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martedì 2 novembre 2010

Le esequie cristiane

In questa ricorrenza del 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, vorrei riprendere un articolo pubblicato da Zenit, Cantuale Antonianum e Rinascimento Sacro, scritto da don Enrico Finotti, parroco di Santa Maria del Carmine a Rovereto, sulla teologia delle esequie cristiane. L'incipit dell'articolo, che in fondo potrete trovare per intero, dice:

«Uno degli errori oggi più diffusi è quello di sottovalutare le basi teologiche e impostare dei progetti pastorali senza il fondamento dottrinale, con esclusiva attenzione alle urgenze sociologiche.»

L'autore del pezzo fa un confronto fra quelli che sono i capisaldi dottrinali della Chiesa in questo campo e quello che vediamo frequentemente, anche in televisione, e che, in qualche modo, noi stessi talvolta "ci aspettiamo" da un funerale. Il punto di partenza delle esequie cristiane è il fatto che la Chiesa riconosce l'uomo col suo corpo e la sua anima; con la morte corporale la vita dell'uomo non finisce, l'anima è immortale. Questo è il primo dogma che il cristiano riconosce e di cui la liturgia esequiale è permeata; in questo senso il funerale è una celebrazione di vita, la vita ultraterrena che noi ancora non comprendiamo (per noi rimane avvolta nel mistero), ma che aspettiamo anche noi, nella speranza di poter vedere il Signore e ricongiungerci con i nostri cari.
Un altro dei dogmi che riguardano questo momento dell'esperienza di ogni cristiano è l'esistenza del Purgatorio; il peccato dell'uomo è perdonato completamente con l'Assoluzione della Confessione sacramentale, ma le conseguenze del male compiuto restano, e l'anima del defunto le ripara in Purgatorio. A ben guardare oggi questo dogma, sebbene se ne conosca l'esistenza, è poco considerato, quando non si creda addirittura possa essere un'invenzione di Dante Alighieri per scrivere la sua Commedia. Ma la Chiesa non ha smesso di perpetuarlo, nemmeno dopo il Concilio, e la liturgia (sebbene spogliata di alcune sue parti molto toccanti e significative) lo contiene ancora oggi (ad esempio con la pratica delle indulgenze). Come dice l'autore dell'articolo: "La Chiesa non ‘canonizza’ il defunto, ma lo affida a Dio con il cuore contrito ed umiliato e aspetta solo da Lui la lode"; e proprio per questo la liturgia esequiale è penitenziale, il colore liturgico è il nero (o anche il viola), tutti i fedeli sono chiamati alla preghiera perché Dio, onnipotente e misericordioso, tragga a sè l'anima del fratello defunto, purificandola da tutti i peccati compiuti in vita e concedendole la gloria eterna. Nella liturgia pre-conciliare (che potete trovare qui) questo carattere penitenziale era sottolineato in ogni momento, ma in particolare dalla toccante sequenza del Dies irae; con essa i fedeli si fanno quasi portavoce dell'anima del defunto in una toccante supplica dell'anima a Dio, nella quale umilmente chiede di essere salvata prima del giorno del giudizio finale; vi leggiamo: "Cercandomi ti sedesti stanco, / mi hai redento con il supplizio della Croce: / che tanto sforzo non sia vano! [...] Tu che perdonasti Maria di Magdala, / e che esaudisti il buon ladrone, / anche a me hai dato speranza. // Le mie preghiere non sono degne; / ma tu, buono, fa' benigno / che io non sia arso dal fuoco eterno". E' significativa anche un'altra frase di don Enrico Finotti, che dice: "Secondo la parabola evangelica del banchetto nuziale (Lc 14, 7ss.), la Chiesa pone il defunto all’ultimo posto, steso a terra ai piedi della ‘santa mensa’, e attende che Dio stesso, e solo Lui, sorga e dica “Amico, passa più avanti” (Lc 14, 10)".
