«Anche se milioni di italiani hanno detto "sì" alla vita sono prevalsi i "no"». Così titolava il quotidiano Avvenire titolava il 18 maggio 1981, esattamente 30 anni fa, quando all'indomani del referendum abrogativo della legge 194. In un mondo ancora intriso delle ideologie sessantottine, vinse l'opinione di coloro che ritenevano (ed in molti casi ritengono ancora) il feto come un grumo di cellule inanimate, con un'invadenza della democrazia anche su temi, come la vita degli essere umani, sui quali non è lecito decidere a maggioranza. A trent'anni di distanza possiamo con una certa definitività tirare le somme su quella scelta, e analizzare se davvero le rivendicazioni dei pro-aborto avessero una consistenza. Si predicava, ad esempio, che la legalizzazione dell'aborto avrebbe posto fine alla pratica pericolosa degli aborti clandestini; eppure al giorno d'oggi l'aborto clandestino è una pratica ancora molto diffusa, si parla di qualche decina al giorno. Addirittura c'era chi prospettava una certa necessità della pratica dell'aborto per applicare il cosiddetto "controllo demografico", ed evitare la sovrappopolazione del territorio nazionale, un'altra predizione che oggi, guardandoci alle spalle, fa quasi ridere. Si assicuravano le donne sulle esigue conseguenze a livello fisico e psichico che un intervento del genere avrebbe causato loro, eppure oggi si sente sempre più spesso parlare di donne distrutte, fisicamente o psicologicamente o in entrambi i modi, a causa di un aborto.
L'evoluzione della scienza (anche se era chiaro già nel 1981) ci sta, invece, mettendo sempre più davanti all'evidenza che la vita umana nasce già dal concepimento, e che dunque non esiste un istante di tempo, dopo il concepimento, a cavallo del quale il feto si possa considerare inanimato o vivo. Eppure anche oggi, specie da parte di coloro che innalzano la scienza a dottrina e religione, si fa finta di non capire, si tira in ballo l'entrata dell'anima nel corpo (ma come, gli atei scientisti credono nell'esistenza dell'anima?) e si giustifica l'aborto come atto di libertà della donna (e il bambino, intrappolato nel grembo di una donna che ha deciso di sopprimerlo, non ha libertà?).
In sostanza, l'analisi di trent'anni di legge 194 ci consente di capire come nessuno dei vantaggi "scientifici" e "sociali" attribuiti alla legge dai pro-aborto all'epoca fossero corretti; l'Italia non ha risolto i problemi che si pensavano di risolvere, è soltanto divenuta un paese dove l'omicidio, in certi casi, è diventato legale, e non, come si potrebbe pensare, nei confronti di violenti criminali o oppressori di popoli, ma di esseri innocenti che hanno la sola colpa di essere stati concepiti "per uno sbaglio" dei genitori. Ciononostante si cercano, con creatività e ostinazione, nuove strade per dare la morte ai feti in maniera più comoda per il medico e per la madre; è il caso della pillola abortiva. E, allora come oggi, la Chiesa, che con ingiusta generalizzazione viene accusata di mostruosità contro i bambini a causa degli atti (veramente mostruosi) di alcuni criminali tra le file del clero, è derisa, perseguitata, osteggiata, quando difende (quasi da sola) la vita dei concepiti. Ma, pensiamoci un attimo, uccidere un bambino prima che nasca è davvero così più leggero rispetto al rovinargli la vita con l'orrendo crimine degli abusi?
Vorrei suggerire la lettura di un articolo di Francesco Agnoli, apparso ieri su La Bussola Quotidiana, nel quale il giornalista fa un'analisi delle vicende all'epoca, rivivendo quel cupo periodo in cui la politica, gli uomini e le donne hanno creduto di poter decidere chi far nascere e chi no.
17 maggio 1981, disfatta dei pro life, di Francesco Agnoli.
Nessun commento:
Posta un commento