Oggi ci concentreremo sulla seconda, l'ermeneutica della riforma. Secondo il nostro Santo Padre, si possono trovare delle indicazioni che questa fosse la chiave di lettura prediletta già nei discorsi di apertura, di papa Giovanni XXIII, e di chiusura, di papa Paolo VI. Ma particolarmente emblematiche ritiene le parole di papa Giovanni, che cita:
«[Il Concilio] vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti, che lungo venti secoli, nonostante difficoltà e contrasti, è divenuta patrimonio comune degli uomini. Patrimonio non da tutti bene accolto, ma pur sempre ricchezza aperta agli uomini di buona volontà. [...] Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata.»
Come possiamo leggere, papa Giovanni sottolinea che compito del Concilio è di trasmettere la dottrina della Chiesa "senza attenuazioni o travisamenti". Pensiamo per un attimo a quello che ci hanno insegnato al Catechismo riguardo al peccato: io mi ricordo che le suore ci insegnavano che esiste il peccato veniale e il peccato mortale, ci facevano imparare l'atto di dolore per la Confessione e ci insegnavano a fare l'esame di coscienza, prima della Confessione sacramentale, la penitenza, il ringraziamento... Oggi so invece che in certe zone l'atto di dolore non si insegna più, perché "Dio non castiga, è buono", si sente di alcuni sacerdoti che non vogliono assolutamente che in Confessionale si confessino i peccati (è in un post di oggi dal blog Cordialiter), i nostri ragazzi non sanno più che cos'è il peccato mortale e cosa comporta. Questo è spesso giustificato in virtù del Concilio: il Concilio avrebbe ripulito da tante superstizioni, come quella che Dio castiga; dimenticando però che i castighi di Dio non sono, come pensano costoro, delle vendette senza scopo, ma il modo in cui il Signore ci ama e corregge la nostra vita: «perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto» (Pro 3,12; Eb 12,6). C'è ancora la rottura col passato, che Benedetto XVI giudica sbagliata: i nostri genitori o nonni avrebbero sempre sbagliato a pregare il Signore in questi termini, solo dopo il Concilio si prega in modo giusto.Altri aspetti di continuità/discontinuità è facile incontrarli nella liturgia; il Concilio, ad esempio nella Musicam sacram, ci ha lasciato chiare indicazioni su quella che deve essere la musica liturgica, vale a dire il gregoriano al primo posto, il latino da non abbandonare, anzi, da considerare come la lingua propria della liturgia, l'organo a canne da tenere in grande considerazone. Come abbiamo modo di vedere, il nostro Santo Padre Benedetto XVI ha recuperato questi aspetti, nelle liturgie papali; ma da quante parti si sente parlare del rifiuto del gregoriano e del latino, anche purtroppo da parte degli sacerdoti o dei vescovi, rifiutando nettamente questi suggerimenti del pontefice in nome del Concilio, che li avrebbe aboliti. Abbiamo qui un esempio di come lo "spirito del Concilio" paradossalmente agisca in maniera contraria a quello che il Concilio stesso ha stabilito.
O, ancora peggio, quando in nome del Concilio si tende ad eliminare il carattere sacrificale della Santa Messa, ritenendo essa solo come un momento di festa e di memoria di "una" cena. E' interessante riprendere quanto scriveva papa Paolo VI in proposito, nella sua enciclica Mysterium Fidei, proprio l'anno della chiusura del Concilio, a conferma dell'ermeneutica della continuità:
«La norma di parlare dunque,che la Chiesa con lungo secolare lavoro, non senza l'aiuto dello Spirito Santo, ha stabilito, confermandola con l'autorità dei Concili, norma che spesso è diventata la tessera e il vessillo della ortodossia della fede, dev'essere religiosamente osservata; né alcuno, secondo il suo arbitrio o col pretesto di nuova scienza, presuma di cambiarla. Chi mai potrebbe tollerare che le formule dogmatiche usate dai Concili Ecumenici per i misteri della SS. Trinità e dell'Incarnazione siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo ed altre siano ad esse temerariamente surrogate? Allo stesso modo non si può tollerare che un privato qualunque possa attentare di proprio arbitrio alle formule con cui il Concilio Tridentino ha proposto a credere il Mistero Eucaristico. Poiché quelle formule, come le altre di cui la Chiesa si serve per enunciare i dogmi di fede, esprimono concetti che non sono legati a una certa forma di cultura, non a una determinata fase di progresso scientifico, non all'una o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che l'umana mente percepisce della realtà nell'universale e necessaria esperienza: e però tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.»
Giovanni XXIII e Paolo VI, i due pontefici del Concilio Vaticano II, erano dunque concordi nell'interpretazione che anche Benedetto XVI indica come la strada maestra, quella che porta molto frutto, e che riconosce la continuità della Chiesa pre-conciliare e post-conciliare, senza rotture e divisioni, ma fondandosi sul Magistero secolare e sulla Tradizione. E' interessante notare questo, perché non è affatto scontato; è infatti invalsa da molti anni un'interpretazione, data dalla cosiddetta "Scuola di Bologna", che ha avuto grande successo per la pubblicazione di una "Storia del Concilio Vaticano II" in cinque volumi e tradotto in varie lingue. Essa appare centrata in maniera palese dalla parte dell'ermeneutica della discontinuità, come ha anche avuto modo di notare mons. Agostino Marchetto (già segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti): «Di fatto quel gruppo di studiosi di Bologna – diciamo così –, guidati dal Prof. G. Alberigo, e ben coadiuvati da una affiatata squadra di autori (anche di Lovanio, e non solo), che si trovano fondamentalmente in una stessa linea di pensiero, sono riusciti, con ricchezza di mezzi, industriosità di operazioni e larghezza di amicizie, a monopolizzare ed imporre una interpretazione – secondo noi – scentrata [...] una interpretazione quasi monocorde, cioè non nel senso di quell'abbraccio di cui abbiamo detto in antecedenza». Una delle caratteristiche più preoccupanti di questa scuola di pensiero, secondo il parere anche di mons. Marchetto, è la contrapposizione tra Giovanni XXIII e Paolo VI: il primo è additato come araldo della "modernità" e artefice di riforme strutturali nella Chiesa; riforme che non hanno potuto vedere la luce per il freno imposto dal successore. In realtà, come dimostrato sopra, tale visione è del tutto fuori luogo; sia papa Giovanni XXIII che Paolo VI hanno interpretato il Concilio Vaticano II in continuità con la Tradizione della Chiesa, hanno inteso i vescovi ed i sacerdoti come custodi e divulgatori dell'unica ed immutabile dottrina della Chiesa, docili ed in comunione con il successore di Pietro, il papa.Ritengo che, per prepararci alla ormai imminente visita del papa nelle nostre terre, dobbiamo conformarci anche a questo suo pensiero sul Concilio e sulla Chiesa. Di seguito potrete trovare i link agli articoli su cui mi sono basato per scrivere questo post:
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