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martedì 12 aprile 2011

La liturgia: questione di età?

Domenica scorsa un amico mi ha raccontato di una discussione avuta con dei giovani sulla liturgia, e di come i temi principali fossero quelli che purtroppo, da quarant'anni a questa parte, hanno spesso finito per dividere piuttosto che unire i membri della Chiesa: l'"animazione" liturgica e, più in particolare, il latino. Vorrei dunque cogliere l'occasione di scrivere ancora qualche riflessione, anche prendendo spunto dagli scritti di papa Benedetto XVI, in questo cammino ormai in dirittura d'arrivo verso la sua Visita pastorale nelle nostre terre.
Una delle prime obiezioni (c'è da dire abbastanza inconsistenti) che vengono mosse a coloro che mostrano un qualche interesse o gradimento per il latino nella liturgia è "sei vecchio", o "sono cose superate". C'è l'idea che la Chiesa si sia rinnovata, o debba ancora rinnovarsi, attraverso un percorso che porti alla pressoché totale eliminazione del latino. La domanda è questa: in quale punto della storia la Chiesa avrebbe sancito l'abolizione del latino? In quali documenti troviamo scritto che è necessario aborrire il latino? Da qui ci si collega immediatamente anche all'aspetto dell'"animazione" liturgica forse più sentito dalla gente, e dai giovani in particolare, ossia la musica liturgica: anche qui la scelta del canto gregoriano è da vecchi, i canti della devozione popolare obsoleti. Ci si può porre la stessa domanda di prima: quando la Chiesa ha detto di abbandonare il canto gregoriano? E qual è, dunque, la musica adatta per "animare" la liturgia?
La risposta, da parte di coloro che pensano al latino e al gregoriano come "roba da vecchi" è pressoché unanime: è il Concilio Vaticano II lo spartiacque tra il vecchiume ed il rinnovamento. Chi segue il Concilio non può, sempre secondo costoro, che volgere le spalle a tutto ciò che era la liturgia precedentemente, sperimentando nuove soluzioni, più al passo con i tempi, e che attirino i giovani. Una replica, che mostra l'errore di questa convinzione, arriva dagli stessi documenti del Concilio; nella costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia leggiamo a chiare lettere il più volte citato n. 36: «L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini». E ancora il n. 116: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Inoltre l'Ordinamento Generale del Messale Romano promulgato da Paolo VI ribadisce gli stessi concetti; al n. 41 troviamo nuovamente: «A parità condizioni, si dia la preferenza al canto gregoriano, in quanto proprio della Liturgia romana», ed addirittura: «è opportuno che sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’ordinario della Messa, specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore». Quindi non solo il Concilio e i testi riguardanti la riforma liturgica non hanno mai sancito l'abolizione del latino e del gregoriano, ma hanno raccomandato di promuoverlo presso i fedeli, dando incarico ai sacerdoti di premurarsi affinché il popolo sappia cantare in latino. A questo proposito vorrei proporre un pensiero del papa, quand'era ancora cardinale, in un discorso tenuto a Roma nel 1998 in occasione del decimo anniversario del motu proprio Ecclesia Dei di Giovanni Paolo II:

«Non è stato il Concilio a riformare i libri liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a questo fine, ha fissato alcuni principi fondamentali. In primo luogo il Concilio ha dato una definizione di che cos'è la liturgia e questa definizione fornisce un metro di giudizio per ogni celebrazione liturgica. Se si ignorano queste regole essenziali e si accantonano le "normae generales" formulate nei numeri 34-36 della Costituzione De Sacra Liturgia, allora sì che si disubbidisce al Concilio!»

Un altro punto importantissimo di quella discussione è stato proprio il significato stesso della liturgia della Santa Messa e della partecipazione dei fedeli, significati dai quali, a mio modo di vedere, si originano tutti i fraintendimenti dei testi del Concilio. E' emerso che oggi, soprattutto tra i giovani, vi è la tendenza ad interpretare la Santa Messa come una festa; ma di quale festa stiamo parlando? Se ai bambini ed ai ragazzi parliamo di "festa" essi si immagineranno il compleanno di un amico, al quale si mangia e beve in compagnia, si canta, si corre, si gioca a pallone; oppure, per i più grandicelli, una serata tra amici, in pizzeria, in discoteca, dove si discorre, si balla, si cercano "emozioni forti". Non che sia sbagliato partecipare o desiderare di partecipare a queste "feste", anzi (a meno che non si arrivi all'esagerazione e, purtroppo, a fenomeni quali l'alcolismo e la tossicodipendenza). Ma se torniamo a guardare alla Santa Messa, possiamo dire che la festa sia questa, cioè quella che si fa ad un compleanno o in discoteca? Certamente no. Sta qui quello che anche papa Benedetto definisce "il mistero sacro", e che, a suo modo di vedere, «oggi ha ceduto il posto a una creatività selvaggia». Si capisce bene che molti degli atteggiamenti che causano scontro hanno origine proprio da questa concezione della "festa" domenicale. E' chiaro che alla festa di compleanno, tra bambini, nessuno si sognerebbe mai di intonare il Veni Creator prima del taglio della torta; in discoteca nessuno avrebbe desiderio di scatenarsi in pista sulle note del Te Deum; ad un concerto rock calerebbe drasticamente il numero di persone che comprerebbe il biglietto se il gruppo proponesse canti devozionali, magari accompagnati dal suono dell'organo a canne. Non dobbiamo nasconderci che in molte occasioni nelle nostre chiese si ascoltano musiche invece adatte al compleanno di un bambino, ad un concerto rock e (non dico una menzogna) alla discoteca. Certo, quelle musiche hanno il tono della festa; ma chi è che fa festa? A chi facciamo festa, al ritmo di queste musiche? A Nostro Signore, che sull'altare si dona ancora, Corpo e Sangue, ai suoi figli, o a noi stessi, che non rinunciamo, per un'ora alla settimana e nemmeno in chiesa, al desiderio del divertimento mondano, pena non frequentare più la parrocchia? Allora che tipo di "festa" è la Santa Messa? Il papa, nel '98, notava questo:

