatore romano, molto malato, inviò un suo fiduciario a Gerusalemme per raccogliere informazioni circa la morte e la risurrezione di Gesù. Il fiduciario ritornò a Roma accompagnato da Nicodemo, Veronica e il discepolo Epatras, parente di Giovanna Cusa. Vidi santa Veronica al capezzale dell'imperatore, il cui letto era elevato su due gradini; una grande tenda appesa alla parete pendeva fino a terra. La camera da letto era quadrata; non era grande e non vidi finestre: la luce proveniva da un'ampia fessura posta in alto. I parenti dell'imperatore si erano riuniti nell'anticamera. Veronica aveva con sé, oltre al velo, un lenzuolo di Gesù. Ella spiegò il velo davanti all'imperatore, che guardò stupefatto l'impronta di sangue del santo volto del Signore. Sul lenzuolo, invece, vi era impressa l'immagine del dorso del santo corpo flagellato. Credo che fosse uno di quei grossi lini inviati da Claudia, sui quali vi era stato adagiato il santo corpo del Signore per essere lavato prima del la sepoltura. L'imperatore guarì alla sola vista di quelle immagini, senza nemmeno toccarle. Egli offrì a santa Veronica un palazzo con gli schiavi, pregandola di stabilirsi a Roma, ma lei chiese il permesso di far ritorno a Gerusalemme per morire vicino al santo sepolcro di Gesù crocifisso. Ella ritornò a Sion nel periodo della persecuzione contro i cristiani, mentre Lazzaro e le sue sorelle conoscevano la miseria dell'esilio. Santa Veronica fu costretta a fuggire con altre donne cristiane, ma fu presa e incarcerata. Morì con il santo nome di Gesù sulle labbra. Ho visto il velo nelle mani delle pie donne, poi in quelle del discepolo Taddeo a Edessa, dove la santa reliquia operò diversi miracoli. Lo vidi ancora a Costantinopoli, e infine fu consegnato dagli apostoli alla Chiesa. Mi sembra di aver visto il santo velo a Torino, dove si trova anche la sindone del Redentore.

Quarta e quinta caduta di Gesù. Le donne di Gerusalemme
«Il Signore gli farà ricadere addosso il sangue versato e lo ripagherà del suo oltraggio» (Osea 12,15).

Vicino alla porta sud-ovest di Gerusalemme i carnefici spinsero brutalmente il Signore in un pantano. Siccome Simone voleva passare al di fuori del pantano, la croce vacillò e Gesù cadde nel fango. Era la sua quarta caduta. Il Cireneo riuscì appena a trattenere la croce. Il Signore cadde nel fango e udii la sua voce, flebile ma distinta, pronunciare queste parole: «Ahimè, ahimè! Quanto ti ho amata, Gerusalemme! Volevo raccogliere i tuoi figlioletti, come la chioccia raccoglie i suoi piccoli sotto le ali, ma tu mi cacci crudelmente fuori dalle tue porte!». I farisei, udendo queste parole, lo ingiuriarono: «L'agitatore non è ancora soddisfatto, continua a straparlare!». Allora i carnefici lo trascinarono fuori dal pantano e lo percossero. Nauseato da queste crudeltà, Simone di Cirene esclamò: «Se non smettete con le vostre infamie, getto via la croce, anche se mi ucciderete!». Dalla porta, attraverso la quale era uscito il Signore, si snoda un sentiero angusto e roccioso che conduce sul monte Calvario. All'inizio di questa viuzza era stato fissato un palo con un cartello che annunciava la condanna a morte di Gesù di Nazaret e dei due ladroni. Poco distante vidi un gruppo di povere donne che si lamentavano e piangevano. Non tutte erano di Gerusalemme: erano venute da Betlemme, da Ebron e dai luoghi vicini in occasione della Pasqua. Arrivato a quel posto, Gesù cadde in deliquio, ma non stramazzò a terra, perché Simone appoggiò la croce al suolo e lo sorresse. Fu la quinta caduta del Signore sotto la croce. Nel vederlo in quello stato miserevole, le giovani e le donne si batterono il petto per il forte dolore. Esse gli tesero dei sudari con i quali potesse asciugarsi il sangue e il sudore. Gesù, rivolgendosi a loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli, perché verrà un tempo in cui si dirà: “Felici le sterili, i corpi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato!”. Allora si comincerà a dire alle montagne: “Piombateci addosso; e voi colline copriteci!”. Perché se questo avviene per il legno verde, che sarà di quello secco?». Il Signore aggiunse altre parole piene di profondo significato, il cui senso era: le loro lacrime sarebbero state ricompensate e da questo momento avrebbero camminato per altre vie. Ai piedi del Golgota la triste processione fece una breve sosta, mentre gli inservienti si avviarono sul monte. Essi portavano gli arnesi del supplizio ed erano seguiti da un centinaio dì soldati romani. Pilato, che aveva scortato a distanza il corteo, rientrò in città con i suoi legionari.

martedì 27 marzo 2012

Lo stemma del Patriarca Francesco

La croce astile patriarcale, il leone di san Marco, una stella, una cinta muraria, il mare con un'ancora: sono i principali elementi che compongono lo stemma del Patriarca Francesco Moraglia, opera di Enzo Parrino (che l'ha disegnato) e Giorgio Aldrighetti (che l'ha ideato e ne ha fatto l'esegesi). Il cappello, i cordoni e le nappe verdi che timbrano lo scudo indicano, per il colore e il numero delle nappe (30), che si tratta di un patriarca (i cardinali usano il rosso). L’origine e l’uso dei cappelli di verde, per i patriarchi, arcivescovi e vescovi, si vuole derivato dalla Spagna, dove, nel Medioevo, i prelati usavano un cappello prelatizio di quel colore.

Lo stemma è suddiviso in due campi. Quello inferiore è costituito da una cinta muraria, di colore grigio. Ricordo delle antiche fortificazioni, simboleggia l’animo forte che resiste ai pericoli e alle avversità della vita, mentre i mattoni che la compongono evocano il riferimento alle "pietre vive della Chiesa". Si tratta di un velato richiamo al cognome: Moraglia. La porta, in oro, è simbolo di Cristo, mentre i merli guelfi sono simbolo della Chiesa. Il mare rappresenta la clemenza, la generosità e la Grazia divina, mentre l’ancora è simbolo di costanza e di fermezza. Il campo superiore dello stemma è costituito dal cielo azzurro con stella a otto punte; il numero otto, secondo la mentalità dei Padri della Chiesa, rappresenta sia la cifra del mondo risorto sia della vita eterna; infine la stella, di metallo oro, è simbolo di Maria. E non poteva mancare il leone, a rappresentare l'evangelista Marco.

Il motto episcopale è costituito dal versetto 14 del primo capitolo degli Atti degli Apostoli: “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione cum mulieribus et Maria matre Iesu et fratribus eius”; vale a dire: tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera con alcune donne e Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di lui. E' un versetto che presenta l’icona più vera della Chiesa, ossia l’evento della Pentecoste in cui la Chiesa si è manifestata al mondo; Maria, la madre di Gesù, è circondata dagli apostoli e dai discepoli, nell’attesa del compimento della promessa del Signore: il dono dello Spirito Santo.

Maria “madre di Gesù e della Chiesa” è titolo strettamente legato al Concilio Ecumenico Vaticano II; infatti il beato Giovanni XXIII, nella costituzione apostolica d’indizione del Concilio, ne affidava i lavori alla Vergine Maria e faceva riferimento proprio a questo testo degli Atti (cfr EV I, 23). In seguito il Concilio nella costituzione dogmatica Lumen gentium, presentava l’intera dottrina sulla Chiesa, dedicando l’intero ottavo capitolo alla Vergine Maria, contemplata nel mistero di Cristo e della Chiesa. Inoltre, il servo di Dio, Paolo VI, nel giorno in cui veniva promulgata la costituzione sulla Chiesa, nel discorso di chiusura del terzo periodo – il 21 novembre 1964 – proclamava Maria “Madre della Chiesa”, vale a dire, madre di tutto il popolo di Dio: dei fedeli e dei pastori, che la chiamano Madre amorosissima (EV I, 306).

Alla luce di quanto detto, rivestono particolare significato le parole di Paolo VI: “Quanto a Noi, come siamo entrati nell’aula conciliare dietro l’invito di Giovanni XXIII, l’11 ottobre 1961, insieme “cum Maria, Matre Iesu”, così al termine della terza sessione, usciamo da questo stesso tempio nel nome santissimo e soavissimo di Maria Madre della Chiesa (EV I, 313). E’ quindi a Maria, madre della Chiesa, che il Vescovo – sulla scorta della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero – intende affidare se stesso e il suo ministero a favore della Chiesa.

Fonte: patriarcatovenezia.it.

lunedì 26 marzo 2012

Ingresso del Patriarca - L'omelia

Sia lodato Gesù Cristo.

