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giovedì 20 gennaio 2011

Intervista al cardinale Bartolucci

Voglio segnalare questa interessante intervista apparsa sul periodico "30Giorni", diretto da Giulio Andreotti, al cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Sistina. In questa intervista il cardinale ripercorre, grazie alle domande di Paolo Mattei, la sua vita alla scoperta della musica sacra e della polifonia romana, durante la quale fu inoltre direttore della cappella musicale del Duomo di Firenze, del Laterano e della Basilica Liberiana. Non mancano dei riferimenti all'evoluzione (o forse sarebbe meglio parlare di involuzione) della musica sacra, commenti molto significativi se pensiamo che arrivano, oltre che da un valente compositore, da un uomo che ne ha vissuto e contribuito a scriverne la storia, a partire da quando, per quattro anni, fu vice di Lorenzo Perosi (sotto papa Pio XII), per poi lavorare per papa Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II; per concludere con un'opinione del porporato sulla musica sacra oggi.

La porpora e il coro

«Credo che la mia nomina sia un richiamo di questo Papa, amante della bellezza, a non lasciare che si perda definitivamente tanta ricchezza musicale». Intervista con il neocardinale Domenico Bartolucci

Intervista con il cardinale Domenico Bartolucci di Paolo Mattei

Nel concistoro dello scorso 20 novembre Benedetto XVI ha creato cardinale monsignor Domenico Bartolucci. Nato il 7 maggio del 1917 a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, Bartolucci è stato per più di quarant’anni, dal 1956 al 1997, maestro direttore perpetuo della Cappella musicale Pontificia “Sistina”. Successore di monsignor Lorenzo Perosi in questo incarico, il neoporporato, durante il pontificato di Giovanni XXIII, riorganizzò la Cappella musicale del Papa, le cui origini risalgono alla Schola cantorum romana dei tempi di Gregorio Magno.
Bartolucci, tra i più autorevoli interpreti di Giovanni Pierluigi da Palestrina – che della Cappella Sistina fu cantore –, è accademico di Santa Cecilia e prolifico compositore di musica sacra. Lo abbiamo incontrato a Roma, dove vive.

