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lunedì 26 marzo 2012

Ingresso del Patriarca - L'omelia

Sia lodato Gesù Cristo.

Eminentissimo patriarca Marco,
eccellentissimo rappresentante pontificio,
venerati confratelli,
autorità,
carissimi presbiteri, diaconi, consacrati, consacrate,
fedeli laici,
caro monsignor Beniamino, amministratore apostolico,
carissimi veneziani,

permettetemi di dire subito il mio grazie a monsignor Beniamino per quello che ha fatto e come l'ha fatto, in questi mesi in attesa del nuovo patriarca.
Carissimi, è sotto lo sguardo materno della Nicopeia, nel giorno dell'Annunciazione del Signore, Natale della città, che la Chiesa di Dio che è in Venezia, attraverso la presa di possesso del nuovo patriarca, viene ricostituita nella sua pienezza teologica, giuridica e pastorale: rivolgiamo il nostro umile grazie a Dio. In questo giorno, la Chiesa che è in Venezia è chiamata in modo particolare ad innalzare la sua lode; tutto, infatti, esprime lo stupore e la gioia del popolo di Dio che, reso tale nel Sangue di Cristo, celebra la prima Eucarestia presieduta dal nuovo patriarca, il quarantottesimo successore di San Lorenzo Giustiniani. Così gli uomini passano, ma la Chiesa rimane. Oggi tocchiamo con mano questa realtà: è proprio il vescovo, attraverso la successione apostolica, che col suo ministero configura compiutamente la Chiesa particolare e, tramite la comunione diacronica, si lega al ministero dei Dodici e, con loro, allo stesso Gesù e alla Sua Pasqua.
Significativa è, a metà del III secolo, sul ministero episcopale, la testimonianza di Cipriano, vescovo di Cartagine; secondo Cipriano la Chiesa particolare, per divino volere, è strutturalmente incentrata sul vescovo, che tiene in essa il posto di Cristo, Sommo Sacerdote. Il vescovo è il sacerdote che, nel nome di Cristo, guida la comunità ecclesiale. L'insegnamento del vescovo di Cartagine circa la comunione fra i vescovi è oltremodo chiara: infatti, per Cipriano, il vescovo di una Chiesa particolare deve vivere in stretta comunione con gli altri vescovi, ma, alla fine, è la comunione col vescovo di Roma a garantire la stessa collegialità episcopale. È la realtà della collegialità che in seguito troverà compiuta piena formulazione nell'ecclesiologia del Concilio Ecumenico Vaticano II; è in quest'anno, cinquantesimo anniversario della sua solenne inaugurazione, che noi siamo invitati a cogliere sempre meglio il Magistero di questa assise ecumenica secondo quell'ermeneutica del rinnovamento nella continuità che autorevolmente ci propone Benedetto XVI. Il Vaticano II è il grande evento ecclesiale che ha segnato profondamente la vita della Chiesa e al quale dobbiamo guardare con fiducia. È proprio in forza della collegialità episcopale che il vescovo di una Chiesa particolare in comunione col vescovo di Roma ha un legame inscindibile con gli altri vescovi; siamo nella logica del mistero, per cui non solamente ogni vescovo è coinvolto, ma ogni Chiesa particolare è tale in forza del rapporto intrinseco con la Chiesa di Roma. Ed è in questa chiave che i confratelli vescovi del Triveneto guardano con speranza e realismo all'imminente Convegno di Aquileia 2, rinnovando anzitutto il vincolo collegiale tra di loro e le loro Chiese, e tra loro e il vescovo di Roma, il Vescovo dei vescovi. L'impegno comune è renderci disponibili, con le nostre Chiese, ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà suggerirci, per una nuova evangelizzazione di queste terre in vista del bene comune e nel dialogo con la cultura contemporanea. Si tratta, così, di ricentrare la vita delle nostre Chiese a partire dalla responsabilità personale dei pastori e, per la loro parte, dei fedeli, avendo di mira l'annuncio di Cristo; per questo, anzitutto, ci si chiede come l'educare alla vita buona del Vangelo possa avvenire in modo più efficace nelle Chiese del Nordest, in una terra che da sempre svolge la funzione di ponte tra l'est e l'ovest, tra il nord e il sud del mondo, e oggi più che mai è chiamata a svolgere tale missione. E in ragione di questo, la Chiesa che è in Venezia è chiamata a far proprio ciò che scrive l'autore della lettera agli Ebrei, quando, esortando i discepoli a una reale vita di fede, così si esprime: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, Colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12, 1-2).
