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sabato 5 marzo 2011

Le Ermeneutiche del Concilio - Parte I

«Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …”.»

Quelle qui sopra citate sono parole pronunciate dal nostro papa, Benedetto XVI, nel primo discorso augurale alla Curia romana, tenuto nel dicembre 2005, anno della sua elezione al soglio pontificio; ritengo sia importante approfondirne il pensiero in merito, specialmente a poche settimane dalla sua visita nelle nostre terre. In esse egli introduce uno spinoso problema, che da lungo tempo era ritenuto praticamente un tabù: l'interpretazione del Concilio Vaticano II. Ed usa termini pesanti e inequivocabili, citando san Basilio: ergersi l'uno contro l'altro, chiacchiere incomprensibili, rumore confuso, clamori ininterrotti. Verrebbe quasi da chiedersi com'è possibile che da un Concilio (che etimologicamente significa "muoversi insieme") possano generarsi tali discordie; tuttavia è indubbio che qualcosa è successo, e da più di quarant'anni se ne sente tutto il peso. Una contrapposizione c'è, ed è quella che Benedetto XVI indica fra le due ermeneutiche, significa "chiavi di lettura", che sono state date del Concilio in questi anni: una la chiama discontinuità o rottura, l'altra invece continuità o riforma. Cerchiamo di approfondire una volta per tutta quello che si intende con questi termini, usando proprio le parole del pontefice.

«Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.»

Ma discontinuità o continuità rispetto a cosa? Dice il papa, tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Ora, immersi in questa cultura nella quale (sempre per dirla come il papa) dilaga il relativismo, secondo la quale non esiste il giusto e lo sbagliato, infettata da un buonismo che vuole che ogni discorso sia politically correct, saremmo quasi portati a dire che la ragione sta nel mezzo: un po' di ragione ce l'ha chi dice che bisogna distaccarsi decisamente dalla Chiesa preconciliare, e un po' chi dice che qualcosa va salvato. A ben guardare, però, il papa non è di questa idea; tra queste due ermeneutiche c'è quella sbagliata e quella giusta: «L'una», dice, «ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti». Dal seguito del discorso si capisce chiaramente che quella generatrice di caos è la cosiddetta ermeneutica della rottura, mentre quella della continuità porta buoni frutti, sebbene in silenzio.

«L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.»

I tratti caratteristici di questa chiave di lettura sono dunque questi: una certa insofferenza rispetto ai documenti che il Concilio ci ha lasciato (Costituzioni, lettere, omelie, discorsi), un sostanziale rifiuto di tutto ciò che la Chiesa era stata prima del Concilio (tant'è che i suoi documenti sono rifiutati perché ritenuti "infettati" dalle molte cose vecchie e inutili che esistevano prima), un'insistente creatività, o sarebbe meglio dire fai-da-te, specialmente in ambito liturgico e dottrinale, e una smisurata fiducia nel cosiddetto "spirito del Concilio", che, travalicando ciò che i padri conciliari ci hanno trasmesso per iscritto, deve per forza fare il contrario (molto spesso è proprio così) di quello che tali scritti dicono. In verità coloro che leggono i documenti del Concilio e da questi cercano di partire per dare il proprio contributo di preghiera e di servizio nelle proprie comunità, sono considerati ingenui, se tutto va bene, perché non hanno capito che lo spirito del Concilio non sta nei documenti, o dei freddi giuristi (e anche peggio), quando si ostinano a far notare che certe libertà, per esempio in ambito liturgico, non solo non sono mai state previste dal Concilio, ma sono veri e propri abusi. Oppure pensiamo a quanto sia invalsa ancora oggi la mentalità che tutto ciò che riguarda il pre-Concilio sia affetto da un'intrinseca aura di errore, corretta dal Concilio, o meglio, dallo spirito del Concilio; siamo arrivati al punto che l'aggettivo "tridentino" viene usato come dispregiativo, indice di una sorta di irritante nostalgia degna solo di sarcastica commiserazione. Sorge dunque anche a noi, come al nostro Santo Padre, un naturale interrogativo: se gli scritti del Concilio devono rimanere inascoltati, o addirittura bisogna fare il contrario di quello che dicono, da dove trae origine lo "spirito del Concilio"? In cosa consiste questo spirito, e come si giustifica la sua appartenenza al Concilio (dato che il Concilio sembra aver detto cose diverse da quelle che tale spirito suggerisce)? Il papa, in questa direzione, è molto chiaro:

«Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio”; come tali devono essere trovati “fedeli e saggi”. [...] In un Concilio dinamica e fedeltà devono diventare una cosa sola.»