Eminentissimo patriarca Marco,
eccellentissimo rappresentante pontificio,
venerati confratelli,
autorità,
carissimi presbiteri, diaconi, consacrati, consacrate,
fedeli laici,
caro monsignor Beniamino, amministratore apostolico,
carissimi veneziani,

permettetemi di dire subito il mio grazie a monsignor Beniamino per quello che ha fatto e come l'ha fatto, in questi mesi in attesa del nuovo patriarca.
Carissimi, è sotto lo sguardo materno della Nicopeia, nel giorno dell'Annunciazione del Signore, Natale della città, che la Chiesa di Dio che è in Venezia, attraverso la presa di possesso del nuovo patriarca, viene ricostituita nella sua pienezza teologica, giuridica e pastorale: rivolgiamo il nostro umile grazie a Dio. In questo giorno, la Chiesa che è in Venezia è chiamata in modo particolare ad innalzare la sua lode; tutto, infatti, esprime lo stupore e la gioia del popolo di Dio che, reso tale nel Sangue di Cristo, celebra la prima Eucarestia presieduta dal nuovo patriarca, il quarantottesimo successore di San Lorenzo Giustiniani. Così gli uomini passano, ma la Chiesa rimane. Oggi tocchiamo con mano questa realtà: è proprio il vescovo, attraverso la successione apostolica, che col suo ministero configura compiutamente la Chiesa particolare e, tramite la comunione diacronica, si lega al ministero dei Dodici e, con loro, allo stesso Gesù e alla Sua Pasqua.
Significativa è, a metà del III secolo, sul ministero episcopale, la testimonianza di Cipriano, vescovo di Cartagine; secondo Cipriano la Chiesa particolare, per divino volere, è strutturalmente incentrata sul vescovo, che tiene in essa il posto di Cristo, Sommo Sacerdote. Il vescovo è il sacerdote che, nel nome di Cristo, guida la comunità ecclesiale. L'insegnamento del vescovo di Cartagine circa la comunione fra i vescovi è oltremodo chiara: infatti, per Cipriano, il vescovo di una Chiesa particolare deve vivere in stretta comunione con gli altri vescovi, ma, alla fine, è la comunione col vescovo di Roma a garantire la stessa collegialità episcopale. È la realtà della collegialità che in seguito troverà compiuta piena formulazione nell'ecclesiologia del Concilio Ecumenico Vaticano II; è in quest'anno, cinquantesimo anniversario della sua solenne inaugurazione, che noi siamo invitati a cogliere sempre meglio il Magistero di questa assise ecumenica secondo quell'ermeneutica del rinnovamento nella continuità che autorevolmente ci propone Benedetto XVI. Il Vaticano II è il grande evento ecclesiale che ha segnato profondamente la vita della Chiesa e al quale dobbiamo guardare con fiducia. È proprio in forza della collegialità episcopale che il vescovo di una Chiesa particolare in comunione col vescovo di Roma ha un legame inscindibile con gli altri vescovi; siamo nella logica del mistero, per cui non solamente ogni vescovo è coinvolto, ma ogni Chiesa particolare è tale in forza del rapporto intrinseco con la Chiesa di Roma. Ed è in questa chiave che i confratelli vescovi del Triveneto guardano con speranza e realismo all'imminente Convegno di Aquileia 2, rinnovando anzitutto il vincolo collegiale tra di loro e le loro Chiese, e tra loro e il vescovo di Roma, il Vescovo dei vescovi. L'impegno comune è renderci disponibili, con le nostre Chiese, ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà suggerirci, per una nuova evangelizzazione di queste terre in vista del bene comune e nel dialogo con la cultura contemporanea. Si tratta, così, di ricentrare la vita delle nostre Chiese a partire dalla responsabilità personale dei pastori e, per la loro parte, dei fedeli, avendo di mira l'annuncio di Cristo; per questo, anzitutto, ci si chiede come l'educare alla vita buona del Vangelo possa avvenire in modo più efficace nelle Chiese del Nordest, in una terra che da sempre svolge la funzione di ponte tra l'est e l'ovest, tra il nord e il sud del mondo, e oggi più che mai è chiamata a svolgere tale missione. E in ragione di questo, la Chiesa che è in Venezia è chiamata a far proprio ciò che scrive l'autore della lettera agli Ebrei, quando, esortando i discepoli a una reale vita di fede, così si esprime: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, Colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12, 1-2).
La nuova evangelizzazione, per essere realmente tale, suppone che la comunità evangelizzante sia prima di tutto rigenerata nel proprio rapporto vitale con Cristo. Ogni cammino di evangelizzazione ha inizio non con l'elaborazione di piani pastorali o progetti accademici delle facoltà teologiche e neppure attraverso un'auspicabile copertura del territorio da parte dei media. Certo, questi strumenti, per quanto di loro competenza, concorrono all'opera evangelizzatrice in modo eccellente, ma non costituiscono ancora il fondamento dell'evangelizzazione. Sono infatti i discepoli, intesi personalmente e comunitariamente, che vengono prima degli uffici pastorali, prima delle facoltà teologiche, prima della rete mediatica. Solo in un secondo momento tali strumenti diventano preziosi e, sul piano umano, oggi insostituibili per sostenere una reale missione evangelizzatrice. Si tratta di strumenti a servizio di una comunità testimoniale di cui devono veicolare la tensione missionaria, esprimendola con i loro linguaggi ed i loro approcci specifici. Prima di tutto, però, viene la comunità testimoniante, che in nessun modo può essere surrogata o data per presupposta.
In merito, il libro degli Atti degli Apostoli è esplicito, e già nella sua struttura offre una preziosa indicazione che fa esattamente in tale direzione. Questo libro, che contiene la prima narrazione della storia della Chiesa e insieme fa parte dei libri normativi della fede, non lo si può comprendere in senso pieno senza il presupposto teologico e spirituale da cui consegue l'impegno missionario della Chiesa. Tale presupposto, come sappiamo, è costituito dal dono dello Spirito Santo, ossia l'evento di Pentecoste. Senza questo dono, compimento della promessa del Signore, noi non avremmo la Chiesa, comunità evangelizzata ed evangelizzante. È proprio il dono dello Spirito Santo che costituisce la Chiesa, trasformando un gruppo di discepoli impauriti nella comunità del Signore risorto. Prima degli annunci kerigmatici e delle catechesi degli Apostoli, prima dei viaggi missionari e della fondazione delle Chiese particolari, il libro degli Atti narra l'evento di Pentecoste, evento dal quale si può comprendere il significato di ciò che in seguito verrà scandito pagina dopo pagina. La Pentecoste è, in tal modo, l'inizio della Chiesa, non soltanto in senso cronologico, ma essenziale, valoriale, tutto ciò che era accaduto prima del vento impetuoso che si abbatte gagliardo e delle lingue di fuoco che si posano sui presenti, come narra il libro sacro al capitolo secondo, è semplice preparazione, sono soltanto fatti che precedono. La Pentecoste è il vero evento che costituisce e inaugura nella Chiesa, la quale, in Gesù, sono chiamati tutti gli uomini di buona volontà.
Richiamo a questo punto la pagina lucana dei due discepoli di Emmaus, perché in essa troviamo qualcosa che caratterizza la Chiesa di ogni tempo, quindi anche la nostra. È un'immagine estremamente significativa e, proprio per questo, va considerata fino in fondo, in tutte le sue implicanze teologiche, spirituali, pastorali, giuridiche. I due pellegrini, Cleopa e il compagno di strada, stanno camminando con Gesù risorto e sono tristi, perché, per loro, è ancora morto. A un determinato momento pretendono, addirittura, di spiegare proprio a Lui che cosa era successo nei giorni precedenti in Gerusalemme a quel Gesù, profeta potente in parole e in opere di fronte a Dio e al popolo. Pare di intravvedere, in questo goffo tentativo, l'immagine di certa teologia, più volenterosa che illuminata, tutta dedita all'ardua e improbabile impresa di salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù Cristo e la sua Parola. Ma in questa immagine siamo rappresentati anche noi ogniqualvolta, coi nostri piani pastorali ed i nostri progetti ed i dibattiti avulsi da una vera fede, pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli è. Cleopa e il suo compagno di cammino e, dopo di loro, i discepoli di ogni tempo alla fine esprimono tutta la loro desolazione e sfiducia nei confronti di Gesù e del suo operato: questo accade quando nel discepolo viene meno la fede. Le parole dei due e l'uso del tempo imperfetto risultano inequivocabili: “Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni” (Lc 24, 21). Quando la fede viene meno o non è più in grado di sostenere e fecondare la vita dei discepoli, allora ogni discorso teologico, ogni piano pastorale o copertura mediatica paiono insufficienti e noi ci troviamo nella stessa condizione dei due discepoli di Emmaus, incapaci di andare oltre le loro logiche, i loro stati d'animo, scoprendosi prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di tutto ciò alla vigilia dell'incipiente Anno della Fede.
Ma l'Evangelista Luca ci tiene ancora e ci insegna ancora che spezzare il pane con Gesù, l'Eucarestia, è il gesto irrinunciabile e specifico del realismo cristiano, attraverso cui i discepoli potranno andare oltre le loro soggezioni, suggestioni e paure. In altre parole, l'Eucarestia ci consegna, nel mistero, Gesù vivo e vero, quindi l'Eucarestia dev'essere anche per noi evento privilegiato del realismo cristiano, luogo e momento in cui siamo chiamati ad andare oltre le nostre risorgenti incredulità, e ad aprirci un varco alla realtà intera che non prescinde dalle vicende storiche, ma va oltre di esse e, superando la parzialità della dimensione storica, ci consegna una prospettiva nuova, per cui si giunge a un amore capace di verità e a una verità sorretta dall'amore. Qui si inserisce e acquista il suo senso vero il commiato liturgico che fra poco, per la prima volta, attraverso la voce del diacono ci scambieremo reciprocamente, vale a dire: “La Messa è finita, andate in pace”. Quando la celebrazione liturgica è assunta nella nostra vita si dà il senso e la realtà ultima dell'Eucarestia, ossia l'umanità nuova che nasce dal corpo dato e dal sangue effuso non prescindendo dalla realtà storica del momento presente: “Quando fu a tavola con loro prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco, si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma Lui sparì dalla loro vista” (Lc 24, 30-31). Impegniamoci, come Chiesa che è in Venezia, a ricordarci reciprocamente la ricchezza e la fecondità di tale realismo cristiano: il vescovo lo faccia in quanto vescovo, i presbiteri in quanto presbiteri, i diaconi in quanto diaconi, i consacrati come consacrati, gli sposi come sposi e spose. Realismo cristiano che, in quanto tale, è sempre contestualmente rispettoso della molteplicità e delle distinzioni, ossia della sacralità come della laicità e ciò, a scanso di equivoci, sia detto e ripetuto: il vero realismo cristiano promuove sempre l'umano come tale, ovunque lo incontra. Realismo che, partendo da Gesù Cristo, ritorna a Cristo dopo aver incontrato e attraversato in tutto il suo spessore e i suoi diversi gradi la creaturalità dell'uomo; nell'Eucarestia la Carità di Cristo, donata qui e ora si dà la possibilità di rinnovare l'umanità stessa a partire dal rispetto dovuto ad ogni uomo e a tutto l'uomo. Non si dà quindi carità vera se si prescinde dal rispetto della giustizia effettiva, distributiva e contributiva oltre ogni facile aggiustamento.
Vogliamo infine includerci e includere quanto accennato nello scenario dell'Anno della Fede indetto da Benedetto XVI e che presto prenderà l'avvio e vedrà impegnata con forza la Chiesa che è in Venezia attraverso la corresponsabilità di tutti i suoi membri, secondo la loro specifica vocazione. Ci limitiamo a una sottolineatura circa l'evangelizzazione della Chiesa stessa, che deve crescere nella consapevolezza della fede per educarsi e porsi senza arroganza, ma anche senza timori e complessi di inferiorità, in una testimonianza dialogica con le culture del nostro tempo.
Ritorniamo infine al testo di Luca e vediamo come i due discepoli di Emmaus, senza frapporre indugio, fanno ritorno a Gerusalemme e proprio loro che, poco prima, avevano liquidato come semplici fantasie di donne l'evento glorioso della Resurrezione, ora vogliono annunciare alla Chiesa nascente che avevano niente di meno che incontrato il Signore Gesù lungo la strada e l'avevano riconosciuto nell'atto di spezzare il pane. Ma, loro malgrado, sono preceduti da chi dice loro: “Davvero il Signore è risorto e apparso a Simone” (Lc 24, 34). Il realismo cristiano si riflette su quanto appartiene all'uomo: innanzitutto include il rispetto della vita, sempre, senza condizioni; poi l'accoglienza /integrazione; la promozione della famiglia, cellula fondamentale della società umana; l'educazione, che mira alla pienezza della libertà; il lavoro come diritto e dovere che tocca la dignità stessa dei lavoratori e le loro famiglie, soprattutto oggi; il bene comune, col contributo specifico della dottrina sociale della Chiesa. Anche questi valori umani entrano negli scenari della vita risorta, sono i valori che stanno a cuore a una ragione amica della fede, valori che, vicendevolmente, si illuminano e sostengono. Pastore e fedeli, in un momento significativo per la vita della Chiesa di Venezia, si ritrovano oggi, fiduciosi, sotto il materno sguardo della Nicopeia, Colei che guida alla vittoria, e sono chiamati a dire il loro “sì”, come Maria al momento dell'Annunciazione. Un “sì” pronunciato col cuore e la ragione, un “sì” personale e comunitario, un “sì” detto a Dio e agli uomini nello spirito di Maria, che si lasciava condurre verso un oltre che fin d'ora è tutta la nostra gioia: quella gioia che io vi auguro di cuore.

