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mercoledì 16 febbraio 2011

Il pensiero di Joseph Ratzinger sulla liturgia

«Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più "piatta". In questo modo, però, l'essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità. [...] Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive? [...] Purtroppo da noi c'è una tolleranza quasi illimitata per le modifiche spettacolari e avventurose, mentre praticamente non ce n'è per l'antica liturgia. Così siamo sicuramente su una strada sbagliata.»


Riprendo oggi questo breve pensiero dell'allora cardinale Joseph Ratzinger sulla liturgia, tratto dal libro "Il sale della terra", pubblicato oggi dal blog Cordialiter. Possiamo notare come questo pensiero dell'attuale pontefice ricalchi quello espresso da padre Lang e ripreso in un post precedente, sulla comprensione della lingua nella celebrazione, quando dice: «Nella liturgia non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità». In questo modo, infatti, si intende la actuosa partecipatio auspicata dai tempi del Concilio Vaticano II, e molto spesso fraintesa dagli stessi sacerdoti e liturgisti. Mi permetto di affermarlo perché, a leggere gli atti ufficiali con i quali la Chiesa regolamenta il Culto Divino, non vi è traccia di una "partecipazione attiva" che implichi per il fedele che assiste alla celebrazione il "dover fare qualcosa" materialmente; semmai il contrario, come possiamo leggere, ad esempio, nell'Istruzione Redemptionis Sacramentum:

«Benché la celebrazione della Liturgia possieda indubbiamente tale connotazione di partecipazione attiva di tutti i fedeli, non ne consegue, come per logica deduzione, che tutti debbano materialmente compiere qualcosa oltre ai previsti gesti ed atteggiamenti del corpo, come se ognuno debba necessariamente assolvere ad uno specifico compito liturgico.»
(Redemptionis Sacramentum n.40)

O, ancora più chiaramente, nell'ormai dimenticata Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis:

«Tuttavia, non dobbiamo nasconderci il fatto che a volte si è manifestata qualche incomprensione precisamente circa il senso di questa partecipazione. Conviene pertanto mettere in chiaro che con tale parola non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l'attiva partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l'esistenza quotidiana. Ancora pienamente valida è la raccomandazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, che esortava i fedeli a non assistere alla liturgia eucaristica "come estranei o muti spettatori", ma a partecipare "all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente".»
(Sacramentum Caritatis, n. 52)

E' quindi necessario porre una certa attenzione a quello che significa "partecipare" al Sacrificio. Alcuni, spesso in contrapposizione con la Messa Tridentina, pensano che una delle conquiste della riforma liturgica sia stata quella di promuovere la partecipazione dell'assemblea, nel senso che prima i fedeli "assistevano" alla Santa Messa, ora vi "partecipano". Esiste un certo modo di intendere la partecipazione dell'assemblea secondo il quale, essendo il popolo dei battezzati «Stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa» (1 Pt 2,9) non esiste una vera e propria differenza fra il sacerdozio del prete e quello del battezzato in generale. Ora, questa interpretazione, che ha contribuito, come diceva Giovanni Paolo II (Discorso ai vescovi statunitensi, 1993), alla clericalizzazione dei laici e alla laicizzazione del clero, è stata più volte sconfessata dal Magistero della Chiesa; leggiamo ad esempio, sempre nella Redemptionis Sacramentum:

«Il sacrificio eucaristico non va poi ritenuto come "concelebrazione" in senso univoco del Sacerdote insieme con il popolo presente. Al contrario, l’Eucaristia celebrata dai Sacerdoti è un dono "che supera radicalmente il potere dell’assemblea […]. La comunità che si riunisce per la celebrazione dell’Eucaristia necessita assolutamente di un Sacerdote ordinato che la presieda per poter essere veramente assemblea eucaristica. D’altra parte, la comunità non è in grado di darsi da sola il ministro ordinato". È assolutamente necessaria la volontà comune di evitare ogni ambiguità in materia e portare rimedio alle difficoltà insorte negli ultimi anni. Pertanto, si usino soltanto con cautela locuzioni quali "comunità celebrante" o "assemblea celebrante" [...] e simili.»
(Redemptionis Sacramentum, n.42)

Quindi l'assemblea non "partecipa" alla celebrazione della Santa Messa nel senso che "ha una parte" del ruolo ministeriale che spetta, invece, solo al prete. Che senso ha, quindi, la partecipazione dell'assemblea alla Santa Messa? Se ricordiamo che la Divina Liturgia Eucaristica è il Sacrificio di Cristo, che ogni giorno si compie sull'altare (come mirabilmente troviamo scritto nel Magistero della Chiesa), partecipare alla Messa significa partecipare alla Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Croce. Allora si comprende come "assistere" e "partecipare" alla Santa Messa non abbiano un significato diverso, o addirittura contrapposto: come san Giovanni e la Madonna assistevano inermi alle sofferenze di Cristo sulla Croce anche noi, nelle nostre chiese, siamo chiamati ad assistervi; come essi partecipavano del suo dolore anche noi, quando "partecipiamo" alla Santa Messa, ci facciamo come san Giovanni e la Vergine Addolorata ai piedi della Croce. In questo modo il sacerdozio battesimale spinge ogni battezzato a proclamare "le opere ammirevoli di Lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce" (1 Pt 2,9).
Ancora il card. Ratzinger afferma, in questo caso sulla liturgia antica: «Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive? [...] Purtroppo da noi c'è una tolleranza quasi illimitata per le modifiche spettacolari e avventurose, mentre praticamente non ce n'è per l'antica liturgia. Così siamo sicuramente su una strada sbagliata». In queste parole, scritte nel 2005, troviamo facilmente riferimento nella lettera motu proprio "Summorum Pontificum Cura" e nella relativa lettera di accompagnamento ai vescovi; in esse il papa auspicava che il rito antico e quello nuovo possano vicendevolmente arricchirsi, per recuperare dove è stata perduta una liturgia autentica. Troviamo, ancora, riferimento all'ermeneutica della continuità che il papa (in maniera più forte dopo la sua elezione al soglio pontificio) ha sempre affermato essere la giusta chiave di lettura del Concilio Vaticano II. D'altra parte lo stesso papa Paolo VI, ormai alla chiusura del Concilio, aveva scritto, nell'Enciclica Mysterium Fidei:

«Chi mai potrebbe tollerare che le formule dogmatiche usate dai Concili Ecumenici per i misteri della SS. Trinità e dell'Incarnazione siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo ed altre siano ad esse temerariamente surrogate? Allo stesso modo non si può tollerare che un privato qualunque possa attentare di proprio arbitrio alle formule con cui il Concilio Tridentino ha proposto a credere il Mistero Eucaristico. Poiché quelle formule, come le altre di cui la Chiesa si serve per enunciare i dogmi di fede, esprimono concetti che non sono legati a una certa forma di cultura, non a una determinata fase di progresso scientifico, non all'una o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che l'umana mente percepisce della realtà nell'universale e necessaria esperienza: e però tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.»

Non facciamoci, dunque, scoraggiare dalle voci di questi giorni su documenti pronti a stravolgere questo pensiero del papa sulla liturgia antica e nuova, o da quelle di teologi tedeschi che vorrebbero stravolgere la dottrina cattolica; io ho fede in Nostro Signore e fiducia nel Santo Padre. Preghiamo perché lo Spirito Santo guidi sempre le sue azioni, affinché le forze degli inferi non prevalgano.

Alcune letture che vengono riprese in questo articolo:

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