La nuova evangelizzazione, per essere realmente tale, suppone che la comunità evangelizzante sia prima di tutto rigenerata nel proprio rapporto vitale con Cristo. Ogni cammino di evangelizzazione ha inizio non con l'elaborazione di piani pastorali o progetti accademici delle facoltà teologiche e neppure attraverso un'auspicabile copertura del territorio da parte dei media. Certo, questi strumenti, per quanto di loro competenza, concorrono all'opera evangelizzatrice in modo eccellente, ma non costituiscono ancora il fondamento dell'evangelizzazione. Sono infatti i discepoli, intesi personalmente e comunitariamente, che vengono prima degli uffici pastorali, prima delle facoltà teologiche, prima della rete mediatica. Solo in un secondo momento tali strumenti diventano preziosi e, sul piano umano, oggi insostituibili per sostenere una reale missione evangelizzatrice. Si tratta di strumenti a servizio di una comunità testimoniale di cui devono veicolare la tensione missionaria, esprimendola con i loro linguaggi ed i loro approcci specifici. Prima di tutto, però, viene la comunità testimoniante, che in nessun modo può essere surrogata o data per presupposta.
In merito, il libro degli Atti degli Apostoli è esplicito, e già nella sua struttura offre una preziosa indicazione che fa esattamente in tale direzione. Questo libro, che contiene la prima narrazione della storia della Chiesa e insieme fa parte dei libri normativi della fede, non lo si può comprendere in senso pieno senza il presupposto teologico e spirituale da cui consegue l'impegno missionario della Chiesa. Tale presupposto, come sappiamo, è costituito dal dono dello Spirito Santo, ossia l'evento di Pentecoste. Senza questo dono, compimento della promessa del Signore, noi non avremmo la Chiesa, comunità evangelizzata ed evangelizzante. È proprio il dono dello Spirito Santo che costituisce la Chiesa, trasformando un gruppo di discepoli impauriti nella comunità del Signore risorto. Prima degli annunci kerigmatici e delle catechesi degli Apostoli, prima dei viaggi missionari e della fondazione delle Chiese particolari, il libro degli Atti narra l'evento di Pentecoste, evento dal quale si può comprendere il significato di ciò che in seguito verrà scandito pagina dopo pagina. La Pentecoste è, in tal modo, l'inizio della Chiesa, non soltanto in senso cronologico, ma essenziale, valoriale, tutto ciò che era accaduto prima del vento impetuoso che si abbatte gagliardo e delle lingue di fuoco che si posano sui presenti, come narra il libro sacro al capitolo secondo, è semplice preparazione, sono soltanto fatti che precedono. La Pentecoste è il vero evento che costituisce e inaugura nella Chiesa, la quale, in Gesù, sono chiamati tutti gli uomini di buona volontà.
Richiamo a questo punto la pagina lucana dei due discepoli di Emmaus, perché in essa troviamo qualcosa che caratterizza la Chiesa di ogni tempo, quindi anche la nostra. È un'immagine estremamente significativa e, proprio per questo, va considerata fino in fondo, in tutte le sue implicanze teologiche, spirituali, pastorali, giuridiche. I due pellegrini, Cleopa e il compagno di strada, stanno camminando con Gesù risorto e sono tristi, perché, per loro, è ancora morto. A un determinato momento pretendono, addirittura, di spiegare proprio a Lui che cosa era successo nei giorni precedenti in Gerusalemme a quel Gesù, profeta potente in parole e in opere di fronte a Dio e al popolo. Pare di intravvedere, in questo goffo tentativo, l'immagine di certa teologia, più volenterosa che illuminata, tutta dedita all'ardua e improbabile impresa di salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù Cristo e la sua Parola. Ma in questa immagine siamo rappresentati anche noi ogniqualvolta, coi nostri piani pastorali ed i nostri progetti ed i dibattiti avulsi da una vera fede, pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli è. Cleopa e il suo compagno di cammino e, dopo di loro, i discepoli di ogni tempo alla fine esprimono tutta la loro desolazione e sfiducia nei confronti di Gesù e del suo operato: questo accade quando nel discepolo viene meno la fede. Le parole dei due e l'uso del tempo imperfetto risultano inequivocabili: “Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni” (Lc 24, 21). Quando la fede viene meno o non è più in grado di sostenere e fecondare la vita dei discepoli, allora ogni discorso teologico, ogni piano pastorale o copertura mediatica paiono insufficienti e noi ci troviamo nella stessa condizione dei due discepoli di Emmaus, incapaci di andare oltre le loro logiche, i loro stati d'animo, scoprendosi prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di tutto ciò alla vigilia dell'incipiente Anno della Fede.