Sia lodato Gesù Cristo.


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venerdì 23 marzo 2012

La Passione di Cristo - La condanna a morte

Nel quinto venerdì di Quaresima continuiamo la meditazione sulla Passione del Signore Gesù Cristo aiutati dalle meditazioni della Beata Anna Caterina Emmerich.

Gesù è condannato a morte
«Non scrivere: “Il Re dei Giudei”, ma che lui ha detto: “Io sono il Re dei Giudei”» (Giovanni 19,21).

Lo spirito vacillante di Pilato era colmo d'orrore per le parole di Gesù. Il Signore lo aveva reso cosciente dei suoi peccati più segreti e lo aveva convocato davanti al tribunale divino nel giorno del giudizio. Nonostante il procuratore romano si sentisse molto irritato dalle amare rivelazioni di Gesù, non avrebbe voluto condannarlo. D'altra parte, per evitare di essere denunciato all'imperatore, si sentiva spinto a compiere un ennesimo atto di viltà contrario alla giustizia, alla propria convinzione e alla promessa che aveva fatto alla sua consorte. Alla fine egli cedette alla paura e decise di abbandonare ai Giudei il sangue di Gesù. Per lavare la propria coscienza si fece versare sulle mani l'acqua e disse: «Io sono innocente del sangue di questo giusto. Voi soli ne risponderete!». No, Pilato, anche tu dovrai rendere conto del tuo operato, perché, quantunque lo riconosca giusto, lo condanni e versi il suo sangue innocente! Sei un giudice ingiusto e senza coscienza!
Mentre continuava a echeggiare il grido: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli!», Pilato rientrò nel suo palazzo e si dispose a pronunciare la sentenza. Si fece portare delle vesti da cerimonia, si pose intorno al capo una specie di corona con una gemma lucente e, indossato un manto, impugnò anche uno scettro. Circondato dai soldati e preceduto dai littori, seguito dagli scribi muniti di rotoli e tavolette, il procuratore discese dal palazzo e giunse nel Gabbata, la loggia rotonda dove pronunciava le sentenze più importanti. Il corteo era preceduto dal suono di tromba. Pilato si assise sul seggio più elevato, di fronte alla colonna della flagellazione. Il seggio era ricoperto da un drappo scarlatto sul quale stava un cuscino azzurro con i bordi gialli; dietro ad esso si trovava il banco degli assessori. Numerosi legionari romani avevano circondato la terrazza e si erano assiepati sui gradini. Il Salvatore fu trascinato attraverso la folla e venne posto in mezzo a due ladroni condannati alla crocifissione. Gesù aveva il manto rosso sulle spalle e la corona di spine intorno al capo martoriato; la moltitudine furiosa lo scherniva e lo malediceva. I sacerdoti avevano fatto ritardare l'esecuzione di questi ladroni della peggiore specie con l'intenzione di umiliare maggiormente Gesù. Le croci dei ladroni giacevano a terra accanto a loro; ma non vidi la croce del Salvatore, probabilmente perché la sua sentenza di morte non era stata ancora pronunciata.
Appena si fu assiso sul seggio, Pilato disse ancora una volta ai nemici di Gesù: «Ecco il vostro re!». Ma essi risposero: «Crocifiggilo!». Pilato replicò: «Dovrò dunque crocifiggere il vostro re?». «Noi non abbiamo altro re all'infuori dell'imperatore!», risposero pronti i sommi sacerdoti. Vidi Gesù, alla base della scalinata che conduce al tribunale, esposto al dileggio dei suoi nemici. La santa Vergine, che si era ritirata dopo la flagellazione di Gesù, si gettò attraverso il furore della folla per udire la sentenza di morte dell'amato suo Figlio e suo Dio. Uno squillo di tromba interruppe il tumulto del popolo imponendo il silenzio. Pilato pronunciò la sentenza di morte con la disinvoltura di un pusillanime. Dopo un lungo preambolo espose i capi d'accusa contro Gesù: «Condannato a morte dai capi dei sacerdoti per aver turbato l'ordine pubblico e violato le leggi ebraiche, facendosi chiamare figlio di Dio e re dei Giudei». Il procuratore romano disse che il popolo ebreo aveva chiesto all'unanimità la crocifissione del Galileo. Quando poi lo sentii aggiungere che egli stesso aveva trovato giusto quel giudizio, mi sentii morire di fronte alla sua infame doppiezza. E, facendo portare la croce, Pilato concluse con la condanna capitale: «Condanno Gesù di Nazaret, re dei Giudei, alla crocifissione!». Nel sentir pronunciare queste parole l'Addolorata svenne. Giovanni e le pie donne la portarono subito via perché non fosse sottoposta all'onta dell'insulto; anche per non permettere a quella folla scatenata di accollarsi un'altra colpa infame.
Non appena rinvenne, la Madonna volle unirsi al suo santo Figlio nello spirito del dolore percorrendo i luoghi in cui egli aveva sofferto. Le pie donne l'accompagnarono sul cammino della via dolorosa. Pilato redasse la condanna a morte e gli scrivani la copiarono tre volte: una copia venne inviata in un paese lontano. La sentenza scritta dal procuratore romano differiva notevolmente da quella espressa verbalmente. Vidi che mentre scriveva il suo spirito era assai turbato, come se un angelo incollerito guidasse la sua penna. Il senso di questo scritto era il seguente: «Costretto dalle insistenti pressioni dei sacerdoti del tempio, da tutto il sinedrio e dalla minaccia di una sommossa popolare, ho consegnato agli Ebrei Gesù di Nazaret, accusato d'aver turbato la pace pubblica, di aver bestemmiato e violato le loro leggi. Ho pronunciato la condanna di quest'uomo nonostante le accuse non chiare, per non essere accusato dall'imperatore di aver provocato una rivolta dei Giudei. L'ho consegnato alla crocifissione insieme a due criminali già condannati dai Giudei». Egli fece scrivere su una tavoletta di colore bruno iscrizione da apporre sopra la croce i sommi sacerdoti, che si trovavano ancora nel tribunale, protestarono indignati contro la formulazione della sentenza, poiché Pilato aveva scritto che essi avevano fatto ritardare l'esecuzione dei ladroni con il proposito di crocifiggere Gesù con loro. Inoltre essi chiesero che sulla tavoletta non si scrivesse «re dei Giudei», bensì che «si era detto re dei Giudei». Pilato si spazientì e rispose loro incollerito: «Ciò che ho scritto, è scritto!». Tuttavia essi pretendevano che l'iscrizione fosse almeno soppressa, rappresentando un insulto al loro onore. Pilato non esaudì la loro richiesta, e così fu necessario allungare la croce mediante l'aggiunta di un altro pezzo di legno, sul quale si poteva inchiodare la tavoletta con la scritta.
Quando la croce di Gesù fu adattata in questo modo, risultò più alta di quelle dei ladroni e assunse la forma di una Y, come ho sempre contemplato; i due bracci risultarono più sottili del tronco; infine si appose uno zoccolo di legno nel posto dei piedi per sostenerli. Dopo che Pilato ebbe pronunciato l'infame sentenza, la sua consorte gli restituì il pegno e si separò da lui per sempre. La sera stessa della sentenza la vidi uscire furtivamente dal suo palazzo e correre verso gli amici di Gesù; fu nascosta in un sotterraneo nella casa di Lazzaro, a Gerusalemme. Claudia Procla si fece cristiana e seguì san Paolo. Vidi poi un amico di Gesù scolpire su una pietra verdastra alla base del Gabbata queste parole: «Claudia Procla - Judex injustus».
Il Signore venne abbandonato nelle mani dei carnefici. Gli restituirono i suoi indumenti, poiché era usanza dei Romani rivestire coloro che venivano condotti al supplizio. Gli indumenti di Gesù erano stati lavati da persone compassionevoli. Per poterlo rivestire, quegli ignobili lo denudarono un'altra volta e gli slegarono le mani. Gli strapparono violentemente il mantello purpureo, provocandogli con gran dolore la riapertura delle ferite. Egli stesso, tremante, si cinse con la fascia che serviva a coprirgli le reni. Gli fu gettato lo scapolare sulle spalle. Siccome a causa della corona di spine era impossibile infilargli la tunica inconsutile, essi gliela strapparono dalla testa causandogli dolori indicibili. Sulla tunica, tessuta dalla sua santa Madre, gli fecero indossare l'ampia veste di lana bianca, la larga cintura e il mantello. Intorno alla vita gli legarono la cinghia munita di punte, dov'erano attaccate le corde con le quali lo trascinavano. Tutto ciò fu eseguito con disgustosa brutalità. I due ladroni stavano uno a destra e l'altro a sinistra di Gesù, avevano le mani legate e portavano una catena attorno al collo. Erano ridotti male: a causa della recente flagellazione i loro corpi erano ricoperti di piaghe. Indossavano una tunica senza maniche e una cintura intorno alle reni, sul capo avevano un cappello di paglia intrecciata, simile a quello che portano i bambini. Il ladrone, che più tardi si convertì, era già calmo, rassegnato e pensoso; l'altro, invece, era volgare e insolente: egli si univa ai carnefici nel lanciare insulti e imprecazioni contro Gesù, il quale offriva le sue sofferenze per la loro salvezza. Vidi i carnefici occupati a sistemare gli attrezzi di tortura e a organizzare il doloroso cammino del Redentore.
Dopo aver ricevuto una copia della sentenza, i sacerdoti si affrettarono a raggiungere il tempio. E mentre questi perfidi immolavano sull'altare di pietra gli agnelli pasquali, lavati e benedetti, i brutali carnefici sacrificavano sull'altare della croce l'Agnello di Dio, sfigurato e contuso. Il primo era l'altare simbolico della legge; il secondo era quello della grazia, della carità e del perdono. L'iscrizione fu stilata in latino, greco ed ebraico, in modo che anche gli stranieri potessero leggerla. Dopo aver pronunciato la sentenza di morte, Pilato fece ritorno al palazzo. Era trionfante, circondato dalle guardie e preceduto dagli squilli di tromba. L'infame giudizio era stato pronunciato intorno alle dieci del mattino.