Non è infrequente oggi, in molti luoghi, trovare un ribaltamento di quello che la Chiesa dice, espressione di questi dogmi dottrinali; talvolta si assite a celebrazioni esequiali in cui il carattere è quello di una festa nuziale, in cui il colore liturgico è il bianco, in cui vengono richiesti "canti allegri" perché il defunto avrebbe voluto così. In qualche modo la tendenza è quella di eliminare completamente dalla celebrazione il suo carattere penitenziale, e quindi eliminare la preghiera per la salvezza dell'anima del defunto. Paradossalmente, dice don Enrico, si finisce così per celebrare in maniera smisurata la vita terrena del defunto, quasi dimenticandosi della dimensione ultraterrena: "Il corpo subisce la fatua celebrazione di ciò che fu nel passato mediante il tumolo, monumento celebrativo che vuole interpretare la personalità dell’estinto. [...] sarà oscurata sia la fondamentale realtà della morte che tutti accomuna, sia dell’umile penitenza che è intrinseca allo stato del corpo morto. Il tumolo potrà avere diverse tipologie, che da quelle storiche arrivano a quell’ingombro di oggetti, cari al defunto, che oggi coprono, talvolta banalmente la bara, ma rappresenta sempre il segno eloquente di quella commemorazione rivolta irrimediabilmente al passato e ormai priva di vita, che sarà tanto più accentuata quanto più si eclisserà il senso della trascendenza e il compimento ultimo nel futuro di Dio". Invece, la penitenza esequiale non vuole essere la tristezza cercata ad ogni costo, ma l'umile riconoscimento che noi uomini non siamo nulla per giudicare quello che spetta all'unico Sommo Giudice: "La Chiesa, ispirando a sobrietà la commemorazione del defunto ed evitando un superficiale elogio, sa bene che solo Dio è il giudice e solo Cristo sa quello che c’è nel cuore dell’uomo (Gv 2, 25)".
Il dolore del distacco dai propri cari è quanto di più triste esista nella vita di un essere umano; la Chiesa non intende accentuare questo dolore, ma nemmeno illuderci di cancellarlo con una gioia frivola che è soltanto umana, e che non ci consola. La morte rimane un grande mistero; il nostro dolore è confortato dalla speranza che il Signore ascolterà la preghiera di chi umilmente lo invoca, specie se unito nel dolore al Figlio Suo Gesù Cristo, morto anch'Egli, sulla Croce, mentre i suoi amati figli lo deridevano e lo schernivano, e alla Madre addolorata, che ha accolto tra le sue braccia il corpo esanime del Figlio, martoriato dal segno dei chiodi, delle spine e della flagellazione. Non sarà forse Lei, che ha sperimentato in modo così crudo questo nostro dolore umano ineluttabile, ad intercedere con forza presso il Signore perché le anime dei nostri cari defunti giungano a Lui? Quali grandi compagni nel dolore abbiamo noi cristiani, Dio stesso ha sofferto per noi! Questa è la consolazione che ci dà Gesù Cristo per mezzo della Chiesa, non quella di cancellare, con cerimonie fintamente gioiose, la sofferenza per il distacco (cosa che è solo un'illusione), ma la certezza che la nostra preghiera, intrisa di questa sofferenza, sarà accolta da chi ha provato un dolore come il nostro (e più del nostro).
Non cessiamo, dunque, di pregare il Signore per i nostri fratelli: la Commemorazione odierna non è una semplice memoria che l'uomo fa di chi lo ha preceduto, un ricordo sterile; ma, nel ricordo dell'amore che per loro abbiamo provato (e che anche loro ci hanno donato), la Commemorazione si fa preghiera. In questo ricordiamo che ancora per tutta la giornata odierna è possibile lucrare l'Indulgenza Plenaria del 2 novembre per i propri defunti alle solite condizioni, mentre fino all'8 novembre una volta al giorno è possibile lucrare l'Indulgenza visitando le tombe dei propri cari in cimitero e pregando, anche solo mentalmente, di fronte ad esse.

Qui il collegamento all'articolo di don Enrico Finotti dal blog Cantuale Antonianum:
Una sintesi della teologia delle esequie cristiane di don Enrico Finotti.

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