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mercoledì 1 febbraio 2012

Intervista di Radio Vaticana al Patriarca eletto

Pubblico qui di seguito il testo dell'intervista rilasciata ieri da S. E. mons. Francesco Moraglia, Patriarca eletto di Venezia, a Sergio Centofanti di Radio Vaticana.

D. - Come ha accolto questa nomina del Papa a Patriarca di Venezia?

R. – Lo stato d’animo al momento è stato quello di trepidare. Trepidare perché uno si sente proiettato in una situazione che finora non gli apparteneva e per molti versi non immaginava neanche. Quindi, la prima sensazione è stata proprio questo interrogarsi su questa nuova realtà. Poi, sono andato in cappella e parlando con il Signore nel tabernacolo gli ho detto: “In fin dei conti ci sei tu, e quindi mi fido di te”.

D. – Lei va nella sede di Venezia in un momento molto critico per l’Italia, per l’Europa. Che cosa dire in proposito?

R. – La realtà ecclesiale partecipa, ovviamente, di tutta la contestualizzazione sociale, politica, economica e finanziaria che grava questo preciso momento storico. Con l’idea di essere vescovo e di cercare di guardare la situazione a partire dall’uomo, e quindi immaginando che la crisi prima che sociale, prima che politica, prima che finanziaria sotto certi punti di vista sia una crisi antropologica culturale, e quindi avere un po’ questa attenzione a tutto ciò che è umano, a tutto ciò che caratterizza l’uomo, a tutto ciò che costituisce l’uomo, evidentemente con una prospettiva cristiana, poi, perché tutto ciò che è umano è cristiano, e tutto ciò che è cristiano appartiene all’umano. Ecco, direi in questa prospettiva.

D. – Come ridare fiducia alla gente, oggi?

R. – Io penso che un primo modo, per il vescovo, sia quello di amare la sua gente, di far capire alla gente che c’è questo sentimento di amore, di vicinanza: stare in mezzo a loro. Poi, conoscersi reciprocamente perché certamente un vescovo deve anche parlare, deve anche guidare … Però credo che il parlare, il guidare non possa mai prescindere dall’essere uno di loro, stare in mezzo a loro anche se con la caratteristica propria della missione del vescovo.

D. – In particolare, la priorità di oggi sono i giovani: pensiamo ai tanti giovani senza lavoro …

R. – Solo in Italia i dati fanno rabbrividire, perché parliamo di un 30 per cento di giovani tra i 14 e i 25 anni che non hanno lavoro, con tutto quello che questo determina a livello di insicurezza di questi ragazzi di fronte al futuro. Io molte volte dico ai nostri giovani: “Voi siete il futuro!”, ma dobbiamo dirglielo in modo coerente, dando loro un presente diverso. E certamente, questo 30 per cento di giovani senza lavoro ha poi una ricaduta anche sulle scelte che chiaramente debbono essere fatte in questa fascia di età, tra i 14 e i 25-30 anni, e che non possono essere fatte e che vengono posticipate evidentemente con una situazione di distorsione anche nelle generazioni future. Anche questa è una cosa su cui dobbiamo riflettere molto.

D. – Lei lascia La Spezia: con quali sentimenti e con quale bilancio?

R. – Il bilancio lo lascio fare al Signore e poi anche alle persone che hanno partecipato a questo cammino ecclesiale di quattro anni. Io lascio La Spezia con l’idea di essere stato ancora solo nella fase iniziale del mio ministero. La lascio con nostalgia, ma con vera nostalgia, perché alla Spezia con l’aiuto del Signore mi sono trovato bene, ho cercato di fare quello che ho potuto. Ringrazio il Signore per gli incontri con la gente, per le visite pastorali, purtroppo interrotte, per l’esperienza della pastorale giovanile vocazionale perché da sette seminaristi siamo passati ad averne 17: una comunità seminaristica, quindi, che fa sperare bene anche perché c’è bisogno nel presbiterio di avere questa luce sul futuro. E poi, la religiosità popolare che ha avuto dei momenti alti, dei momenti di preghiera nei pellegrinaggi del primo sabato del mese in cui, oltre alla preghiera mariana, alla celebrazione eucaristica ed alla meditazione, c’è stato anche un incontro con le persone nelle ore che seguivano lo spazio religioso. Credo che in quella mezza giornata mensile si siano costruite molte cose a livello ecclesiale, perché poi queste persone le ritrovavamo anche in altri momenti della vita ecclesiale. L’ultima cosa di cui ringrazio il Signore, è che si è aperta la scorsa domenica l’instaurazione dell’adorazione perpetua in diocesi: 365 giorni all’anno, per 24 ore al giorno, con 700 adoratori impegnati ed un altro movimento, che si è impegnato in questi mesi con la diocesi, che sta muovendo i primi passi in modo davvero promettente.

D. – Il Papa ha proclamato, per quest’anno, l’Anno della fede. Come riportare la fede tra gli uomini?

R. – L’Anno della fede, a 50 anni dal Concilio Vaticano II e a vent’anni dalla promulgazione del Catechismo nella Chiesa cattolica, è un’opportunità che dobbiamo cogliere attraverso un ascolto profondo dello Spirito Santo. Penso che il punto di partenza di ogni realtà ecclesiale, sia per fedeli e sia per i pastori, sia indubbiamente una fede forte. La fede è una realtà personale, non individuale, e questo Anno della fede credo che debba proprio segnare una novità in tal senso. Nella mia diocesi della Spezia si era discusso un po’ per trovare e creare qualche evento e qualche avvenimento. Tra poco mi recherò a Venezia e vedrò quello che era già stato programmato e deciso. Prima di tutto ascolterò la realtà che incontrerò, però vorrei anche che l’Anno della fede fosse colto ed individuato all’interno di quello che è già il cammino della Chiesa veneziana, all’interno anche del Triveneto, che sta facendo un cammino importante verso Aquileia 2. Proprio lì, durante questi mesi e queste settimane, mi sembra stiano ormai tirando le fila di un cammino biennale. Ho già posto la mia attenzione nel vedere quello che è stato fatto e quello che si sta facendo, proprio per poter entrare in sintonia con il cammino della Chiesa di Venezia.

D. – Quali sono, a questo punto, le sue speranze più profonde?

R. – Le speranze più profonde sono quelle di essere in mezzo alla gente come colui che è mandato per servire la fede. Non essere, quindi, padrone della fede della mia gente quanto piuttosto collaboratore della gioia di queste persone. Penso quindi che la prima cosa che un vescovo deve fare è pregare per la sua Chiesa. Inoltre, lo ripeto, stare in mezzo a loro e, quando si è maturato un discernimento – ascoltando anche gli altri -, vedere “il possibile”. La pastorale vuol dire proprio misurarsi col “possibile” all’interno di una situazione concreta.


Fonte: radiovaticana.org.

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