Si aspettava questa nomina, eminenza?
DOMENICO BARTOLUCCI: Non ci avrei mai pensato. Quando l’ho saputo dal cardinal Bertone ho avvertito una forte scossa interiore. So che il Papa ha stima di me, ma la mia nomina credo sia un richiamo al valore della musica sacra nella liturgia.
La musica: il filo conduttore di tutta la sua vita…
L’ho amata fin da bambino. Mio padre, un operaio, era un cantore appassionato, mi portava sempre con lui quando andava a cantare nel coro della Compagnia dei Neri, una confraternita laicale di Borgo San Lorenzo.
E gli studi?
Solfeggio e canto, fin dalle elementari. Poi, verso i dieci anni, in seminario a Firenze, incontrai il grande Francesco Bagnoli, maestro di cappella di Santa Maria del Fiore.
In seminario però ebbe delle difficoltà con le autorità…
I regolamenti erano duri. Non potevo suonare il pianoforte per più di mezz’ora al giorno, e non tutti i giorni. Poi, nel ’29, mi ritrovai davanti a un armonium durante la festa dell’Immacolata, ad Arcetri, e sfortuna volle che il parroco di quella chiesa fosse anche il mio professore di latino e greco in seminario: se suona così bene – pensò –, vuol dire che si impegna troppo nell’approfondimento della musica e troppo poco in quello delle lingue classiche… Ottenne che fossi interdetto dallo studio della musica durante l’anno e che mi fosse impedito di suonare.
Una tragedia…
Ero un tipo pervicace, e seppi organizzarmi. Incominciai a “suonare in silenzio”.
Cioè?
Mi costruii una tastiera di cartone, coi tasti disegnati sopra. La “suonavo” nascondendola sotto il banco. Mi esercitavo in quel modo.
E componeva?
Di tanto in tanto riuscivo a verificare su un pianoforte vero quanto avevo creato nella mia testa “suonando” sulla tastiera finta.
Che cosa scriveva?
Laudi alla Madonna, messe a più voci. I superiori non ne volevano sapere. Mi accusavano di essere un presuntuoso. Fui tentato di abbandonare il seminario.
Addirittura…
Fu il mio confessore che mi convinse a non mollare.
Immagino che le cose poi iniziarono ad andare per il verso giusto…
Dopo un po’ di tempo tutto si sistemò. A quattordici anni iniziai il mio servizio di organista a Santa Maria del Fiore. E incominciai a comporre con più serenità mottetti, madrigali, cantate, laudi, oratori… Uno dei mottetti più belli, Super flumina Babylonis, lo scrissi a diciassette anni.
In quale anno giunse a Roma?
Nel 1942. Nel frattempo, nel ’34, ero stato ordinato prete e avevo continuato a studiare con Bagnoli, e anche col maestro Vito Frazzi, docente nel Conservatorio di Firenze. Là, nel ’39, mi diplomai in composizione.
E a Roma, che cosa faceva?
Ero ospite al collegio Capranica e continuavo a studiare, al Pontificio Istituto di Musica sacra e all’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Facevo il pendolare tra Firenze e Roma, perché contemporaneamente dirigevo la Cappella di Santa Maria del Fiore.
In quel periodo fece anche il parroco…
Nel ’45, a Montefloscoli, dove mi mandò l’arcivescovo Dalla Costa. Mi ricordo che spesso componevo le mie musiche in treno. Sempre nel ’45 fui nominato maestro sostituto della Cappella musicale di San Giovanni in Laterano. L’anno “decisivo” fu il ’47.
Perché?
Assunsi la direzione della Cappella Liberiana di Santa Maria Maggiore.
Ruolo che fu già di Pierluigi da Palestrina…
Eh sì. Rimasi impressionato dal modo di cantare “romano” e ne scrissi anche al mio maestro. Per la Basilica ho composto tanta musica liturgica secondo il messale antico. Antifone, messe, mottetti, offertori… Furono eseguiti regolarmente fino alla riforma postconciliare.
Un altro anno fondamentale fu il ’56, eminenza…
Beh, sì, naturalmente, quando, dopo la morte di Lorenzo Perosi, divenni direttore perpetuo della Cappella musicale pontificia Sistina, della quale ero vicedirettore già da quattro anni. Raccoglievo l’eredità di quella “Scuola romana” che dai tempi di Pierluigi da Palestrina custodiva la tradizione del gregoriano e della polifonia.
Iniziò allora un lungo e fecondo periodo…
Mantenevo anche l’incarico di maestro della Liberiana, e quindi ero impegnato su due fronti. Come direttore della Sistina, mi venivano commissionate di continuo musiche nuove per le liturgie papali.
All’inizio fu “al servizio” di Pio XII e di Giovanni XXIII.
Monsignor Capovilla mi suggeriva i desideri di papa Roncalli, e componevo messe, offertori e mottetti per le liturgie da lui presiedute. Scrivevo in continuazione, anche per ricorrenze particolari: ricordo il Tu es Petrus per l’incoronazone di papa Giovanni, l’Attende Domine, quando, nel 1959, lo stesso Pontefice annunciò la convocazione del Concilio, la Missa pro defunctis per i funerali sia di Pio XII che di Giovanni XXIII. Ma eseguivo soprattutto le celeberrime messe di Pierluigi da Palestrina.
Nella più pura tradizione romana.
Certo, “a cappella”, senza accompagnamento d’organo.
Ma papa Roncalli amava quell’accompagnamento.