Fonte: diocesidicapua.it.

martedì 20 marzo 2012

Ingresso del Patriarca - Informazioni e dirette

Si avvicina il giorno dell'ingresso solenne del Patriarca Francesco nella nostra diocesi. Sabato prossimo mons. Moraglia sarà a Mira, dove incontrerà i sacerdoti e i fedeli laici dei vicariati della Riviera, ed il pomeriggio culminerà con il grande incontro di Mestre con tutti i giovani del patriarcato, nella chiesa del Sacro Cuore di Mestre. Domenica 25 sarà il giorno della presa di possesso canonica della diocesi, con la Santa Messa solenne in Basilica Cattedrale di San Marco, che avrà inizio alle 16:15 e sarà preceduta dal corteo acqueo lungo il Canal Grande ed il saluto alle autorità civili.
A causa del numero comprensibilmente limitato di posti all'interno della Basilica, l'ingresso dei fedeli alla Santa Messa di domenica pomeriggio è stato regolato tramite inviti. Tutti coloro che vorranno comunque partecipare a questo momento solenne potranno usufruire dei maxi-schermi installati all'esterno della Basilica, in piazzetta dei leoncini, dove, al termine della celebrazione, il patriarca si intratterrà per salutare i fedeli, e in Basilica della Madonna della Salute, con disponibilità di posti a sedere fino ad esaurimento.
Per coloro che invece saranno impossibilitati a raggiungere Venezia vi è comunque la possibilità di partecipare spiritualmente a questo momento e di seguirlo rimanendo collegati tramite la televisione o la radio.
Alla televisione la diretta sarà trasmessa su Telechiara, canale 14 del digitale terrestre oppure collegamento internet in diretta streaming all'indirizzo http://www.telechiara.net/diretta/. La diretta di Telechiara avrà inizio alle ore 14:15, riproponendo, prima della trasmissione della Santa Messa, i vari momenti salienti dell'ingresso del Patriarca. Alla radio la diretta sarà trasmessa su Bluradio Veneto, frequenze fm 88.7-94.6 oppure diretta streaming all'indirizzo http://bluradioveneto.it/files/stream.html, anche in questo caso a partire dalle 14:15.

Le due emittenti proporranno inoltre una ricca serie di appuntamenti nei giorni immediatamente precedenti l'evento, che sarà possibile seguire con questo calendario:

Telechiara
Canale 14 DTT oppure http://www.telechiara.net/diretta/

Venerdì 23 marzo, dalle ore 21.00 alle 23.00, Telechiara realizzerà - in diretta dalla cripta della basilica cattedrale di San Marco - una puntata speciale del talk “Fatti Nostri - La Piazza”. Saranno presenti tra gli altri, accanto a molti rappresentanti della Chiesa veneziana: il vescovo di Adria-Rovigo mons. Lucio Soravito, il prof. Massimo Cacciari, il direttore del Gazzettino Roberto Papetti, il presidente dell'Osservatorio socioreligioso del Triveneto Alessandro Castegnaro e il preside dell'Istituto di liturgia pastorale S. Giustina don Luigi Girardi. Si parlerà in tale occasione anche di quale Venezia e quale Nordest si troverà ad accogliere il nuovo Patriarca, soprattutto alla luce degli ultimi e rilevanti dati sulle grandi trasformazioni - socioeconomiche e religiose - in atto nel corso degli ultimi vent’anni.

Bluradio Veneto
Frequenze fm 88.7-94.6 oppure http://bluradioveneto.it/files/stream.html

Da lunedì 19 a venerdì 23 marzo alle ore 17.15: all’interno dell’edizione quotidiana di “Primo Piano” interviste e approfondimenti sull’arrivo del nuovo Patriarca (disponibili poi sul sito www.bluradioveneto.it).
Venerdì 23 marzo, dalle ore 21.00 alle 23.00: in diretta dalla basilica di S. Marco il talk “Fatti Nostri - La Piazza” realizzato da Telechiara con ospiti, interviste, commenti e attese a poche ore dall’arrivo del nuovo Patriarca.
Sabato 24 marzo, dalle ore 14.30 alle 18.00: edizione speciale di “Primo Piano” con collegamenti in diretta per seguire le prime tappe dell’ingresso in diocesi di mons. Moraglia (a Mira, Marghera e Mestre).

venerdì 16 marzo 2012

La Passione di Cristo - La flagellazione

Nel quarto venerdì di Quaresima continuiamo il nostro cammino nella lettura delle visioni che ebbe la Beata Anna Caterina Emmerich sulla Passione del Signore nostro Gesù Cristo.