Questo dunque l'autorevole pensiero del pontefice sull'ermeneutica della discontinuità; è inutile dire che ciò non basta per porre fine alle discordie di cui si accennava all'inizio. Chi ritiene che il fantomatico spirito del Concilio sia l'alibi che consente di fare, in qualsiasi ambito (morale, dottrinale, liturgico...), ciò che si vuole, non può accettare che da qualche parte (sia questa anche il soglio petrino), gli venga detto che ciò è sbagliato: la conseguenza naturale, per costoro, è che il papa sbaglia. Allora non stupiscono i molteplici attacchi arrivati un po' da ogni dove (giornali, siti internet, purtroppo anche dagli stessi uomini di Chiesa) alla visita del papa a Venezia ed Aquileia dei prossimi 7 e 8 maggio; d'altra parte lo disse anche il papa nel discorso che stiamo seguendo: l'ermeneutica della discontinuità "non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna". Quello dei soldi è spesso soltanto un pretesto, per non dire pubblicamente quello che comunque si sente serpeggiare: "il papa non lo vogliamo, che stia a casa sua"; cosa che appare piuttosto spudorata, e certamente meritevole di compassione.
Preghiamo Nostro Signore Gesù Cristo affinché ci renda sempre fedeli e docili a Lui e al suo vicario in terra; e preghiamo per tutta la Chiesa, perché ritrovi l'unità anche in queste cose molto serie e importanti.

A breve un commento anche sull'ermeneutica della riforma; nel frattempo potete trovare qui l'intero discorso alla Curia romana del 2005.

2 commenti:

  1. E' sconvolgente notare come nella quasi totalità delle nostre parrocchie, le indicazioni date dal papa anche solo a livello liturgico, come la presenza della croce sull'altare o l'opportunità della comunione in ginocchio, siano ignorate con una inspiegabile disinvoltura. Appare quasi scontato che tali accorgimenti non possano verificarsi in una chiesa cattolica...! Alcuni parroci vi metterebbero forse mano, ma solo dopo averne ricevuto richiesta unanime dei parrocchiani, una richiesta che è tuttavia impossibile. I nostri sacerdoti dimenticano infatti di essere loro, assieme al papa e ai vescovi, e non noi laici i ministri responsabili della liturgia. Dimenticano anche di aver istruito i fedeli per decenni, ad esempio, a presentare le mani stando eretti davanti al sacerdote e a masticare l'ostia come un qualunque pezzo di pane. I nostri sacerdoti avevano ragione, la Chiesa ci ha fatto scoprire di essere nella liturgia contemporanei di Cristo, discepoli come gli apostoli nel cenacolo (che tuttavia ancora non capivano la portata di quanto vivevano e cenavano sdraiati, cosa che sconsiglierei di "riprodurre" nella liturgia!). Ora tutto questo l'abbiamo imparato e sentiamo il bisogno che anche i nostri sacerdoti ci insegnino ad incontrare Cristo non con l'inconsapevolezza dei discepoli all'ultima cena, ma con la fede che viene dallo Spirito effuso dal Risorto, come per Tommaso che si inginocchiò e adorò il suo Signore e il suo Dio. In ginocchio non davanti alla potenza di un imperatore, ma all'onnipotenza di un Dio che ama fino a farsi uomo e a sacrificarsi in croce per Amore. Questo, credo, nonostante gli aggiornamenti che vengono e che vanno, celebriamo ancora e sempre nella Messa.

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  2. Grazie per il bell'intervento. Mi piace sottolineare soprattutto una frase: "I nostri sacerdoti dimenticano infatti di essere loro, assieme al papa e ai vescovi, e non noi laici i ministri responsabili della liturgia". Credo che questo sia un po' il centro di tutto il discorso; si ha come la sensazione che il laico che va a Messa la domenica debba per forza far qualcosa di diverso da pregare e contemplare il Santissimo Sacrificio dell'altare. Patiamo un po' quella che Giovanni Paolo II chiamava la "clericalizzazione dei laici", con conseguente laicizzazione dei sacerdoti. Come conseguenza, dato che non c'è più la figura autorevole del prete che, come pastore d'anime, insegnava come un padre ai figli, si è perso il rispetto per la casa di Dio, la chiesa: molto spesso, specie prima della Santa Messa domenicale, sembra di entrare al mercato, quasi che quello che dobbiamo dire ai nostri conoscenti non possa aspettare i 30 secondi che servono per uscire dal luogo sacro. Nella liturgia si sente impellente il bisogno di "coinvolgere" l'assemblea, non si sa bene a fare cosa (se non, appunto a pregare); abbiamo una liturgia se ci sono i bambini, una se ci sono i ragazzi, una se ci sono gli adulti...E più ci si inventano nuove soluzioni per attirare i giovani più essi si allontanano; perché? Perché se gli si presenta la Santa Messa come festa, e non come quello che è, come Sacrificio (festa pasquale, con significato ben diverso dalle feste degli uomini), ben presto si accorgeranno che esistono delle "feste" molto più allettanti e che non costringono nemmeno ad alzarsi presto la domenica...Tutto perché si è adulterata la dottrina, il messaggio cristiano, in rottura con quello che era prima del Concilio (ecco l'ermeneutica della rottura). Se non impariamo a vivere la Chiesa, anche con gli aggiornamenti, in continuità con il Magistero di duemila anni di storia della Chiesa continueremo a fondare le nostre liturgie sulla sabbia del mondo (per citare il Vangelo di oggi); dobbiamo fondarci sulla roccia della Tradizione, che è a sua volta ben radicata in Gesù Cristo Nostro Signore tramite il papa, suo vicario in terra.

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