Vero. Una volta, nel ’60, lo richiese esplicitamente, per una celebrazione dei Vespri a San Pietro. Col coro ci sistemammo sotto l’organo. Ma, all’ultimo minuto, ci accorgemmo che la chiave del mobile in cui lo strumento era chiuso era sparita…
E come finì?
Che cantammo senza organo, come sempre. Poi il cardinale Tardini ci rivelò l’arcano.
Ossia?
Ostentando un finto dispiacere, ci rivelò che la chiave era rimasta, per “sbadataggine”, nella sua tasca.
Fu salva la tradizione della Scuola romana…
Sì. Ma anche Giovanni XXIII amava quella tradizione.
Un Pontefice cui lei è molto legato.
È stato il restauratore della Cappella Sistina.
Perché?
Quando fui nominato direttore, la Cappella era molto disorganizzata, il numero di cantori insufficiente, inadeguata l’educazione musicale dei pueri cantores. C’erano ancora i “falsettisti”, nonostante da tempo la Santa Sede voleva che fossero eliminati. Presentai un progetto di ristrutturazione. Giovanni XXIII lo accolse e mi permise di attuarlo.
Negli anni della sua direzione, la Cappella ha avuto anche un’intensissima attività concertistica.
Abbiamo girato tutto il mondo. Nel ’96 siamo stati anche in Turchia. Cantammo l’Ave Maria a Istanbul, in latino, naturalmente, e la gente piangeva per la commozione. E non credo piangesse perché capiva la lingua…
Che intende dire?
Che dopo il Concilio Vaticano II il latino è stato messo da parte, ed è stato un errore esiziale. Con la promulgazione del Messale del 1970, i testi millenari del Proprium [l’insieme delle parti della messa che varia secondo l’anno liturgico o le memorie particolari, ndr] sono stati eliminati, e lo spazio per i canti dell’Ordinarium [l’insieme invariabile delle parti della messa, ndr] molto ridotto per l’introduzione delle lingue volgari.
È nota, eminenza, la sua avversione per questi cambiamenti.
Mi pare evidente come da allora la musica sacra e le scholae cantorum siano state definitivamente emarginate dalla liturgia, nonostante le raccomandazioni della constitutio de Sacra Liturgia del ’63 e del motu proprio Sacram Liturgiam, del ’64, nel quale il gregoriano è definito «canto proprio della liturgia romana».
Era auspicata la «actuosa participatio» del popolo.
Che da allora non c’è più stata.
Come sarebbe a dire?
Prima di questi “aggiornamenti” il popolo cantava a gran voce durante i Vespri, la Via Crucis, le messe solenni, le processioni. Cantava in latino, lingua universale della Chiesa. Durante le liturgie dei defunti tutti intonavano il Libera me Domine, In Paradisum, il De profundis. Tutti rispondevano al Te Deum, al Veni creator, al Credo. Adesso, si sono moltiplicate le canzonette. Sono così tante che le conoscono in pochissimi, e non le canta quasi nessuno. Poi va corretta la mia fama di essere contro la partecipazione del popolo ai canti.
E come?
Ricordando, per esempio, che già prima del Concilio io curai un repertorio di canti in lingua italiana da destinare alle parrocchie: Canti del popolo per la santa messa, si intitolava. Naturalmente è sparito dalla circolazione.
Che tipo di vita condusse la Sistina dopo il Concilio?
Fummo gradualmente ridimensionati e messi da parte. Diventammo un corpo estraneo nelle celebrazioni. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la Cappella risultava sempre meno coinvolta nelle grandi liturgie papali. La viva bellezza della polifonia palestriniana e del gregoriano andavano trasformandosi progressivamente in oggetti da museo.
Poi arrivò il 1997.
Fui rimosso dall’incarico. Nonostante il “perpetuo” del titolo. Il mio disappunto per il declassamento della Cappella e per alcune cose che avvenivano durante le cerimonie papali era ben noto. Fu comunque un colpo inaspettato.
Che cosa fece dopo?
Ho continuato a lavorare, dirigendo le mie composizioni e quelle degli autori della Scuola romana.
C’è addirittura una Fondazione a lei intitolata.
L’hanno costituita nel 2003 alcuni amici ed estimatori per diffondere la mia musica. Questo mi ha spinto a dedicarmi con calma alla revisione delle mie partiture.
Poi Benedetto XVI nel 2006 l’ha chiamata a dirigere un concerto nella Sistina.
Il 24 giugno di quell’anno, con il Coro polifonico della Fondazione ho diretto brani miei e di Pierluigi da Palestrina. Un evento molto bello.
E ora il cardinalato…
Come ho detto, la mia nomina credo sia un richiamo di questo Papa, amante della bellezza, a non lasciare che si perda definitivamente tanta ricchezza musicale. Che è il cuore pulsante della liturgia.
Ha un particolare desiderio nel cuore?
Mi piacerebbe poter vedere in scena il mio Brunellesco.
Di che cosa si tratta?
È un’opera lirica in tre atti, ambientata a Firenze. Ripercorre le vicende del completamento della Cattedrale di Santa Maria del Fiore con la costruzione della cupola per opera di Filippo Brunelleschi, ai tempi di papa Eugenio IV.

Tratto da: 30Giorni

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