L'orribile flagellazione

Per calmare la plebaglia con una punizione che la impietosisse, Pilato diede ordine di flagellare Gesù, secondo l'uso romano, ma il popolaccio, aizzato dai farisei, continuava a gridare: «Sia crocifisso!». Fra il tumulto e il furore popolare Gesù fu condotto dagli sgherri sul piazzale. Il Signore venne trascinato bruscamente vicino al corpo di guardia del pretorio, dove si trovava la colonna di marmo munita di anelli e ganci; essa era destinata esclusivamente alla flagellazione dei condannati. I sei flagellatori, che svolgevano la funzione di carnefici nel pretorio, provenivano dalle frontiere egiziane, erano bruni, bassi e tarchiati; seminudi e mezzo ebbri, sembravano bestie assetate di sangue. Essi avevano nello sguardo qualcosa di diabolico; vicino a quella colonna avevano fustigato a morte molti altri condannati. Benché il Salvatore non avesse opposto alcuna resistenza, venne trascinato con le funi, mentre i flagellatori gli assestavano pugni e calci. Gli strapparono di dosso il manto derisorio di Erode e fecero quasi cadere il Signore a terra. Vidi Gesù tremare e rabbrividire davanti alla colonna. Egli stesso si tolse la veste con le mani gonfie e sanguinanti. Poi pregò e volse per un attimo lo sguardo verso la sua santa Madre immersa nel dolore. Gesù si rivolse verso la colonna e, poiché lo avevano costretto a denudarsi completamente, disse ai suoi fustigatori: «Distogliete i vostri sguardi da me!». Non so se Gesù avesse pronunciato realmente queste parole, o fosse solo il suo pensiero, ma compresi che Maria aveva udito quella frase perché svenne tra le braccia delle sue compagne. I carnefici, senza cessare le loro orrende imprecazioni, legarono le mani di Gesù a un grande anello fissato alla sommità della colonna dell'infamia. Così facendo, gli tesero talmente le braccia al di sopra della testa che i piedi legati fortemente alla colonna non toccavano completamente il suolo. Due di quei bruti, assetati di sangue, iniziarono a flagellare il corpo immacolato di Gesù provocandogli i più atroci tormenti. Non mi è possibile descrivere nei particolari le tremende atrocità inflitte a nostro Signore. Le prime verghe di cui si servirono gli aguzzini erano strisce di color bianco, sembravano fatte di legno durissimo o nervi di bue. Dorso, gambe e braccia venivano lacerati sotto i pesanti colpi del flagello, finché la pelle a brandelli col sangue schizzò al suolo. I gemiti dolorosi di Gesù sofferente erano soffocati dal clamore della plebaglia e dei farisei, che continuavano a gridare: «Fatelo morire! Crocifiggetelo!». Per imporre il silenzio, e continuare a parlare al popolo, Pilato faceva suonare una tromba. Allora sulla piazza si udivano solo le sue parole, accompagnate dall'orribile sibilo della frusta e dai gemiti del Signore, come anche dalle imprecazioni degli ebbri carnefici. Particolare commozione suscitavano i belati lamentosi degli agnelli pasquali mentre venivano lavati nella Piscina delle Pecore; il loro innocente belato si confondeva con i lamenti di Gesù. La maggior parte del popolo manteneva una certa distanza dal luogo della flagellazione, solo alcuni andavano e venivano dai paraggi della colonna per insultare il Signore. Altri si erano commossi; vidi su questi aleggiare un raggio di luce. Giovani infami preparavano verghe fresche presso il corpo di guardia, altri cercavano rami spinosi per intrecciare la corona di spine. I servi dei sacerdoti avevano regalato denaro ai flagellatori e avevano dato loro delle brocche colme di un liquore rosso, del quale bevvero fino a ubriacarsi. Dopo un quarto d'ora i carnefici che avevano flagellato Gesù furono sostituiti da altri due. Questi ultimi si avventarono contro Gesù con cieco furore, usando anche bastoni nodosi con spine e punte. I colpi dei loro flagelli laceravano la carne del Signore fino a farne sprizzare il sangue sulle braccia dei carnefici. Presto quel santo corpo fu ricoperto di macchie nere e rosse, il sangue colava a terra ed egli si muoveva in un tremito convulso, tra ingiurie e dileggi. Intanto si trovavano a passare per il foro diversi stranieri sui cammelli; li vidi guardare con angoscia e commozione quella scena orribile. Tra i viaggiatori c'erano alcuni battezzati da Giovanni e altri che avevano udito il sermone della montagna. La notte era stata insolitamente fredda e il cielo era rimasto coperto; con grande meraviglia della gente, durante la mattinata era caduta la grandine. La terza coppia di carnefici si avventò con maggior foga delle altre sul corpo martirizzato di Gesù. Per la fustigazione essi si servirono di cinghie munite di uncini di ferro. Eppure la loro rabbia diabolica non si placò. Gesù venne slegato e poi di nuovo legato, questa volta col dorso contro la colonna. Poiché il Signore non poteva più reggersi, gli passarono delle corde sul petto e lo legarono con le mani dietro la colonna. Ripresero così a fustigarlo. Gesù aveva il corpo ridotto a un'unica piaga e guardava i suoi carnefici con gli occhi pieni di sangue, come se implorasse la grazia. Ma, in risposta ai suoi flebili gemiti, la loro furia aumentò e uno dei carnefici lo colpì al viso con un'asta più flessibile. L'orribile flagellazione durava già da tre quarti d'ora, quando uno straniero d'infima classe, parente di un cieco sanato da Gesù, si precipitò dietro la colonna con un coltello a forma di falce e gridò con voce indignata: «Fermatevi! Non colpite quest'innocente fino a farlo morire!». Approfittando dello stupore dei carnefici ebbri, lo straniero recise le corde annodate dietro la colonna e subito disparve tra la folla. Gesù cadde al suolo in mezzo al suo sangue; gli aguzzini lo lasciarono e se ne andarono a bere. Il Signore, sanguinante e coperto di piaghe, si trovava di steso ai piedi della colonna, quando vidi due prostitute dall'aria sfrontata avvicinarsi a lui. Queste donne di malaffare si tenevano per mano, lo guardarono e ne ebbero un moto di disgusto. Gesù levò verso di loro il suo capo sofferente e il dolore si fece più straziante. Esse si affrettarono ad allontanarsi, accompagnate dalle parole indecenti delle guardie e degli aguzzini. Durante l'orribile flagellazione avevo udito la preghiera con la quale Gesù si offriva al Padre per espiare i peccati del mondo. Avevo visto degli angeli piangenti vicino a lui. Mentre il Signore giaceva immerso nel suo sangue, un cherubino ai piedi della colonna gli mise sulla lingua un boccone lucente. Al loro ritorno i flagellatori lo presero a calci per farlo rialzare. Gesù, strisciando, fece per riprendersi la fascia che gli aveva cinto i fianchi, ma i carnefici gliela spingevano sempre più lontana, costringendolo a contorcersi al suolo nel suo sangue e a strisciare come un verme; tutto questo avveniva tra i fischi, i motti e gli insulti della gente. Infine lo rimisero in piedi, gli gettarono la veste sulle spalle e lo sospinsero frettolosamente verso il corpo di guardia. Con la veste egli si asciugava il sangue che gli fuoriusciva copioso dal volto. Invece di condurlo attraverso i porticati, i carnefici lo fecero passare davanti ai sommi sacerdoti, i quali, appena lo videro, gridarono: «A morte!», e distoglievano il capo con disgusto. Gesù fu fatto passare per la corte interna del corpo di guardia; in quel momento non c'erano soldati ma solo schiavi e miserabili della peggiore specie. Quando la crudele flagellazione ebbe fine erano circa le nove del mattino. Poiché il popolo era in grande agitazione, Pilato fece intervenire la guarnigione della fortezza Antonia. I soldati, schierati intorno al corpo di guardia, si prendevano beffa di Gesù e ridevano divertiti senza uscire dai ranghi.

Maria santissima durante la flagellazione di Gesù

Durante il supplizio di Gesù la Vergine Maria rimase rapita in un'estasi dolorosa. Ella soffrì nello spirito le stesse pene provate dal suo divin Figlio: dalle sue labbra prorompevano dei gemiti sommessi e i suoi occhi erano arrossati dal molto pianto. La Madonna giaceva svenuta tra le braccia della sorella maggiore, Maria Heli, che era già in età avanzata e aveva molta somiglianza con sua madre Anna. Maria di Cleofa, figlia di Maria Heli, stava appoggiata al braccio di sua madre. Le altre sante compagne di Maria santissima e di Gesù erano tutte presenti, velate e tremanti per il dolore e l'angoscia. Le discepole si stringevano intorno alla santa Vergine, piangendo e fremendo come se stessero aspettando la propria condanna a morte. Maria santissima portava una lunga veste color cielo, sormontata da un lungo mantello di lana bianca e da un velo giallo pallido. Maria Maddalena appariva annientata dal dolore, con i capelli in disordine e gli occhi gonfi dal pianto. Nello stesso momento in cui Gesù era caduto ai piedi della colonna, Claudia Procla aveva inviato alla Vergine un pacco di grandi teli di lino. Non so se la consorte di Pilato credesse nella liberazione del Signore o avesse avuto il presentimento della sua crocifissione; in qualsiasi caso quei teli sarebbero stati utili per fasciare il suo corpo piagato. Quando riprese i sensi, Maria vide suo Figlio, con il corpo piagato e insanguinato, trascinato via dai carnefici. Gesù si asciugò il sangue dagli occhi con un lembo della veste per guardare la sua amatissima Madre. Ella tese le braccia verso di lui e seguì con strazio profondo le orme di sangue che lasciavano i suoi passi. Allontanatasi la folla, la santa Vergine e Maria Maddalena si avvicinarono alla colonna e, protette dalle pie donne, asciugarono dal suolo il sangue del Signore con alcuni teli. Vidi alcuni discepoli di Gesù nel tempio: sui loro volti erano ritratte la tristezza e l'angoscia.

L'aspetto della Vergine Maria e di Maria Maddalena durante la passione del Signore

Vedo le guance della Madonna pallide e smunte, il naso di forma sottile e gli occhi arrossati dal gran piangere. Indescrivibile è il suo aspetto sconvolto, eppure nulla vi è di scomposto o in disordine nel suo abbigliamento. L'ho vista errare in mezzo alla folla di Gerusalemme e poi nella valle di Giosafat. Dalla sua figura traspare la luce della santità, i suoi movimenti sono semplici, calmi e dignitosi; il suo contegno e il modo di guardare sono regali, tutto in lei è semplice, degno, puro e innocente. La sua veste azzurra è inumidita dalla rugiada notturna e dalle abbondanti lacrime, mentre lei appare pulita e bene ordinata. La sua indicibile bellezza, ineffabile e soprannaturale, esprime contemporaneamente casta purezza, semplicità e santità. Maria Maddalena ha un aspetto diverso: è più alta e robusta, inoltre nella sua persona e negli atteggiamenti vedo qualcosa di più accentuato che in Maria. Le sue vesti sono in disordine e lacere, sporche di fango, i suoi capelli cadono sciolti sotto il velo umido ridotto in cenci. Il pentimento e la disperazione l'hanno sconvolta e sfigurata, non pensa ad altro che al suo Signore e ha l'aria d'una pazza. Molte persone di Magdala, che si trovano a Gerusalemme in occasione della Pasqua, l'insultano a causa della sua passata vita scandalosa e le gettano fango addosso. Ma lei è tanto assorta nel suo dolore che non bada a nulla.

Gesù oltraggiato e coronato di spine
«Andandogli davanti dicevano: “Salve, re dei Giudei!”, e gli davano schiaffi» (Giovanni 19,3).

Il lunedì dopo la quarta domenica di Quaresima, la pia suora cominciò nuovamente ad avere le visioni sulla passione di Gesù; fu afferrata da un accesso di febbre e da una sete ardente, tanto che la sua lingua era interamente inaridita.
L'estatica iniziò la narrazione senza ordine alcuno, con molta fatica e strazianti sofferenze; disse che le era impossibile narrare tutti i maltrattamenti subiti da Gesù durante l'incoronazione di spine. Suor Emmerick aveva chiesto a Dio la grazia di provare la stessa arsura del Salvatore (Clemens Brentano).


