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sabato 15 ottobre 2011

Tesori d'arte sacra: l'affresco della parete sinistra

In questo appuntamento mensile con i capolavori d'arte sacra del Duomo, continuiamo a scorrere lungo la navata sinistra, fino ad imbatterci nei meravigliosi resti di affresco riportati alla luce molto di recente, appena due anni fa. Infatti le pareti della Cattedrale versavano in condizioni molto critiche, annerite dagli agenti ambientali e a causa dell'umidita, importante durante alcuni periodi dell'anno, specialmente in riva al mare; inoltre a coprire l'affresco vi era il grande dipinto della Natività della Beata Vergine Maria, di cui parleremo certamente più avanti. Durante i lavori di restauro, quindi, staccati tutti i quadri dalla parete, grazie all'opera del restauratore Stefano Bagnariol sono dapprima emersi dai secoli la figura di un volto ed altri frammenti che lasciavano pensare al saio di un frate. Dopo alcuni mesi, al via libera della Sovrintendenza, cominciò il vero e proprio recupero dell'opera, terminato nel maggio dell'anno scorso. Una gran parte dell'affresco è stata perduta; dall'osservazione delle foto più vecchie che ritraggono la navata sinistra del Duomo, risulta infatti che, in corrispondenza della zona dell'affresco, fosse addossato uno dei sette altari laterali, eretti in varie epoche storiche ed abbattuti nel 1925 per finanziare i restauri dell'edificio. Quindi, come era uso nei tempi antichi, tale opera era probabilmente stata coperta con un'altra, tanto che nessuna delle fonti storiche in nostro possesso accennava minimamente alla sua presenza.
Il lavoro minuzioso del restauratore ha permesso di riportare alla luce, oltre ai frammenti tutt'ora visibili del lavoro definitivo, anche i resti del "cartone", ossia delle linee guida, che l'artista ha utilizzato prima di dipingere le figure complete. L'affresco si presenta come un trittico, la successione di tre figure di santi: la prima figura da sinistra, quella che certamente risulta essere la meglio conservata, rappresenta una santa con corona; regge con la mano destra un oggetto a forma tondeggiante, probabilmente una ruota od una macina. Grazie, poi, al cartone sottostante, possiamo evincere che nella mano sinistra reggesse una palma, simbolo iconografico che identifica i martiri. Tutti questi segni sembrano portare alla figura di Santa Caterina d'Alessandria, vissuta tra III e IV secolo in Egitto. Di nobile famiglia, fu data in sposa a Massimino Daia, governatore d'Egitto e Siria, che si proclamò in seguito "Augusto"; di qui, probabilmente, l'uso di dipingere Santa Caterina incoronata, proprio perché sposa di Massimino. Durante i festeggiamenti per il suo matrimonio, in occasione dei quali era previsto il sacrificio di vittime animali agli dei pagani, Caterina invitò il marito a riconoscere Gesù Cristo, rifiutandosi di sacrificare agli idoli. Massimino la condannerà a morte: prima la legò ad una terribile macchina, con due ruote dentate che dovevano dilaniare il corpo del condannato (da cui la rappresentazione della ruota come strumento del suo martirio); ma, uscitane miracolosamente illesa per l'intervento divino, fu decapitata. Santa Caterina era venerata insieme a Santa Margherita d'Antiochia, compatrona di Caorle; per cui è abbastanza plausibile che proprio nella nostra cattedrale vi fosse, almeno in antichità, un altare a lei dedicato.
La seconda figura è ugualmente ben conservata nella quasi totalità, fatta eccezione per il volto, del quale, tuttavia, si riesce a scorgere la folta barba bianca. All'angolo in alto a destra del capo, insieme all'aureola, si intuisce la presenza di un copricapo bianco, molto probabilmente una mitra vescovile, al quale fa da corredo l'altra insegna episcopale, ossia il bastone pastorale. Queste caratteristiche, un vescovo benedicente con la barba bianca, fanno propendere per la figura di San Nicola di Mira (o di Bari), vissuto tra l'anno 250 ed il 326, molto venerato nelle zone costiere, anche venete (si pensi ad esempio alla toponomastica, con San Nicolò del Lido), e del quale la cattedrale conservava (e conserva tutt'ora nel museo) una reliquia.
Infine la terza figura da sinistra è quella deteriorata maggiormente; a guardare i frammenti conservati non si riesce a capire di quale santo si tratti. Ma osservando attentamente il cartone sottostante rimasto, si riesce a vedere, al centro della figura, una mano (molto stilizzata) nell'atto di afferrare la veste, come per scostarla. Basta questo elemento per inferire l'identità di questa figura in San Rocco confessore, nato a Montpellier tra il 1345 ed il 1350 e morto a Voghera tra il 1376 ed il 1379. Egli infatti, contagiato dalla peste mentre curava i suoi amati malati, si ritirò in una grotta, per non essere di peso, mentre un cane randagio gli portava di tanto in tanto qualche tozzo di pane, cosa che gli permetteva di non morire di fame. Guarì miracolosamente, ed è quindi rappresentato nell'atto di mostrare la piaga che aveva sulla gamba.
Le tre figure si stagliano su uno sfondo blu-verde, molto intenso e caratteristico degli affreschi di scuola giottesca, come pure anche la cornice, di cui si scorge un frammento in alto a destra, formata da esagoni racchiusi in stelle a sei punte. Anche i lineamenti gentili del volto di santa Caterina, l'unico pervenuto fino ai nostri giorni, confermano l'affiliazione con quello stile molto diffuso a partire dal Trecento in Italia, anche in Veneto (si pensi alla cappella degli Scrovegni, con gli affreschi realizzati da Giotto, a Padova). Il restauratore ha individuato la probabile datazione dell'opera intorno alla fine del XIV secolo - inizio del XV secolo (fine 1300 inizio 1400); poiché la devozione a san Rocco si diffuse in tutto il nord Italia fin da immediatamente dopo la sua morte (e Caorle lo adottò come suo compatrono) possiamo, in base a questi dati, afferire che si tratti di una delle prime rappresentazioni di San Rocco almeno in Veneto, ma forse in tutto il mondo.

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