«C'è poi una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto - un pretesto asserito imperativo - che in questo modo ci si fa comprendere meglio»

Il Sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce, questo accade sull'altare quando il sacerdote alza l'Ostia ed il Calice, per questo papa Benedetto ha voluto che la Croce tornasse sopra l'altare, e non relegata in un lato, come se desse fastidio; a tal proposito egli annota, nel suo libro "Introduzione allo Spirito della Liturgia":

«Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato [dell'altare] per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l'Eucarestia, rappresenta un disturbo?»

Molti rispondono che la Santa Messa abbia soltanto il carattere conviviale (e non sacrificale) di una cena, portando a sostegno di questa tesi quello che i primi cristiani facevano nelle prime Messe che venivano da loro celebrate dopo la morte e risurrezione di Nostro Signore. A questo risponde sempre Benedetto XVI; l'Ultima Cena di Cristo non fu semplicemente un banchetto. Nell'omelia della Santa Messa in Coena Domini del 2009, il papa afferma:

«In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.»

Non è, dunque, né possibile né lecito pensare che l'Ultima Cena sia solo il momento conviviale, in cui Cristo insieme agli apostoli festeggiava la Pasqua ebraica; è l'anticipo della Croce e risurrezione, che egli attua in quella Santa Cena prima ancora di viverlo nel suo stesso Corpo poiché, come disse Egli stesso: «Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Solo se intendiamo il carattere sacrificale dell'Ultima Cena, e quindi di ogni Santa Messa, possiamo cercare di intendere come Nostro Signore tramuti la Pasqua degli ebrei nella Pasqua della sua Risurrezione: l'Agnello, che secondo la legge di Mosè doveva essere consumato prima della festa, e al quale non doveva essere spezzato alcun osso, è Cristo, che è stato consumato prima della Pasqua di Risurrezione nell'Ultima Cena, nelle Specie del Pane e del Vino, e sulla Croce dove, non gli è stato spezzato alcun osso, ma dal fianco squarciato scaturirono Sangue ed Acqua. Chi cita l'uso dei primi cristiani, specialmente tra i più giovani ma anche tra gli adulti, non può sapere quello di cui sta parlando (occorrerebbero degli studi approfonditi), e certamente parla per sentito dire; prendo spunto da alcune parole di don Nicola Bux, consultore, tra gli altri, dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, tratto dal suo libro "Come andare a Messa e non perdere la fede": «Seguendo Lutero, molti teologi e liturgisti cattolici negano o attenuano il carattere sacrificale della Messa, preferendo quello conviviale. Eppure lo “spezzare il pane” (fractio panis) nel giorno del Signore, primitivo nome della messa, viene espressamente indicato come un sacrificio dalla Didaché (14, 2), testo cristiano dei primi secoli».
Di fronte al Sacrificio di Cristo, dunque, cambia anche l'accezione del termine partecipazione, come più volte troverete in questo blog; non si partecipa alla Messa come ad una festa di compleanno o in discoteca, dove se stai seduto in disparte senza ballare, battere le mani, parlare, sei effettivamente escluso. La partecipazione al Mistero Eucaristico assume tutt'altro significato: partecipare al Sacrificio di Cristo significa contemplarlo con devozione e timore, come la Madonna e san Giovanni sotto la Croce; significa anche fare noi stessi Sacrificio, per partecipare, se pure in minima parte, alle sue sofferenze; significa, infine, gettare in Lui ogni nostra sofferenza, spirituale e corporale, perché Egli, inchiodandole insieme al Suo Santissimo Corpo, sulla Croce, ci tragga dal fango del peccato con la sua Risurrezione. A questa partecipazione non si risponde con i ritmi e le musiche che ci piacciono, che fanno parte del mondo di oggi, che attirano i giovani (ai concerti rock, però, non certo alla Messa) e che ci danno l'illusione di rallegrarci senza passare per il Sacrificio: il latino, il gregoriano e talvolta anche la polifonia e i canti popolari, nei termini stabiliti dal Magistero della Chiesa (anche dal Concilio) ci sono molto utili, invece, per abbassare la testa, lasciare fuori dalla Chiesa i divertimenti mondani e partecipare, nella maniera autentica, al Sacrificio di nostro Signore.

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