Pilato parlò ancora al popolo, che gli rispose elevando un solo grido: «Condannalo a morte! Dovessimo noi pure morire tutti insieme!». E quando Gesù fu condotto all'incoronazione di spine i suoi nemici gridarono: «A morte! A morte!». Questo grido fu ripetuto più volte da nuove masse di Giudei che, sobillati dai farisei, continuavano ad affluire nella piazza vicino al pretorio. Il procuratore si ritirò per offrire incenso agli dèi e impartire ordini ai suoi soldati. Ci fu una breve pausa, i sacerdoti e i sinedriti, seduti sulle panche davanti alla terrazza del procuratore, si fecero portare dai loro servi qualcosa da mangiare. Dopo aver asciugato le tracce del santo sangue di Gesù ai piedi della colonna e tutt'intorno, la santa Vergine e le pie donne lasciarono il foro ed entrarono in una casetta a ridosso di un muro; avevano con loro i teli di lino intrisi di sangue. L'incoronazione di spine fu eseguita nel cortile del corpo di guardia, le cui porte erano aperte; nell'interno si trovavano una cinquantina di aguzzini, servi e furfanti, i quali presero parte attiva ai martìri di Gesù. La folla si accalcava da tutti i lati, finché l'edificio fu isolato dai soldati romani. Gesù fu spogliato nuovamente e rivestito di un vecchio mantello militare color porpora, che gli arrivava fin sopra alle ginocchia. Il mantello si trovava in un angolo della stanza e con esso venivano coperti i criminali dopo la flagellazione. Il Signore fu fatto sedere al centro del cortile, su un tronco di colonna ricoperto di cocci di vetro e di pietre. Indicibile fu il tormento di quella incoronazione: intorno al capo di Gesù venne legato un serto intrecciato di tre rami spinosi, alto due palmi, le cui punte erano rivolte verso l'interno. Nel legare posteriormente la corona al santo capo, i carnefici gliela strinsero brutalmente per fare in modo che le spine grosse un dito si conficcassero nella sua fronte e nella nuca. Poi gli infilarono una canna tra le mani legate, si posero in ginocchio davanti a lui e inscenarono l'incoronazione di un re da burla. Non contenti gli strapparono di mano quella canna, che doveva figurare come scettro di comando, e iniziarono a percuotergliela sulla corona di spine, tanto che gli occhi del Salvatore furono inondati di sangue; al tempo stesso i malfattori lo schiaffeggiavano e gli rivolgevano volgarità di ogni tipo. Non saprei ripetere tutti i violenti maltrattamenti che quei perfidi miserabili riuscivano a inventare per far soffrire il nostro povero Gesù. Nostro Signore era orribilmente sfigurato. Inoltre era tormentato dall'arsura e dalla febbre violenta, causata dalle sue numerose ferite. Tremava tutto e le sue carni erano dilaniate fino all'osso, la lingua era ritratta convulsamente e solo il santo sangue che gli colava dalla fronte rinfrescava la sua bocca riarsa. I tormenti di Gesù, causati dall'infame incoronazione di spine, durarono circa mezz'ora. I numerosi soldati che circondavano il pretorio non avevano fatto altro che ridere e trarne godimento.

«Ecce homo»
«... Uscì Gesù, portando la corona di spine e il manto di porpora. Pilato disse loro: “Ecco l'uomo!”» (Giovanni 19,5).

Con il mantello scarlatto sul dorso, la corona di spine sul capo e lo scettro di canna tra le mani, Gesù venne ricondotto nel palazzo di Pilato. Il Signore era irriconoscibile, il sangue gli riempiva gli occhi e dalla fronte incoronata gli scorreva sul volto congestionato fin nella bocca e in mezzo alla barba. Il suo corpo era tutto una piaga, tanto che camminava curvo e malfermo. Il povero Gesù giunse sotto la scalinata davanti a Pilato, suscitando perfino in quest'uomo crudele un senso di compassione. Il popolo e i perfidi sacerdoti continuavano a schernirlo. Il procuratore romano, assalito da un forte fremito di ribrezzo, si rivolse a uno dei suoi ufficiali e disse: «Se il diavolo dei Giudei è così crudele, non si può abitare nel loro inferno!». Condotto faticosamente dagli sgherri, il Signore fu portato per la scalinata davanti a Pilato. Il quale, sporgendosi sulla terrazza, fece suonare la solita tromba per imporre il silenzio, poi parlò ai sacerdoti e al popolo: «Vedete, lo faccio venire ancora una volta davanti a voi perché riconosciate che io lo trovo innocente!». Allora il Signore fu condotto accanto a Pilato in modo che tutti potessero vederlo così sfigurato. Allorché egli comparve davanti al popolo, insanguinato, con la corona di spine sul capo e la canna tra le mani, si levò nell'aria un mormorio generale d'orrore. Frattanto alcuni stranieri, uomini e donne in veste succinta, attraversavano il foro per scendere nella Piscina delle Pecore e aiutare l'abluzione degli agnelli pasquali. I lamenti di quelle bestiole si levavano alti verso il cielo, quasi a testimoniare il prossimo sacrificio dell'Agnello di Dio. Gesù teneva gli occhi inondati di sangue diretti in basso sulla folla ondeggiante, mentre Pilato, segnandolo a dito, gridava ai Giudei: «Ecco l'uomo!».
I sacerdoti, i sinedriti e gli altri sobillatori, nel vedere Gesù come implacabile specchio della loro coscienza, furono presi dal furore e urlarono in coro: «Sia tolto dal mondo! Sia crocifisso!». Con voce risentita, Pilato gridò: «Non ne avete abbastanza? Egli è stato trattato in modo che non ha più voglia di farsi eleggere re!». Ma quei forsennati urlarono nuovamente: «Sia crocifisso!». Dopo un altro squillo di tromba, il procuratore romano disse con rabbia: «Prendetelo e crocifiggetelo voi, perché io non vedo in lui nessuna colpa!». I principi dei sacerdoti e i sinedriti ribatterono: «Noi abbiamo una legge secondo la quale deve morire, perché si è dichiarato Figlio di Dio».
Queste ultime parole risvegliarono in Pilato timori superstiziosi. Egli fece portare Gesù in disparte e gli chiese: «Da dove vieni?». Ma siccome il Signore non rispondeva, il procuratore gli disse: «Non mi dici nulla? Non sai che io ho il potere di crocifiggerti o di liberarti?». Gesù rispose: «Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse concesso dall'Alto. Perciò chi mi ha consegnato a te ha una colpa più grave». Claudia Procla, timorosa per l'esitare del marito, gli aveva rinviato il pegno per ricordargli la promessa, ma questa volta Pilato le diede una risposta vaga, facendole sapere che si era affidato alla volontà degli dèi. I sacerdoti e i farisei, avendo avuto notizia dell'intervento di Claudia in favore di Gesù, fecero circolare la voce di un'alleanza dei Romani con il Galileo ai danni del popolo ebraico. Vidi Pilato molto turbato per il diffondersi di queste false voci, per le parole di Gesù e i sogni della sua consorte. Perciò egli ripeté ai sacerdoti che non trovava nel Galileo alcuna colpa degna di morte. Ma poiché questi ultimi chiedevano con sempre maggior insistenza la morte del Signore, volle ottenere da Gesù stesso una risposta che potesse toglierlo da quel penoso stato d'animo. Pilato rientrò nel pretorio e restò solo con lui. Guardando il Signore così malridotto, egli pensava: «E' mai possibile che costui sia il figlio di Dio?». Poi lo scongiurò di dirgli se fosse davvero il promesso re dei Giudei, fin dove si estendesse il suo impero e a che genere di divinità appartenesse; infine promise a Gesù la libertà se gli avesse dato queste risposte. Il Signore gli rispose con tono grave e severo, di cui posso ricordare solo il senso di quanto disse. Spiegò a Pilato che il suo vero regno era quello dello Spirito di Dio, gli mostrò la verità del mondo e gli ricordò tutti i delitti da lui commessi in segreto, profetandogli la miserabile sorte che lo aspettava, cioè l'esilio, la miseria e la terribile fine. Inoltre gli annunciò che il Figlio dell'uomo avrebbe pronunciato su di lui un equo giudizio. Irritato e spaventato dalle parole del Salvatore, il procuratore ritornò sulla terrazza e riconfermò la sua decisione di liberare Gesù. La folla rumoreggiò nel cortile del pretorio, mentre i sinedriti gli gridavano: «Se lo liberi, non sei amico dell'imperatore, perché chi vuole farsi re è nemico di Cesare!». Infine lo minacciarono dicendogli che l'avrebbero denunciato all'imperatore e che era necessario farla finita, perché alle dieci dovevano trovarsi al tempio. Il grido: «Crocifiggilo!» risuonava adesso da tutte le parti, perfino dai tetti piatti del foro dov'erano saliti numerosi furibondi. Quel tumulto aveva in sé qualcosa di orrendo. Pilato, rimasto isolato, fu preso dallo spavento e temette una rivolta. Fatta portare dell'acqua in una brocca, se la fece versare sulle mani da un servo e, rivolto al popolo, disse: «Del sangue di questo giusto io sono innocente e voi soli ne risponderete». In quel momento si levò la possente voce del popolo, tra cui si trovava gente di tutta la Palestina: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli!».

Gli effetti della spaventosa maledizione. Angeli e demoni
«Il sangue suo cada su noi e sui nostri figli» (Matteo 26,25).

Ogni qual volta contemplo la dolorosa passione di Cristo, risento quell'orribile e poderoso grido dei Giudei: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli!». Gli effetti della spaventosa maledizione mi appaiono sotto l'aspetto d'immagini terribili. Vedo la folla urlare sotto il cielo cupo, coperto di nubi color sangue, da cui guizzano verghe di fuoco che penetrano fino all'utero delle madri di questo popolo. Vedo la moltitudine immersa nelle tenebre e quell'urlo spaventoso uscire dalla sua bocca sotto forma di fuoco. Esso ricade sopra alcuni come una spada ardente e penetrante, e resta invece sospeso sopra i convertiti al Signore. Questi ultimi non furono pochi, poiché per tutto il tempo della sua passione Gesù e la santa Madre avevano incessantemente pregato per la salvezza dei loro persecutori. Ho visto innumerevoli demoni agitarsi tra la folla: eccitavano i Giudei animandoli contro Gesù, bisbigliando loro nell'orecchio ed entrando nella loro bocca; ma dopo li ho visti fuggire, sbigottiti di fronte al puro amore del Signore. Vedo gli angeli circondare Gesù, Maria e un ristretto numero di santi, i cui volti e atteggiamenti hanno le sembianze delle opere di misericordia che praticano: la consolazione, la preghiera, l'unzione o altro.