Ma l'Evangelista Luca ci tiene ancora e ci insegna ancora che spezzare il pane con Gesù, l'Eucarestia, è il gesto irrinunciabile e specifico del realismo cristiano, attraverso cui i discepoli potranno andare oltre le loro soggezioni, suggestioni e paure. In altre parole, l'Eucarestia ci consegna, nel mistero, Gesù vivo e vero, quindi l'Eucarestia dev'essere anche per noi evento privilegiato del realismo cristiano, luogo e momento in cui siamo chiamati ad andare oltre le nostre risorgenti incredulità, e ad aprirci un varco alla realtà intera che non prescinde dalle vicende storiche, ma va oltre di esse e, superando la parzialità della dimensione storica, ci consegna una prospettiva nuova, per cui si giunge a un amore capace di verità e a una verità sorretta dall'amore. Qui si inserisce e acquista il suo senso vero il commiato liturgico che fra poco, per la prima volta, attraverso la voce del diacono ci scambieremo reciprocamente, vale a dire: “La Messa è finita, andate in pace”. Quando la celebrazione liturgica è assunta nella nostra vita si dà il senso e la realtà ultima dell'Eucarestia, ossia l'umanità nuova che nasce dal corpo dato e dal sangue effuso non prescindendo dalla realtà storica del momento presente: “Quando fu a tavola con loro prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco, si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma Lui sparì dalla loro vista” (Lc 24, 30-31). Impegniamoci, come Chiesa che è in Venezia, a ricordarci reciprocamente la ricchezza e la fecondità di tale realismo cristiano: il vescovo lo faccia in quanto vescovo, i presbiteri in quanto presbiteri, i diaconi in quanto diaconi, i consacrati come consacrati, gli sposi come sposi e spose. Realismo cristiano che, in quanto tale, è sempre contestualmente rispettoso della molteplicità e delle distinzioni, ossia della sacralità come della laicità e ciò, a scanso di equivoci, sia detto e ripetuto: il vero realismo cristiano promuove sempre l'umano come tale, ovunque lo incontra. Realismo che, partendo da Gesù Cristo, ritorna a Cristo dopo aver incontrato e attraversato in tutto il suo spessore e i suoi diversi gradi la creaturalità dell'uomo; nell'Eucarestia la Carità di Cristo, donata qui e ora si dà la possibilità di rinnovare l'umanità stessa a partire dal rispetto dovuto ad ogni uomo e a tutto l'uomo. Non si dà quindi carità vera se si prescinde dal rispetto della giustizia effettiva, distributiva e contributiva oltre ogni facile aggiustamento.
Vogliamo infine includerci e includere quanto accennato nello scenario dell'Anno della Fede indetto da Benedetto XVI e che presto prenderà l'avvio e vedrà impegnata con forza la Chiesa che è in Venezia attraverso la corresponsabilità di tutti i suoi membri, secondo la loro specifica vocazione. Ci limitiamo a una sottolineatura circa l'evangelizzazione della Chiesa stessa, che deve crescere nella consapevolezza della fede per educarsi e porsi senza arroganza, ma anche senza timori e complessi di inferiorità, in una testimonianza dialogica con le culture del nostro tempo.
Ritorniamo infine al testo di Luca e vediamo come i due discepoli di Emmaus, senza frapporre indugio, fanno ritorno a Gerusalemme e proprio loro che, poco prima, avevano liquidato come semplici fantasie di donne l'evento glorioso della Resurrezione, ora vogliono annunciare alla Chiesa nascente che avevano niente di meno che incontrato il Signore Gesù lungo la strada e l'avevano riconosciuto nell'atto di spezzare il pane. Ma, loro malgrado, sono preceduti da chi dice loro: “Davvero il Signore è risorto e apparso a Simone” (Lc 24, 34). Il realismo cristiano si riflette su quanto appartiene all'uomo: innanzitutto include il rispetto della vita, sempre, senza condizioni; poi l'accoglienza /integrazione; la promozione della famiglia, cellula fondamentale della società umana; l'educazione, che mira alla pienezza della libertà; il lavoro come diritto e dovere che tocca la dignità stessa dei lavoratori e le loro famiglie, soprattutto oggi; il bene comune, col contributo specifico della dottrina sociale della Chiesa. Anche questi valori umani entrano negli scenari della vita risorta, sono i valori che stanno a cuore a una ragione amica della fede, valori che, vicendevolmente, si illuminano e sostengono. Pastore e fedeli, in un momento significativo per la vita della Chiesa di Venezia, si ritrovano oggi, fiduciosi, sotto il materno sguardo della Nicopeia, Colei che guida alla vittoria, e sono chiamati a dire il loro “sì”, come Maria al momento dell'Annunciazione. Un “sì” pronunciato col cuore e la ragione, un “sì” personale e comunitario, un “sì” detto a Dio e agli uomini nello spirito di Maria, che si lasciava condurre verso un oltre che fin d'ora è tutta la nostra gioia: quella gioia che io vi auguro di cuore.

Sia lodato Gesù Cristo.


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