Fonte: diocesidicapua.it.

giovedì 15 marzo 2012

Un pensiero sulla sentenza n. 4184

Con la sentenza di quest'oggi la Cassazione ha sentenziato che le coppie omosessuali sono "titolari del diritto alla vita famigliare". A dire la verità è una delle tante sentenze che periodicamente si affacciano sulle prime pagine dei giornali e dei telegiornali; ma è abbastanza curiosa l'impressionante coincidenza di tempi, che ha fatto in modo che si parli dello stesso argomento, l'estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, in contemporanea praticamente in tutta europa. Si è cominciato infatti con la vicenda britannica, culminata con il duro attacco in diretta sulla televisione pubblica BBC al cardinale arcivescovo di Saint Andrew ed Edimburgo O' Brien, di cui ho parlato ieri; sempre ieri, poi, un voto del Parlamento Europeo ha intimato ai governi europei di non dare "definizioni restrittive di famiglia"; infine oggi la sentenza della Cassazione italiana. Non credo di essere l'unico al quale nasce il sospetto che sotto una tale successione di coincidenze si possa nascondere una regia, atta a creare un clima tale per cui i governi, e nella fattispecie quello italiano, non possano che conformarsi alla situazione europea, per non sfigurare in quanto a "civiltà" e "modernità" nei confronti dei colleghi.
Questo sospetto si alimenta dando un'occhiata più estesa alle parole della sentenza trasmesse dalle agenzie di stampa; in esse si legge che: «I componenti della coppia omosessuale [...], anche se secondo la legislazione italiana non possono far valere ne' il diritto a contrarre matrimonio, ne' il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero, tuttavia - a prescindere dall'intervento del legislatore in materia - quali titolari del diritto alla vita famigliare e nell'esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
In sostanza i giudici della corte riconoscono che la legislazione italiana non ammette, per le coppie omosessuali, il diritto a contrarre matrimonio; e nemmeno, quindi, si permette di ammetterlo lei stessa questo diritto. Tuttavia, "a prescindere dall'intervento del legislatore in materia", queste coppie possono "far valere il diritto..." eccetera. A chi dunque dobbiamo credere? Può un sistema legislativo non riconoscere un diritto e, nel contempo, permettere di far valere il diritto? O è forse una delle tante ambiguità legislative per cui vale il detto: "Fatta la legge trovato l'inganno"?
Un secondo punto molto importante, riguarda sempre le espressioni usate: non si parla del diritto delle coppie omosessuali di "contrarre matrimonio", ma si vuole usare un'espressione forse un po' più dolce, politically correct, come "diritto alla vita famigliare". Ma in questo modo, senza volerlo (o forse sì), la sentenza si presta ad essere utilizzata per aprire la strada anche alla possibilità delle adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali. Cos'è infatti la "vita famigliare" se non quella che comprende mettere al mondo, crescere ed educare i figli, possibilità che è naturalmente preclusa ad una coppia di persone dello stesso sesso? Come può permettersi una qualsiasi legislazione di considerare "diritto" dei coniugi una persona o più persone come potrebbero essere i figli, i quali non sono un diritto nemmeno per le coppie eterosessuale, che i figli possono metterli al mondo?
Infine un ultimo punto: la Corte di Cassazione ha infatti pronunciato che «è stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi' dire naturalistico, della stessa esistenza del matrimonio». In base a cosa la Cassazione si permette di fare questa constatazione? Può la sentenza di un tribunale mettersi addirittura al di sopra della natura (al di sopra di Dio), stabilendo quello che è o non è naturale? Lo scoramento, che ci avvilisce di fronte a situazioni del genere, è tale che riconosco essere inutile ribadire quanto detto soltanto ieri; ma voglio farlo ugualmente: ossia ribadire che la parola stessa "matrimonio", sul quale si fonda la famiglia non solo per i cattolici ma anche per la legge italiana, contiene al suo interno la parola "mater", madre, che la natura (per coloro che, laici, non vogliono dire Dio) ha stabilito essere una donna; ed insieme al "patrimonio" ("pater") abbiamo la perfetta gestione della famiglia nell'unione del padre (uomo) e della madre (donna). Come si può affermare che l'esistenza del matrimonio e quindi la fondazione di una famiglia superano radicalmente la differenza sessuale dei nubendi? Scusatemi l'ironia, ma c'è da aver paura: e se un giorno la Cassazione decidesse con una sentenza che i bimbi debbano essere allattati al seno degli uomini e non delle donne, perché una tale concezione matriarcale dell'allevamento dei figli è ormai radicalmente superata?
Se dunque la Cassazione vuole stabilire un istituto che superi radicalmente quanto è previsto dalla natura, perché non chiamarlo in un'altra maniera? Perché ostinarsi a chiamarlo matrimonio? E' la nostra, forse, omofobia, un voler negare dei diritti alle coppie omosessuali? Credo proprio di no: se una coppia di omosessuali vuole andare a convivere lo faccia pure; da cristiano io gli dirò che la loro condotta è sbagliata, ma a malincuore rispetto la loro libertà di scelta. Ma affermare che il matrimonio e la famiglia sono altra cosa rispetto alla loro unione non è discriminazione; si tratta semmai di preservare il diritto dei bambini che nasceranno e di quelli già nati ad avere accanto a sé le figura di un padre e di una madre; si tratta di riconoscere la natura delle cose; si tratta anche di salvare la nostra intera società da una mentalità individualistica e materialistica, che vuole spacciare per uguaglianza e amore queste battaglie che di serio hanno ben poco, invece che pensare con vero amore alla vita delle future generazioni.

mercoledì 14 marzo 2012

Omofobia o Cristianofobia?

Riprendo una notizia uscita sul blog Corrispondenza Romana e su Avvenire a proposito di una vicenda che da qualche tempo sta coinvolgendo la Gran Bretagna: il primo ministro David Cameron ed il suo governo stanno cercando di portare avanti nel parlamento britannico una proposta di legge attraverso la quale ridefinire per legge il concetto di matrimonio, ammettendolo anche per le coppie omosessuali. Questa proposta (come era lecito augurarsi) ha suscitato le proteste di molti, specialmente dei cattolici; molti inglesi hanno infatti già aderito all'iniziativa del comitato «Coalition for Marriage», sottoscrivendo la petizione da esso promossa a favore del tradizionale concetto di matrimonio. Ed anche la voce dei rappresentanti della Chiesa non ha tardato a farsi sentire; in particolare ha fatto scalpore l'intervento del cardinale Keith O’Brien, arcivescovo di Saint Andrews ed Edimburgo e presidente della Conferenza Episcopale Scozzese, che ha giudicato «grottesco sovvertimento di un diritto umano universalmente accettato» il provvedimento del governo. Ha inoltre accusato il primo ministro Cameron di tentare di «ridefinire la realtà» su istanza «di una piccola minoranza di attivisti».
Il presule scozzese ha poi argomentato le sue dichiarazioni, dicendo che «il matrimonio tra un uomo e una donna rappresenta un’istituzione che preesiste e precede ogni Stato o governo, e poiché non è stata creata da alcun ordinamento giuridico, non può essere modificata attraverso uno strumento normativo. [...] Le istituzioni pubbliche dovrebbero invece riconoscere gli innumerevoli benefici derivanti alla società dal matrimonio, e cercare quindi di proteggerlo e favorirlo, non certo di attaccarlo e smantellarlo», considerando poi che «gli omosessuali nel Regno Unito già godono di pieni diritti anche per quanto riguarda la convivenza, grazie all’istituto delle civil partnership».
In altre parole, intende dire il cardinale, i sistemi legislativi possono certamente modificare o regolare i regimi economici dei coniugi e della loro famiglia, i loro diritti e doveri legali l'uno verso l'altro, ma non possono permettersi di cambiare "per legge" il significato di un istituto definito prima di qualsiasi sistema legislativo. D'altra parte la parola scelta dai nostri avi per definire questo istituto, "matrimonio" (e le sue traduzioni nelle diverse lingue) deriva dal latino "matris munus", che significa "compito della madre", che spetta alla madre. Ed unita alla parola "patrimonio" ("patris munus", cioè "compito che spetta al padre"), definisce non solo gli impegni cui devono sottostare i contraenti nella loro futura famiglia, ma stabilisce anche ciò che da sempre l'umanità ha intrinsecamente riconosciuto, e che solo ai giorni nostri si vorrebbe mettere in discussione: che, cioè, la famiglia è fondata sulla presenza di una madre e di un padre, di una donna e di un uomo.
Il cardinal O’Brien adduce inoltre un'ulteriore sostegno alla sua tesi della completa inadeguatezza della proposta di legge del governo britannico. Se infatti si accetta che un governo possa ridefinire concetti come il matrimonio a suo piacimento, a questo punto a nessuno sarà più impedito, magari in futuro, di stabilire che il matrimonio non sia fondato non più da due persone, ma da tre, come due uomini e una donna, due donne e un uomo e così via; ciò che mostra la totale insensatezza del provvedimento.
Ci si può dunque rendere conto che l'intervento del cardinale non è stato, e non intendeva essere, offensivo per nessuno; egli, invece, ha portato delle serie e condivisibili motivazioni a sostegno delle sue dichiarazioni, motivazioni che non possono essere smentite, poiché è un dato di fatto che l'istituzione del matrimonio è da sempre stata fondata sull'unione di un uomo e di una donna. Ma naturalmente c'è chi l'ha definito "omofobo", cioè offensivo e in odio nei confronti degli omosessuali. La cosa strana è, tuttavia, l'attacco lanciato al cardinal O’Brien dalla famosa pop star britannica Will Young sulla BBC, in una trasmissione molto seguita della televisione pubblica. Egli, dopo aver definito «disgustose, ripugnanti e arcaiche» le parole di quell'«uomo abietto» del cardinal O’Brien, ha coronato il suo intervento concludendo che, se quelle parole fossero state pronunciate su tematiche razziali (come se l'omosessualità potesse essere considerata una razza), il prelato «a quest’ora sarebbe già stato portato davanti a un magistrato».
Due stili, quello del porporato scozzese e della pop star, del tutto differenti; sfido chiunque, infatti, a non definire offensive e violente le parole del ragazzetto inglese nei confronti della persona stessa del presule. Non solo, ma la reazione di Young rivela anche quale profondo senso della libertà di pensiero e di espressione venga veicolata dalla televisione pubblica di uno dei più civili tra i Paesi europei, per bocca, tra l'altro, di un personaggio molto influente presso le giovani generazioni: non tutte le opinioni sono ugualmente accettabili, ci sono quelle del governo che vanno bene, e quelle di altri individui che vanno immediatamente messe a tacere, magari mandando dietro le sbarre i "colpevoli" di averle pensate. E questo non è un travisamento delle parole del cantante: egli stesso, infatti, interrogato dall'intervistatrice se in questo modo intendesse mandare in carcere tutti i religiosi che avessero espresso i propri convincimenti sul matrimonio, ha risposto: «Yes, rightfully so!», cioè «Sì, sarebbe giusto così!»; un po' come facevano circa 60 anni fa un po' più a sud della Gran Bretagna, e un po' più a nord dell'Italia.
Evidentemente si è reso conto anche lui che, dando delle motivazioni obiettive e razionali del perché non ha alcun senso il "matrimonio gay" ai giovani, questi potrebbero anche mettere in moto il proprio pensiero autonomo, e farsi un'idea propria, inevitabilmente opposta a quella verso la quale il mondo di oggi vorrebbe conformarli (a volte, purtroppo, riuscendoci). Viene da chiedersi, allora: chi sono i veri "fobici"? E' omofoba la Chiesa, che educatamente esprime la dottrina di Cristo sul matrimonio, portando motivazioni che addirittura trascendono il significato religioso del termine, o sono piuttosto cristianofobi questi rappresentati del cosiddetto "mondo avanzato", che offendono e vorrebbero sbarazzarsi delle opinioni scomode (e ben argomentate) mandando in prigione chi le ha espresse? La domanda è naturalmente retorica.

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martedì 13 marzo 2012

Le drammatiche conseguenze dell'ermeneutica della discontinuità

Riprendo un articolo riportato quest'oggi dal blog Cantuale Antonianum, riprendendo a sua volta un articolo di ZENIT; si tratta di un'intervista al cardinale Adrianus Johannes Simonis, arcivescovo emerito di Utrecht, a proposito di un'errata interpretazione del Concilio Vaticano II e dei danni che essa ha creato nel suo Paese, l'Olanda. Personalmente ritengo che sia opportuno imparare da queste parole del cardinale Simonis per evitare di commettere gli errori da lui denunciati, o per correggere la rotta nel caso in cui ci si riconosca in quegli errori. In particolare vorrei sottolineare queste parole dell'intervista, in piena sintonia con il Magistero dei grandi papi Benedetto XVI e Giovanni Paolo II: «E' proprio vero: c’è stata una sbagliata interpretazione del Concilio. Non hanno letto i documenti ma si sono limitati ad argomentare, basandosi sul cosiddetto “spirito del Concilio”, cioè: tutto è permesso, tutto può cambiare [...] Sicuramente, col risultato che i laici in Olanda sono diventati più o meno dei sacerdoti e i sacerdoti si sono laicizzati». Buona lettura.

In Olanda una sbagliata interpretazione del Concilio
Di Paola de Groot-Testoni

ROMA, lunedì, 12 marzo 2012 (ZENIT.org) - A Utrecht si trova la Paushuize, ovvero la casa dell’unico Papa olandese della storia, Adriano VI, al secolo Adriaan Floriszoon (o Florenszoon) Boeyens (1459-1523).
L’allora vescovo di Tortosa, in Spagna, fece costruire la casa nella sua città natale, con l’intento di tornarvi una volta terminato il suo mandato. Ma il Signore aveva altri piani: Adrianus nel 1517 venne nominato cardinale e, cinque anni dopo, eletto Papa.
Morirà a Roma l’anno successivo senza aver mai abitato la Paushuize. Dopo anni di incuria, l’edificio è stato affidato a Ubbo Hylkema la massima autorità olandese nel campo del restauro di dimore storiche. Dopo due anni di lavori, di ristrutturazione accurata e meticolosa, l’edificio è stato riaperto al pubblico. In occasione della cerimonia è stato invitato il Cardinale Adrianus Johannes Simonis, al quale Zenit ha rivolto alcune domande.

Eminenza Lei ha partecipato al Concilio Vaticano II?
Simonis: No, purtroppo no. Non ho partecipato al Concilio però in quel periodo ero presente a Roma, dove ho studiato dal 1959 al 1966.

Ci può comunque dire quali sono stati, secondo Lei, gli insegnamenti e le argomentazioni migliori che sono emerse da quel Concilio?
Simonis: Da quel Concilio una nota importante è sicuramente l’adattamento alla mentalità di questo tempo ma la più importante è la riflessione che ne è scaturita sul ruolo stesso della Chiesa. La Lumen gentium, per me, ne è stato il documento più importante.

La Chiesa olandese non visse serenamente il post-Concilio: ci furono polemiche sul catechismo e altre controversie. A 50 anni da quell’evento, qual è la situazione attuale?
Simonis: La situazione della Chiesa Olandese dopo il Concilio è molto difficile da descrivere. All’epoca abbiamo avuto una polarizzazione su due fazioni. Vivevamo praticamente con due chiese in una. Con una fazione che era molto radicale e voleva cambiare tutto, ma nella quale la fede era molto diminuita. Adesso questa polarizzazione è più o meno finita ma, come conseguenza, moltissimi hanno perduto la fede e hanno lasciato la Chiesa. In generale si può dire che in Olanda vige l’“indifferentismo”. Il Santo Padre, qualche settimana fa, ha detto una cosa molto giusta: ogni uomo ha un senso religioso, una tendenza a cercare Dio, al trascendente; ma in tanta gente questo senso religioso si è perduto, è entrato in coma e questo vale particolarmente per la nostra nazione.

Cosa si è sbagliato nell’interpretare il Concilio?
Simonis: Sì, è proprio vero: c’è stata una sbagliata interpretazione del Concilio. Non hanno letto i documenti ma si sono limitati ad argomentare, basandosi sul cosiddetto “spirito del Concilio”, cioè: tutto è permesso, tutto può cambiare.
Forse anche una sbagliata interpretazione del ruolo dei laici nella Chiesa?
Simonis: Sicuramente, col risultato che i laici in Olanda sono diventati più o meno dei sacerdoti e i sacerdoti si sono laicizzati.

Il Pontefice Benedetto XVI ha indetto l’Anno della Fede e una mobilitazione per la Nuova Evangelizzazione. Cosa dovrebbe fare la Chiesa nei Paesi Bassi?
Simonis: Quello che ho sempre detto è: catechesi, catechesi, catechesi. Manca una catechesi ben fondata, ma adesso il problema è che i giovani si sono così allontanati dalla fede e dalla Chiesa che dicono non ne hanno bisogno, perchè materialmente hanno tutto. Spero, anche se è un’idea un po’ strana, che questa crisi economica, possa condurli a riflettere. Nei Paesi Bassi adesso si reagisce solo a livello emotivo, non si pensa più. Secondo me il Pontefice Benedetto XVI vuole farci riflettere. Ho appena letto un libro del Santo Padre sulla verità, sulla tolleranza e sui problemi moderni legati alla relazione con le altre religioni: il suo invito è pensare e riflettere, usare la ragione, ma in Olanda si usa solo l’emozione. Questo è molto pericoloso.

Siamo in tempo di Quaresima. da Roma chiedono molta attenzione alla confessione e alla pratica dell’Eucaristia. Com’è la situazione nei Paesi Bassi e in che direzione si sta andando?
Simonis: Ormai da 40 anni la confessione è completamente perduta, e lo sa perchè? Perchè gli olandesi non peccano! Nel senso che non sanno più che cos’è il peccato. Il concetto di peccato è legato alla coscienza di Dio, se non si crede più ad un Dio personale, non si pensa più di peccare. Il nostro paese è pieno di “qualchecosisti”, persone che credono in un’entità astratta, che esista qualcosa ma non un Dio personale: per questo pensano di non peccare.

Quindi la confessione non diventa più necessaria?
Simonis: La verità è che nei Paesi Bassi abbiamo bisogno di una conversione totale.

Una sua riflessione personale sulla sua vita di sacerdote, arcivescovo e cardinale. Cosa può dire alle giovani generazioni e ai ragazzi che stanno studiando nei seminari?
Simonis: Dico loro per prima cosa di imparare a pensare, a riflettere. E poi pregare, pregare, pregare. La preghiera è importantissima, è e deve essere il fondamento della vita umana, ma in Olanda non si prega perchè non si crede in un Dio personale ma solo in un ente vago.

Con Wim Eijk, l’Olanda ha un nuovo porporato. Qual è il suo augurio per lui in questi tempi difficili, non solo di crisi economica?
Simonis: Gli ho subito scritto quando ha avuto la nomina cardinalizia. Gli ho augurato di poter conservare lo spirito di servizio. Questa è la più grande responsabilità di un cardinale: restare in questo spirito di servizio alla Chiesa e al Signore. Ciò per l’onore di Dio, per la salute degli uomini e a imitazione del Cuore di Gesù: un cuore pieno di verità, di amore e di misericordia.

Questa è anche la sua esperienza personale di cardinale?
Simonis: Sì, ho cercato di vivere in questo spirito il mio cardinalato per 27 anni. Adesso sono un vecchio cardinale, ho compiuto 80 anni e non posso più eleggere il Papa ma posso ancora essere eletto! (scoppia in una risata) Ma non preoccupatevi, non succederà!


Fonti:
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